Tennis 2022, tra conferme e volti nuovi un uomo solo al comando: Roger Federer

Tennis 2022, tra conferme e volti nuovi un uomo solo al comando: Roger Federer

Tennis 2022, tra conferme e volti nuovi un uomo solo al comando: Roger Federer

Nadal e Djokovic non si arrendono, arrivano i diciannovenni capitanati da Alcaraz; gli italiani si fanno valere, ma gli applausi più calorosi vanno a King Roger.

Nessuno è più grande dello sport, lo sappiamo bene, ma quest’anno a ottobre per qualche attimo ci siamo dimenticati la nota massima, o forse semplicemente abbiamo fatto finta che non fosse vera. Perché in fondo lo sport ha bisogno di storie da raccontare, storie belle, strane, divertenti, a volte drammatiche; storie di uomini e di donne, racconti che colorino le pagine bianche e che vadano oltre le statistiche e i semplici risultati. E la sua storia è di quelle irripetibili.

Il tennista che ha rubato la scena in questo 2022 ha una caratteristica singolare: non ha giocato nemmeno una partita! infatti Roger Federer, perché è dello Swiss Maestro che stiamo parlando, è sceso in campo per la sua ultima partita ufficiale durante Wimbledon del 2021, perdendo contro Hurkacz.

In realtà a ottobre ha giocato un doppio nella Laver Cup, la ricchissima esibizione che vede il campione elvetico tra gli organizzatori. Lo ha giocato in coppia con il suo amico e rivale di una intera carriera: Rafa Nadal. Per la cronaca quel doppio i due lo hanno perso. Ma il risultato era la cosa meno importante; il dopopartita commovente, il pianto di Roger, e di Rafa, il coinvolgimento totale della audience ha sancito l’eccezionalità dell’attimo tanto atteso e nello stesso tempo temuto: il ritiro ufficiale del basilese.

Per mesi ci siamo illusi che lo avremmo rivisto a Wimbledon o in un altro torneo, ma il suo fisico non era d’accordo. In tanti hanno scritto di lui dopo il suo ritiro; piuttosto che tornare sui suoi otto Wimbledon o sui venti titoli del Grande Slam ci limitiamo a parlare di due riconoscimenti meno conosciuti, ma assai significativi.

Roger durante la carriera ha tenuto un comportamento improntato ad assoluta compostezza e sportività. Se nel passato si è sentito il bisogno di istituire lo “Stefan Edberg Sportmanship Award” anche per incoraggiare una condotta in campo non sempre impeccabile di diversi giocatori, negli ultimi vent’anni lo svizzero ha, dall’alto dei successi e del crescente carisma, “imposto” il fair play; questo prima ancora che la impetuosa irruzione dei social ne consigliasse l’osservanza dei fondamenti a chi volesse curare la propria immagine. Il premio, assegnato dai tennisti stessi, è stato vinto per tredici anni consecutivi dal 2005 in poi proprio da lui.

L’asso di Basilea può infine affiancare, ai titoli Slam e ai tredici sportmanship, diciannove allori nel “Fan’s Favourite Award”, titolo assegnato dai tifosi votanti sulla piattaforma di voto sul sito dell’ATP, che fa suo ininterrottamente dal 2003, quando era solo il giovane vincitore di una edizione di Wimbledon.

Questi premi sono forse marginali ma secondo noi danno la misura del suo immenso impatto nel mondo del tennis e dello sport. Grazie di tutto, King Roger.

I Big Three sono così diventati i Big Two, e che ne è stato di loro? La stagione di Rafa Nadal si può dividere in due parti. Una prima praticamente perfetta con le vittorie a Melbourne e a Roland Garros. Queste due vittorie lo hanno ingolosito e lo spagnolo ha deciso di presentarsi anche a Wimbledon, scelta che forse oggi maledice. Infatti, si è infortunato, probabilmente spingendo oltre il limite il suo fisico. La seconda parte della stagione è stata molto meno soddisfacente: ha perso a Flushing Meadows e alle ATP Finals e a quel punto si è preso una vacanza anticipata saltando la Coppa Davis. La stagione di Novak Djokovic è stata dimezzata da alcune scelte politiche che lo hanno escluso da Melbourne e da New York, ma il serbo ha comunque centrato alcuni traguardi molto importanti tra cui Wimbledon e proprio le Finals.

