Il (Quarto) potere di Mank, predecessore ed eredità di “Citizen Kane”

Il (Quarto) potere di Mank, predecessore ed eredità di “Citizen Kane”

Il (Quarto) potere di Mank, predecessore ed eredità di “Citizen Kane”

Quarto potere, il celeberrimo film che ha fatto da vero e proprio spartiacque nella storia della cinematografia statunitense, usciva nelle sale il 1 maggio di 82 anni fa. Da quel giorno, molte cose nel cinema sarebbero cambiate.
Nel 2020 è comparso sul catalogo Netflix Mank, film la cui storia è intimamente connessa a quella del capolavoro di Welles. Appena uscito, il pubblico gridava già all’Oscar, ma si è dimostrato davvero all’altezza delle aspettative?

Mank, ancor prima della sua uscita il 4 dicembre 2020 sulla piattaforma Netflix, aveva intorno a sé aspettative piuttosto alte: in primis per il cast stellare coinvolto, poi per la presenza di David Fincher alla regia, e infine per il collegamento con uno dei capisaldi della cinematografia statunitense e mondiale, ovvero Quarto potere.
Il film di Netflix è un dramma biografico dal look retrò che propone un viaggio dietro le quinte dell’industria cinematografica hollywoodiana durante gli anni della Grande depressione, gli stessi nel quali prese vita il capolavoro di Orson Welles. La pellicola originale è da sempre associata a quest’ultimo, quindi sembra lecito chiedersi: chi è Mank?

L’antefatto: chiariamo alcune cose

Lo sfondo della vicenda è piuttosto complesso perché frutto della stratificazione tra diversi piani di realtà. É necessario quindi fare un po’ di chiarezza: Herman J. Mankiewicz è lo sceneggiatore che scrisse Citizen Kane (Quarto potere in italiano). Orson Welles è il poliedrico genio ventiquattrenne che produsse, co-scrisse e diresse il film; non contento, interpretò anche la parte del protagonista della pellicola, il magnate dell’industria della stampa Charles Foster Kane.
La parabola biografica del personaggio di finzione si ispira liberamente alla vita di un altro uomo (realmente esistito), William Randolph Hearst. Quest’ultimo è stato un grande editore e imprenditore, che fu a capo di un impero mediatico senza precedenti in grado di influenzare enormemente i giornali e l’opinione pubblica.
I punti di contatto tra la storia personale di Hearst e Kane sono molteplici, tanto che il magnate americano cercò in tutti i modi di boicottare il film. Il suo intervento servì solo a limitarne la circolazione e a penalizzare la pellicola agli Oscar del 1942, dove vinse soltanto il premio per la miglior sceneggiatura originale. La stessa su cui si scatenò, appunto, la lotta tra Welles e il collega Mank.

La trama: dalla persona al contesto, e viceversa

La pellicola di Fincher è un viaggio tra i retroscena della Hollywood degli anni Trenta, del processo di scrittura di uno dei film più memorabili di sempre, e dell’ancestrale binomio tra una mente geniale e le sue dipendenze (alcol, gioco d’azzardo).
Mank (Gary Oldman) si trova costretto a letto dopo che, a causa di un’incidente d’auto, si è infortunato a una gamba. In un’isolata casa di campagna, lo sceneggiatore viene aiutato dalla stenografa (Lily Collins) a portare a termine il compito che gli è stato affidato: concludere in pochissimo tempo la stesura della sceneggiatura per il film di Orson Welles (Tom Burke).
Da questo frammento temporale si diramano continui flashback che mostrano il protagonista muoversi nella difficile scena hollywoodiana di quegli anni, caratterizzata dalla diffusa povertà della gente, la minaccia di Hitler oltreoceano, e il continuo scontro con i socialisti. La vicenda è impreziosita da teatrini elettorali, dall’uso arbitrario e spregiudicato dei media al servizio della politica e dalla strumentalizzazione consapevole delle fake news.
Lo spettatore viene proiettato al fianco di Mank nelle sue vorticose relazioni sociali, con il milionario William Randolph Hearst (Charles Dance), il direttore dello studio cinematografico Louis B. Mayer (Arliss Howard), l’amante ufficiale di Hearst e starlet Marion Davies (Amanda Seyfried), fino alla moglie, la “povera” Sara (Tuppence Middleton).