Anche per quanto riguarda il tennis femminile parliamo prima di tutto di un ritiro, quello di Serena Williams. La campionessa di colore entra di diritto nel gruppo ristrettissimo di campionesse che hanno segnato un’epoca non solo dal punto di vista tennistico. Serena è diventata negli anni un personaggio pubblico esattamente come a suo tempo lo è stata Martina Navratilova o prima di lei Billie Jean King: il tennis femminile, alla ricerca di nuove eroine, perde una straordinaria protagonista. Le è mancato solo il Grande Slam, toltole dalla nostra Roberta Vinci che l’ha eliminata in una storica semifinale a New York nel 2015.

Se invece parliamo di tennis giocato è stato sicuramente l’anno di Iga Swiatek: la tennista polacca ha raggiunto la prima posizione mondiale vincendo ben due prove del Grande Slam e si presenta all’inizio della stagione 2023 come la tennista da battere.

I tennisti italiani hanno avuto una stagione in altalena; forse era lecito attendersi di più dopo il 2021 e invece siamo stati testimoni di qualche stop di troppo per i nostri.

Il punto di svolta della stagione di Matteo Berrettini è stata la sua improvvisa positività al COVID-19 che lo ha costretto al ritiro a Wimbledon. Il giocatore che ha preso il suo posto nel tabellone è arrivato tranquillamente nei quarti di finale dove ha perso da Nick Kyrgios. È lecito pensare che Matteo avrebbe affrontato da favorito il quarto di finale e superandolo non avrebbe nemmeno trovato l’avversario, poiché Nadal ha rinunciato a scendere in campo. Quindi, con un pochino di fortuna probabilmente Matteo avrebbe potuto disputare la finale, esattamente come l’anno precedente.

È andata così purtroppo e il resto della sua stagione non è stato particolarmente esaltante oltre che caratterizzato da due infortuni. Il primo, una piccola operazione alla mano destra, lo ha costretto a disertare l’intera stagione sulla terra battuta; il secondo gli ha praticamente dimezzato la stagione autunnale. Matteo chiude così il 2022 retrocedendo di una decina di posizioni nella classifica.

Anche il giovane Jannik Sinner è sceso più o meno dello stesso numero di posizioni in classifica del romano. Ha giocato bene a Wimbledon dove ha perso al quinto set dal vincitore Djokovic e anche agli US open dove ha perso sempre ai quarti contro Carlos Alcaraz, che poi avrebbe vinto il torneo facendosi anche annullare un match point dallo spagnolo. Qualche rimpianto, belle imprese ma nel complesso non ci sono stati i miglioramenti nel gioco che tutti si aspettavano.

Chi registra un miglioramento nella classifica è sicuramente il ventenne Lorenzo Musetti che è saldamente il numero tre d’Italia. È cresciuto al punto da vincere il torneo di Amburgo in estate battendo in finale proprio Alcaraz. Lo spagnolo, nuovo numero uno del mondo anche per le vicissitudini dei migliori, è la vera novità della stagione appena conclusa.

Per chiudere l’Italia a novembre ha perso una sfortunata semifinale in Coppa Davis al cospetto del Canada che poi ha vinto la manifestazione e stata una grossa occasione persa Ma la squadra c’è, è solida e può riprovare già dal prossimo anno la scalata alla Coppa Davis.

Ci fermiamo qui, ma gennaio si avvicina, con gli Australian Open: da lì riprenderà il nostro racconto.

Buon tennis a tutti!

 

Danilo Gori

Ozzy Osbourne, il Principe delle Tenebre è ancora vivo. Ma lui minimizza…

Ozzy Osbourne, il Principe delle Tenebre è ancora vivo. Ma lui minimizza…

Ozzy Osbourne, il Principe delle tenebre è ancora vivo. Ma lui minimizza…

Buon settantaquattresimo al sacerdote del metal, eminenza assoluta del dark sound. Una vita spesa tra rock ‘n roll ed eccessi. Il peggiore? Un reality.

In tanti glielo chiedono: “Ozzy, sei ancora vivo?”. E lui sorride, sempre. Di recente ha enunciato i suoi mali, tra i quali il morbo di Parkinson, e le medicine che assume per non sentire i dolori vari che lo affliggono. Ma è ancora qua, affiancato dalla seconda moglie Sharon, figlia del produttore discografico dei Black Sabbath negli anni Settanta.

Nascere a Birmingham nel 1948 significa essere baciati dalla buona sorte; implica infatti affacciarsi all’adolescenza ballando al ritmo dei Beatles e dei Rolling Stones. Ozzy è I fatti uno dei nipotini dei Fab Four, un coacervo di giovani musicisti di bellissime speranze che partono dallo steso modello per allontanarsene seguendo strade diverse.

C’è la psichedelia dei Pink Floyd, il prog dei Genesis o dei Traffic; il blues rivisto dei Cream e il rock degli Who. E poi c’è chi comincia a distorcere il suono delle chitarre: Led Zeppelin, e successivamente artisti come i Judas Priest. E come i Black Sabbath di John Osbourne, detto Ozzy dai compagni di scuola, per la sua difficoltà a pronunciare il proprio cognome.

Anni difficili quelli della scuola; si scontra spesso con gli altri ragazzi; in particolare con quello di origini italiane, Anthony Iommi detto Toni, che ogni tanto lo picchia.

Incredibilmente qualche anno dopo I due si ritrovano nello stesso gruppo musicale. Il successo arriva presto, e qualcuno parla addirittura di Sab Four. Il primo disco porta il loro nome, e la hit che apre il lato A, che si chiama anch’essa come la band, è ancora oggi considerata uno dei brani più cupi di tutta la storia del metal. Variazioni di ritmo e di volume, accordi disturbanti e la voce acuta e sinistra del ragazzo di Birmingham che quando parla pronuncia con fatica le proprie generalità.

C’è di più: Ozzy, insieme con altri frontman come Rob Halford o Lemmy Kilmister dei Motorhead, fissa le componenti dell’iconografia dell’hard rocker, tra borchie e giubbotti o gilet di pelle nera.

I Sabbath scrivono testi zeppi di riferimenti alla religione e al diavolo, a droga e disagio mentale. Vengono presto etichettati come band satanica; loro respingono, ma l’entourage capisce che le chiacchiere sulla stregoneria sono funzionali alle vendite ed alla popolarità. Cavalcano quindi l’ambiguità, e in questo Ozzy è un maestro. Tutto bene quindi, ma…

Al successo degli LP successivi (soprattutto Paranoid, con pezzi memorabili come la title track, War Pigs e Iron Man) il nostro reagisce cadendo nella spirale alcool-droghe; nel giro di pochi anni viene licenziato dalla band perché non più affidabile.

È il disastro; Osbourne si dà se possibile ancora di più agli stravizi. A salvarlo giunge Sharon, la sua pazientissima e devota seconda moglie e poi anche manager: lo spinge a reagire e lo aiuta a crearsi una carriera da solista. Fonda i “Blizzard of Ozz” e negli anni ottanta ritrova la via del successo, sempre nel segno del dark sound e degli orpelli diabolici.

Durante un concerto a Des Moines nello Iowa raccoglie un pipistrello e gli stacca la testa con un morso. Presto corre sul filo la notizia della sua morte per un’infezione causata dall’animale, e per un po’ tutti ci credono (non ci sono ancora le notizie in tempo reale). Poi arriva la smentita; Ozzy è vivo, il pipistrello molto meno; era vivo quando l’ha decapitato, anzi no.

Il nostro eroe corre a vaccinarsi e gongola al pensiero del putiferio che sta per scatenarsi: per anni gli chiederanno dell’accaduto, da David Letterman ad altri.

Perché nei decennali alti e bassi, nelle sue discese e risalite, Ozzy si è sempre riproposto al pubblico senza filtri e senza farsi sconti nel raccontare debolezze e follie, come quando nel corso di una crisi di nervi quasi strangolò la consorte; o quando, racconta stavolta Iommi nella sua autobiografia, distrusse una camera d’albergo e vi smembrò il corpo di uno squalo. Forse proprio la sua trasparenza gli ha consentito di essere credibile ogni volta che è salito sul palcoscenico a recitare il suo personaggio, che non è mai uscito di moda.

Credibile anche quando prende parte anche al film “Trick or treat”, in italiano “Morte a 33 giri”, nella parte di un religioso oscurantista che vede il diavolo ovunque. E il diavolo, forse stanco di sentirsi osservato da lui, lo possiede seduta stante.

E soprattutto quando, sotto la guida di Sharon, è il protagonista nei primi anni del secolo del reality “The Osbournes”, gioioso e folle TV show che entra nella casa del cantante e ne segue le vicende familiari.

Sembra un assurdo che il demonio si presti a situazioni da piccolo schermo, ma è un grandissimo successo personale. La rockstar spettacolarizza anche l’intimità dei suoi cari, e nelle interviste successive non ha problemi nell’ammettere come i suoi figli adolescenti abbiano sofferto di reali problemi di dipendenza dalle droghe negli anni delle riprese televisive.