Tiriamo le fila

La regia di Fincher è di certo impeccabile (da notare anche l’uso sapiente delle luci del direttore della fotografia Erik Messerschmidt, che si rende indispensabile con il bianco e nero); non si può ovviamente dire rivoluzionaria come per quella di Quarto potere, ma è un riuscito omaggio allo stile del passato. Degna di nota anche la manipolazione del sonoro, distorto appositamente per renderlo simile a un autentico film d’epoca.
Nel lungometraggio recita un cast di tutto rispetto, impreziosito da attori del calibro di Amanda Seyfried, Lily Collins e Charles Dance. Un posto d’onore spetta senza dubbio a Gary Oldman che, con questa interpretazione nella parte del protagonista, ha sfiorato il suo secondo Premio Oscar come miglior attore. Menzione speciale anche alla Seyfied, che ha dato prova di una notevole maturazione artistica con la sua brillante prova. Non per niente, anche lei ha ricevuto una nomination come migliore attrice non protagonista.
La scrittura del film è (volutamente) intricata, stratificata, complessa, resa ancor più opulenta da una serie di rifermenti non solo storici e politici, ma anche letterari: geniale l’analogia tra Don Chisciotte-il futuro personaggio di Kane-Hearst. A complicare il tutto, la pellicola gioca con piani temporali non sequenziali. Una trovata ingegnosa (e metanarrativa) è quella di simulare la scrittura di un copione per segnalare le transizioni tra i vari flashback.
È divertente l’intrinseca sottile ironia che fa Houseman quando inizialmente critica la sceneggiatura scritta da Mank perché troppo complicata – dal momento che mescola piani temporali e punti di vista diversi, cosa che sarà una delle rivoluzioni segnate da Quarto potere –, e la sceneggiatura del film Mank: anche qui i piani temporali sono sfalsati, ma il punto di vista è unico, a rimarcare l’assoluta centralità della quale gode, finalmente, lo sceneggiatore. Orson Welles, nel lungometraggio, si vede solo di striscio, il rapporto si sviluppa quasi esclusivamente a distanza. Non c’è spazio per lui, questo è il film di Mank.


Perché il grande pubblico non conosceva Mank? Una damnatio memoriae? Il genio creativo di Welles troppo ingombrante? Forse entrambe le cose, o nessuna delle due. Come per il suo personaggio Kane, la figura di Mank rimane un puzzle complesso e intricato, una matassa imbevuta di alcol e parole che però, finalmente, riceve l’attenzione che merita.
Una piccola curiosità: la sceneggiatura del film Mank è stata scritta dal padre di Fincher, Jack, nei primi anni Novanta.

Un film per chi?

É sicuramente un film per appassionati, lo è abbastanza per i temerari fiduciosi, decisamente poco per chi vuole vedere un film senza pretese con il quale intrattenersi per qualche ora.
In definitiva, chi non ha mai visto Quarto potere può vedere Mank sperando di capirci qualcosa? Sì, è difficile ma non impossibile, contando il fatto che anche chi ha visto il lungometraggio di Welles (ma non è esperto della scena Hollywoodiana degli anni Trenta) riesce con una certa fatica a cogliere i numerosissimi riferimenti contenuti. Bisogna investirci una buona dose di concentrazione, seguirlo in religioso silenzio per non rischiare di perdersi mezza battuta, ma è un film che ripaga.
Chi non conosce il sottofondo della vicenda può comunque godersi la storia di un arguto, tagliente, ironico sceneggiatore alla deriva, ma la visione sarà impoverita dall’impossibilità di riconoscere le allusioni che, alla fine, costituiscono l’anima del film: il tributo lucido, non patinato, di Fincher al cinema del passato.
Ciò nonostante, una persona può comunque emozionarsi davanti a un’opera di Van Gogh o di Picasso senza necessariamente sapere chi sia l’artista né che tecnica abbia utilizzato. Questo è il bello dell’arte fatta bene.

Il film ha ricevuto ben dieci nomination agli Oscar del 2021. Ha portato a casa solo l’Oscar per migliore fotografia (a Erik Messerschmidt), e migliore scenografia (a Donald Graham Burt e Jan Pascale).

Per chi gradisce un assaggio della sceneggiatura originale, clicca qui.


PRO
– un intenso e travolgente Gary Oldman
– Mank, un personaggio a dir poco magnetico
– David Fincher si riconferma grande regista

CONTRO
– storia piuttosto complicata e intricata
– bisogna sforzarsi di star dietro a un ritmo incalzante
– la visione richiede una certa concentrazione

Un altro film contemporaneo di Netflix in bianco e nero con Zendaya? Sì, esiste, clicca qui per scoprirlo.