E, visto il favor di pubblico, perché non insistere? Venti anni dopo, nel settembre del 2022, la coppia annuncia l’arrivo di una nuova sit-com che celebrerà i settant’anni di Sharon, la figlia Kelly che diventa madre e, ovviamente, le gesta del capofamiglia. La promessa di divertimento, risate e lacrime è già stata lanciata, il titolo Home to roost (letteralmente “a casa per riposare”, ma anche “situazioni spiacevoli”, secondo una frase idiomatica) è tutto un programma. Televisivo.

Negli anni non si è fatto mancare nulla; ha diversificato la sua arte e, forse, agli occhi di alcuni fan della prima ora, è parso svendersi. In realtà, senza considerare che il maligno non dovrebbe avere troppi scrupoli di coerenza, l’anziano istrione non ha mai dimenticato la propria natura primigenia di Padrino del metal, che è poi un altro dei titoli che si possono utilizzare per chiamarlo in causa.

Sul palco la sua presenza carismatica attraversa i decenni per giungere ancora più potente ai nostri giorni; vedere per credere le immagini del concerto di Birmingham del 2017. I video dell’evento, chiamato “The End” proprio perché il loro ultimo gig insieme, ci mostrano un Osbourne muoversi ondeggiando in avanti e indietro, aggrappato all’asta del microfono. 

A differenza di quella di Paul Stanley, leader dei Kiss, o di Geddy Lee, bassista e cantante dei Rush, la voce di “The Ozz” è incredibilmente intatta. Parlare di un patto con Belzebù, con lui è fin troppo facile. Quale sia il filtro magico che ha inghiottito prima di salire sul palco davanti alla sua gente, la figura sinistra, segnata dal tempo eppure così vispa, il sorriso enigmatico e la risata satanica mandano ancora in visibilio i fan.

E lui, affiancato dal suo miglior nemico (o peggior amico, fate voi) Toni Iommi, torna ad officiare il rito di quella misteriosa religione che è l’heavy metal; lui che tanti anni prima ha contribuito a scriverne le tavole della legge.

Lunga vita a te, Principe delle tenebre. God bless you!

Danilo Gori

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Quarantatré anni dopo la sua uscita, “The Wall” è un concept album ancora attualissimo per l’universalità dei temi trattati sulla condizione umana, dallo straniamento all’impossibilità di comunicare.

Andare oltre il Muro leggendo i testi dell’opera rock “The Wall”, è un esercizio che ci permette di ritrovare alcuni temi che si andavano imponendo alla sensibilità della band inglese. I Pink Floyd erano all’apice del loro successo con il tour precedente legato all’album “Animals”; le cifre di vendita e le presenze ai concerti sono sbalorditive e cresce nel leader di quegli anni, il bassista e cantante Roger Waters, la vertigine e la sensazione che il megaconcerto sia un luogo dove non ci sia un vero incontro, ma una festa vuota, dove si erge un bastione invalicabile tra la band e la gente. Il doppio vinile uscito nel novembre del 1979 ha le sue radici quindi nel precedente tour mondiale dei Pink.

Straniamento, impossibilità di raggiungere i fan, alienazione mentale; quest’ultima è una impressione forte nel gruppo, che alcuni anni prima ha visto uscire dalla formazione il fondatore Syd Barrett proprio per progressivi disturbi mentali. Il muro della copertina, completamente bianco di mattoni tutti della stessa dimensione, ci ricorda le pareti immacolate e Marcello Mastroianni con la frusta in mano, regista in crisi che non sa più cosa dire e come dirlo del capolavoro felliniano “8 e ½”.

Nel primo vinile dominano la paura e le domande. Certo la paura della guerra, che priva il piccolo Roger del padre, caduto nella Battaglia di Anzio del 1944, e che si palesa con il rumore degli aeroplani nella prima traccia “In the flesh?”. Ma anche quella di vivere.

Da qui in avanti si impone la figura della madre, che instilla nel figlio le proprie fobie: in “The thin ice” lo mette in guardia dal rischio di camminare sul “ghiaccio sottile della vita moderna”. Ricorrono le parole fear (paura, appunto), reproach (rimprovero) dei milioni di occhi rigati di lacrime (tear-stained), ossia il ricatto dei cari in pena per il piccolo. Quando il ghiaccio si rompe il bambino cade nell’abisso ed esce di testa (out of his mind). La scena si completa con l’immagine del figlio spaesato che si aggrappa al ghiaccio frantumato.

Nella canzone “Mother” ritorna il terrore della guerra, del non essere accettato, dell’essere bullizzato come accadeva a scuola; la paura di soffrire per amore. Tutto viene espresso con domande che Waters pone alla madre: “mamma, pensi che sganceranno la bomba? Che la mia canzone piacerà? Che io mi potrò fidare del governo? Mamma, mi spezzerà il cuore?

Ai suoi dubbi risponde il chitarrista David Gilmour, che, come controcanto, utilizza le parole nightmare (incubo) e di nuovo fear, e per contrasto afferma che la madre lo terrà cozy and warm (coccolato al caldo), che gli sceglierà le fidanzate, ma che lo terrà sempre d’occhio.

Nella tripla “Another brick in the wall” parte prima e seconda e “The happiest days of our lives” Waters ricorda i professori che evidenziavano le debolezze (weakness) dei bambini, e immagina gli stessi a casa frustrati e succubi di mogli psicopatiche, di nuovo parlando di disagio mentale, come visto in precedenza. Il coro degli alunni che chiedono urlando “non abbiamo bisogno di questa educazione, professori, lasciate i ragazzi da soli” è uno dei pezzi più famosi dell’opera e della musica moderna in generale; quasi un sogno, il desiderio del giovane Roger.

La riflessione sulla guerra ritorna in “Goodbye blue sky”, ed è la fine dell’innocenza. Ritornano gli uomini spaventati (frightened), che scappano. Ritornano le domande: “perché scappiamo se ci avevano promesso un mondo nuovo sotto un cielo blu chiaro?”.

Pink (questo il nome del protagonista, alter ego di Waters) è ormai adulto ed è diventato una rockstar, ma il suo processo di alienazione prosegue; sta costruendosi il muro che lo separa da tutto. Affronta una crisi (One of my turns) e domanda alla donna che è con lui se vuole dormire, fare l’amore o imparare a volare (la vuole uccidere?) o se vuole vederlo volare. “The Wall” è ormai costruito.

Nel secondo vinile il protagonista prende la scena, e i testi si soffermano maggiormente sulle sue azioni; la madre, l’assenza del padre, il maestro e la moglie lo hanno aiutato a porre mattoni su mattoni.

Ora assistiamo alla sua ricerca di qualcuno oltre la parete. In “Hey you” domanda aiuto e chiede se qualcuno lo sente. Come sempre nel tentativo di risalire ci sono momenti in cui tutto sembra vano, e una voce dice: “il muro è troppo alto, e i vermi gli stanno mangiando nel cervello”, con un nuovo riferimento all’aspetto psichico. Nel finale appare però anche uno sguardo al futuro: “hey tu, non dirmi che non c’è speranza; uniti resistiamo, divisi cadiamo”.

Pink si rende conto che a casa non c’è nessuno, che è da solo; nella famosissima “Confortably numb” (Piacevolmente intontito) vince le paure che ne derivano con delle pillole, e in una traccia precedente c’è un riferimento alle siringhe. Anche il ricordo del passato e del padre sembra scomparire.

In “The show must go on” Pink continua a riflettere, prega i genitori di riportarlo a casa, e si chiede: “è troppo tardi?”. È forse possibile invertire la strada intrapresa?

Forse lo sarà, ma il protagonista dovrà passare attraverso un incubo in cui il suo altro è un dittatore che cerca i diversi, neri, ebrei o omosessuali. Allora aspetta che il delirio passi, per prendersi una pausa (“Stop”) e di nuovo chiedersi: “è sempre stata colpa mia?”.

La redenzione passa attraverso il processo (The trial). Riappaiono quindi il maestro e la madre, i rimproveri e le offerte di rifugio sicuro nella casa di quando era bambino.

Il giudice lo dichiara quindi colpevole di aver fatto soffrire tante persone, e lo condanna a tornare in mezzo ai suoi pari. Pink deve riprendere a mostrare le sue paure più profonde. Il muro va abbattuto! La sua salvezza passa proprio attraverso le angosce di esporsi.

Le parole dell’ultima traccia, “Outside the wall”, ossia “Fuori dal muro” sono forse una riflessione generale sui rapporti umani: le persone buone, che ci vogliono bene, ci sostengono e ci fanno stare in piedi. Alcuni cadono, dopotutto non è facile resistere quando si sbatte contro il muro di un idiota matto.

I rapporti umani si interrompono contro le pareti che, a turno, ognuno di noi alza e abbassa, senza soluzione di continuità.