 

Inventing Anna: quando l’apparenza ing-Anna davvero

Inventing Anna: quando l’apparenza ing-Anna davvero

Inventing Anna: quando l’apparenza ing-Anna davvero

È disponibile dall’11 febbraio 2022 la nuova serie Netflix Inventing Anna, scritta da Shonda Rhimes e prodotta dalla sua Shondaland, la casa di produzione che l’anno scorso a Natale ci ha regalato Bridgerton, la cui seconda stagione è in uscita sulla stessa piattaforma il 25 marzo.

L’intera storia è completamente vera, ad eccezione di tutte le parti che sono totalmente inventate”.

Con questa frase inizia ciascuna delle 9 puntate che compongono la miniserie televisiva di genere true crime dal titolo Inventing Anna, che in una settimana ha conquistato il pubblico di spettatori della piattaforma dello streaming Netflix.
Sin da subito capiamo che la confusione tra verità e inganno è la protagonista indiscussa della storia di una giovane ereditiera tedesca, sbarcata in America, e più precisamente a New York, che in poco tempo è riuscita inspiegabilmente a truffare l’élite della Grande Mela.
Tutta la serie parte e si regge su una sola, fondamentale domanda: chi diavolo è Anna Delvey?
Ereditiera o truffatrice? Donna d’affari o criminale? E se fosse tutto questo insieme?

Tratto da una storia “vera”

La vicenda che ruota introno ad Anna Delvey, conosciuta anche come Anna Sorokin (iniziamo con gli pseudonimi), è tratta da una storia vera, quella della “reale” Anna Delvey-Sorokin (“reale” che qui equivale a “inventata”, aiuto).
In breve, Anna si è spacciata per una ricca ereditiera tedesca per truffare molte persone dell’alta società, star e socialite, protagonisti della vita mondana di New York, ma soprattutto ricchi e straricchi. E non si è fermata qui, perché la scia di sangue (sarebbe meglio dire “di debiti”) si è estesa a numerosi hotel e diverse banche. Ma come ha potuto fare tutto questo? Come pagava i vestiti, gli eventi, i jet, le suite private, i massaggi, le vacanze, la bella vita che faceva se non aveva neanche un centesimo in tasca?
Seguendo le macerie che si è lasciata dietro si arriva dritti dritti in prigione, dove la ragazza viene sbattuta dopo l’ennesimo saldo insoluto di un albergo dove alloggiava. Anna è stata arrestata nel 2017 e poi condannata nel 2019 per 8 capi di imputazione (tra cui truffa, tentato furto e appropriazione indebita) a 12 anni di carcere. Uscita a febbraio 2021, è stata nuovamente arrestata sei settimane dopo perché il suo visto era scaduto.
La serie di Shonda Rhimes si basa sull’articolo “Come Anna (Sorokin) Delvey ha ingannato la gente di New York” scritto da Jessica Pressler del New York Magazine. La sua incredibile storia è stata già raccontata nel libro scritto dalla sua ex amica Rachel Williams, “My Friend Anna”, e verrà ancora tratta in una serie HBO che deve ancora andare in onda, in un documentario realizzato con la Bunim Murray Production a Los Angeles, in un libro della stessa Anna sul suo periodo trascorso in prigione, e in un podcast. Poi speriamo che Anna si lasci questa storia alle spalle.

La vera Anna Delvey-Sorokin a destra

Stiamo pagando una criminale mentre vediamo Inventig Anna?

Anna di certo non è una Lannister, perché la sua strada è lastricata di debiti insoluti. Durante il processo, si è stimato che la ragazza abbia rubato circa 275mila dollari.
A fronte di tutto ciò, il magazine statunitense Insider ha riferito che Netflix ha pagato a Sorokin la somma di 320mila dollari per avere i diritti della sua storia da adattare nella serie di Shonda Rhimes. Un bel gruzzolo da consegnare a una truffatrice. Per fortuna, quei soldi Anna li ha usati per iniziare a pagare i suoi debiti e i rimborsi. Si parla di 198mila dollari dovuti alle banche che il tribunale le ha imposto, 24mila dollari di multe statali, senza contare le spese legali a suo carico dopo la condanna. Speriamo che non finiscano in altri vestiti e vacanze di lusso, non sarebbe la prima volta. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, si dice, no?