 

Danilo Gori

ATP Finals: Novak Djokovic, il Maestro 6 tu!

ATP Finals: Novak Djokovic, il Maestro 6 tu!

ATP Finals: Novak Djokovic, il Maestro 6 tu!

A Torino il serbo si impone per la sesta volta, sette anni dopo l’ultimo successo. Non è il numero uno del mondo per ragioni esclusivamente extra-tennistiche.

Novak Djokovic vince il titolo di Maestro del circuito! Lo fa per la sesta volta e affianca Federer, che ha vinto più volte di tutti la competizione. Si è presentato per tutta la settimana dal 13 al 20 novembre con una livrea verde che ci ha ricordato l’Enigmista, il nemico che sfidava Batman a colpi di indovinelli. Qui il mistero è il solito: ma come fa a vincere sempre?

Il grande campione serbo ha dimostrato ancora una volta di essere fatto di un materiale indistruttibile. Ha difeso le sue scelte in materia di vaccini fino a dover accettare l’esclusione dall’Australian Open a gennaio; per lo stesso motivo non ha potuto entrare negli Stati Uniti ed ha così saltato tutte le manifestazioni in quel paese, soprattutto gli US Open.

Ha vinto Wimbledon, ma non ha incassato i punti destinati al vincitore per la decisione dell’Associazione Tennis di penalizzare il torneo che aveva deciso di non ammettere tennisti russi e bielorussi. Insomma, c’era di che scoraggiarsi. Novak invece ha pensato solo a farsi trovare pronto fisicamente e mentalmente ogni qualvolta gli avessero permesso di giocare.

Da settembre ha giocato tre tornei, vincendone due e sfiorando il titolo nel terzo, a Parigi, sconfitto all’ultima curva da Holger Rune, diciannovenne di cui parlammo subito bene commentando il Roland Garros (che occhio clinico).

A Torino ha vinto cinque volte perdendo solo un set, al tie-break con Daniil Medvedev. In finale ha disposto del Norvegese Casper Ruud in due set, 75 63, prevalendo sul campo più nettamente di quanto non dica il punteggio. I suoi colpi piatti viaggiavano spediti su una superficie molto veloce, e il giocatore nordeuropeo semplicemente non aveva le armi per metterlo in difficoltà.

Nel discorso successivo alla premiazione, Novak Djokovic è andato a braccio e a cuore, esprimendosi in un ottimo italiano e scatenando l’affetto del pubblico torinese.

Non sempre il tifo è dalla sua parte in giro per il mondo: perché è il più forte, per certe sue scelte, perché vince troppo. In Italia trova sempre le giuste emozioni e il calore del pubblico.

A trentacinque anni è ancora l’uomo da battere, e la stagione 2023 si è già aperta nel modo migliore, con le autorità australiane che hanno rimosso il ban al suo ingresso nel continente oceanico. Gli avversari sono avvisati…

Capitolo Rafa Nadal. L’asso spagnolo rientrava da un infortunio, e la superficie velocissima non lo ha aiutato. Ha perso il primo incontro con Taylor Fritz lottando nel primo set ma arrendendosi ai missili del suo avversario nel secondo. Due giorni dopo ha ceduto al canadese Auger-Aliassime, ed è stato eliminato. Si è scosso nel terzo match, inutile ai fini della classifica ma fondamentale per il suo orgoglio, e ha battuto un Ruud già ammesso alle semifinali.

Quello delle ATP Finals è l’unico alloro che tarda ad arricchire ulteriormente la sua ponderosa bacheca. Il maiorchino deve avere una vetrinetta in granito e alabastro rinforzato che fa municipio in quel di Manacor, ma l’edicola speciale approntata per ricevere il trofeo del Masters rimarrà sfitta per un anno ancora.

L’eventualità peraltro non sembra togliere il sonno al campione iberico; in conferenza stampa, scrollando la testa senza posa, ha riconosciuto il valore dell’avversario, la difficoltà di rientrare dopo un infortunio e di misurarsi da subito con giocatori forti.

Mentre scriviamo è già partito per lucrosissime esibizioni in Sudamerica. Ha un anno più di Novak, ma è più provato nel fisico dopo anni di battaglie e di tennis dispendiosissimo; speriamo ritrovi la carica per una nuova stagione ai vertici, dopo un 2022 che lo ha portato comunque sul trono di Melbourne e di Parigi. Il pubblico lo segue come sempre, il suo ingresso in campo a Torino contro Fritz è stato salutato da un entusiasmo straordinario (cui chi vi scrive ha nel suo piccolo contribuito), vederlo giocare è sempre inspiring.

Vabbè, ma non c’erano mica solo loro due.

Vero.

Stefanos Tsitsipas, il bel greco vincitore a Montecarlo, come scrivemmo ad aprile, ha il difficile compito di raccontarci quanto fosse bravo Roger Federer. Il suo gioco lo ricorda molto.

È l’unico a colpire di rovescio a una mano ed è quello che meglio di tutti attacca la rete. Inoltre, piace molto al pubblico femminile, e qui batte anche Roger. Ma solo qui.

È bravissimo e vederlo in azione fa bene ad ogni appassionato; chissà se troverà la formula per fare un ulteriore salto di qualità e vincere uno Slam. A Torino ha perso una partita ben avviata contro il russo Rublev; forse gli farebbe bene prendersi una vacanza dal proprio clan, una famiglia con un padre allenatore un po’ troppo severo (la storia di questo sport è piena di genitori ingombranti, arroganti e a volte purtroppo anche maneschi).

Daniil Medvedev quest’anno è stato anche numero uno del mondo, ma non ha saputo essere sufficientemente continuo per difendere la posizione. Qui ha perso tre volte su tre, sempre al tie-break decisivo! Un record alla rovescia.

Fritz e Rublev sono stati semifinalisti inattesi ma bravi ad approfittare delle occasioni presentatesi, così come anche il finalista Ruud, uno dei tennisti che più ha compiuto progressi nella stagione appena terminata. Mia opinione: gli organizzatori non devono essere stati troppo contenti di avere questi tre semifinalisti, forti ma non molto personaggi. Per loro fortuna il quarto era Novak Djokovic, che ha messo a posto le cose…

Ne ho nominati sette, quindi ne manca uno. Felix Auger-Aliassime è stato il protagonista dell’autunno, con una rincorsa a suon di vittorie che gli è valsa la qualificazione per Torino. Ma per arrivarci si è spremuto oltre, ed è stato eliminato anzitempo. È giovane, ci sarà tempo.

L’anno si chiude qui, manca solo la Coppa Davis, in scena a Malaga proprio in questa settimana, C’è l’Italia, ma Sinner e Berrettini hanno marcato visita e noi riponiamo le speranze di bella figura soprattutto in Musetti e Sonego. Sarà dura sin dal primo turno, con gli USA di Taylor Fritz gasatissimo protagonista nel capoluogo piemontese.

Speriamo sia tanto stanco…

Danilo Gori

Vittorio De Sica, il sorriso e il perdono

Vittorio De Sica, il sorriso e il perdono

Vittorio De Sica, il sorriso e il perdono

Nella dedica di Ettore Scola in “C’eravamo tanto amati” l’omaggio a un immortale del cinema, il Vittorio De Sica regista ma non solo.

Che tempo c’era là fuori, quando Vittorio se ne è andato?

Forse c’era la nebbia, lana soffice e magica, misteriosa e tiepida del sorriso di Totò il Buono di “Miracolo a Milano”; o magari la pioggia, intrigante complice delle chiacchierate segrete di Micol Finzi-Contini e Giorgio quando l’inganno nazista era ancora solo un sinistro presagio.

O magari splendeva il sole, che baciava le imprese degli sciuscià a cavallo per le strade di Roma, o del piccolo Bruno in trattoria con il padre alla ricerca del ladro di biciclette; bambini che respirano istanti di riscatto da una vita di miserie. Chissà…

Perché quando se ne va un grande, una immagine persistente, al servizio del nobile poeta o dell’umile cronista, è quella del meteo partecipe del dolore universale. “Anche il sole indirizza i suoi caldi raggi verso il caro che prende congedo”, “il cielo si unisce alla tristezza di tutti rovesciando le sue lacrime dolenti”. Il caldo e il freddo come espressione del turbamento dell’ordine naturale, come omaggio a una personalità unica.

Ci avrà pensato Ettore Scola, nel 1974, regista in uscita con “C’eravamo tanto amati”? Il suo capolavoro era pronto: trent’anni di storia italiana, dalla lotta partigiana alla ricostruzione, dal boom agli anni Settanta. Le speranze e le illusioni, la voglia di cambiare il mondo e il mondo che ci cambia. “Il futuro è passato, e noi non ce ne siamo nemmeno accorti”, dice Gianni Perego, ex idealista ora arricchito palazzinaro con il volto di Vittorio Gassman. “Vivere come ci pare e piace costa poco, perché lo si paga con una moneta che non esiste: la felicità” rilancia Nicola – Stefano Satta Flores, l’intellettuale che ha lasciato la famiglia pur di inseguire velleitari sogni di un avvenire migliore.

Sì, secondo noi Scola ci ha pensato. E si deve essere detto: ai miei personaggi manca qualcosa. E cosa se non il sorriso?

Vittorio De Sica ha vinto quattro Oscar, e avrebbe vinto forse anche quello alla carriera, come Fellini, se un brutto male non se lo fosse portato via troppo presto, proprio nel 1974. Maestro straordinario della regia, è stato anche cantante e attore, sovente criticato per aver prestato la sua arte a film non degni di nota.

Ha dato fondo al proprio talento dando vita spesso a personaggi leggeri e furbacchioni. Nelle sue interpretazioni del periodo più maturo fanno capolino alcune costanti, talmente evidenti da farcele immaginare proprie dell’attore stesso. Una certa cialtroneria intanto: la ritroviamo nel sindaco che pensa di poter interpretare il codice della strada a proprio uso e consumo, e viene multato dal “Vigile” Alberto Sordi. O nel presidente di un ente di difesa della morale pubblica nel “Moralista”, corrotto e smascherato nel finale.

Il suo nobile in disgrazia poi assurge a categoria cinematografica propria. Spiantato, invariabilmente anche per una incontrollata ed ironicamente autobiografica attrazione per il gioco d’azzardo; alla ricerca di un matrimonio con qualche facoltosa donna di bella famiglia. È ad esempio un Conte Max prodigo di consigli per Alberto Sordi che vuole entrare in alta società, salvo poi aiutarlo quando, deluso dalla vacuità del mondo altolocato, si ripropone di conquistare una normalissima ragazza che lavora a servizio.

Se è il miracoloso guaritore di un paesino dell’Italia centrale impegnato a rovesciare sale sui pazienti o fare fatture (anti iattura ovviamente), eccolo ingaggiare guerra con il neoarrivato giovane medico condotto (“Il medico e lo stregone”).

Il sorriso, ecco cosa non manca mai nella sua arte. In chi viene sconfitto, in chi perde a carte e si rovina, in chi si arrende ad una giovane donna che non sarà mai sua. 

Se Sordi, soprattutto nei cinquanta e nei sessanta è l’italiano cattivo e poi incattivito dalla società dei consumi e dell’arrivismo, Vittorio è l’uomo che indulge alle debolezze più patetiche e ridicole. Quello che cerca di farla franca, ma che quando non ci riesce sembra dirsi: “ma davvero credevi di passarla liscia?”.

Vittorio sorride e perdona tutti; sé stesso, certo, ma poi anche gli altri. Perché la carne è debole, perché “tengo famiglia”, frase che paradossalmente nella vita lui pronunciava declinandola al plurale, e le acrobazie quotidiane per poter garantire affetto e presenza a entrambi i suoi nuclei famigliari sono arcinote.

Così Ettore Scola costruisce il suo capolavoro pensando a Vittorio; uno dei protagonisti, Nicola, professore progressista, arriva a insultare le autorità scolastiche cittadine che criticano durante un cineforum proprio “Ladri di biciclette” perché fomenterebbe l’odio sociale. E lo stesso Nicola si presenta ad un noto quiz televisivo, rispondendo a domande sul regista.

Il film (che ha apparizioni di Fellini, Mastroianni e dello stesso De Sica) ha un finale amaro e malinconico, ed è bello pensare che l’inizio dei titoli di coda del film sia la formula magica con cui guardare avanti nonostante tutto, con cui riconoscere che la vita, dopo un fallimento, concede la rivincita già il giorno seguente. E che se la affronti con il sorriso, stai già avendo la meglio: “Dedichiamo questo film a Vittorio De Sica”.

Wim Wenders ha scritto: “cinema, il tuo nome è Federico”. Lungi da me il pensiero di contraddire il regista de “Il cielo sopra Berlino”; ogni qual volta però mi appresto a vedere “Umberto D.”, forse l’ultimo film della stagione neorealista di De Sica, ammiro la dignità del pensionato in miseria che non cede alla tentazione di liberarsi del proprio cagnolino uccidendolo sui binari del treno. E penso che, se fosse lì con me, gli direi: “Wim, siedi qui. Questo forse te lo sei perso…”

Danilo Gori