 

Il giudizio sulla serie, senza spoiler

Tornando alla serie, Inventing Anna racconta una versione romanzata della vicenda. Il fatto che sia “tratta da una storia vera” non significa che sia meglio di una storia totalmente inventata. E questa in realtà lo è, perché – lo abbiamo ormai capito – in realtà Anna Delvey non esiste. O meglio, esiste ma non è quella che aveva portato tutti a credere che lei fosse. Confusi? Bene, vuol dire che siamo sulla strada giusta.

In virtù del “romanzato”, tratteremo Inventing Anna come ciò che è, cioè una serie con personaggi, trame e sottotrame, attori, costumi e tutto il resto.
La protagonista, Anna Delvey, è interpretata da Julia Garner, già vincitrice due Premi Emmy come miglior attrice non protagonista in una serie drammatica (Ozark), e notata dalla critica per la sua prova nel film The Assistant, per il quale ha ottenuto una nomina agli Independent Spirit Awards.
Il personaggio di Anna o si ama o si odia, ma più frequentemente suscita un misto tra i due estremi. All’inizio si è portati quasi ad ammirarla: la sua storia è avvolta nel mistero (un motivo che aumenta ancor di più l’attrattiva nei suoi confronti), emergono solo la sua acuta intelligenza, il fiuto per gli affari, il gusto per l’arte e la sua straordinaria e inspiegabile capacità di stregare tutti coloro che le stanno intorno. La sua ascesa sembra puntare molto in alto, mossa da un proposito che appare artistico e filantropico, quasi illuminato: la creazione della Fondazione Anna Delvey, un santuario super esclusivo per artisti selezionati e mecenati amanti dell’arte. Ovviamente, per realizzare questa visione le servono soldi, tanti soldi, sottoforma di donazioni o prestiti.
All’inizio quindi Anna sembra avere uno scopo, tanto grande quanto difficilmente realizzabile. Poi, man mano che procede la storia, la giovane socialite scade in quella che, brutalmente, chiameremmo “patetica scroccona”. Se ne sta lì in panciolle, ad aspettare che le venga approvato il prestito di 40 milioni che ha richiesto per la sua fondazione (a questo punto, chiara copertura per far finire i soldi direttamente nelle sue tasche). E nel mentre spende e spande soldi degli altri (ad esempio, della sua amica Rachel a Marrakkech), soldi che lei non possiede.
All’inizio della storia la troviamo già dietro le sbarre, e la sua avventura viene ricostruita tramite continui salti temporali dal presente al passato, sfruttando lo stratagemma delle interviste realizzate dall’altra protagonista della serie, la giornalista Vivian.


Il personaggio prende vita grazie all’attrice Anna Chlumsky. Vivian è una cacciatrice di storie implacabile. Incinta, tiene alla sua carriera forse più della nascitura in arrivo da lì a poche settimane. Farà di tutto per salvarla (la sua carriera, non la nascitura), dopo uno scandalo di presunto “cattivo giornalismo” che l’aveva vista coinvolta tempo prima. Per farlo si aggrappa alla storia di Anna, sicura di aver trovato qualcosa di importante e d’impatto da raccontare.
Nel corso delle puntate, Vivian ricostruisce il passato della misteriosa ereditiera-criminale incontrando e intervistando i suoi amici, le sue conoscenze, i suoi partner in affari, e creando un rapporto diretto con lei, andando a trovarla periodicamente in carcere (e comprandole riviste e mutande griffate).

“Vip è sempre meglio”

Inventing Anna ha spaccato quasi a metà la critica: alcuni apprezzano la forza e la portata sopra le righe dei personaggi, soprattutto femminili, su cui si basa la storia; altri tacciono la serie di non aver trovato un modo che funzioni davvero per far empatizzare lo spettatore con i vari personaggi, che appaiono così lontani, assurdi e sgradevoli.
Per non parlare delle accuse secondo le quali la serie dipinge Anna Delvey come una donna d’affari che ha mancato il successo, un personaggio brillante, quasi una sorta di modello da ammirare, nonostante le sue intricate truffe per ottenere milioni di dollari, le continue bugie ai suoi amici, lo sprezzo del valore della fiducia, e tutte le altre cose criminose che ha compiuto.
La recitazione di Garner e quella di Chlumsky è molto valida, l’ambientazione è quella di una New York alla Sex And The City (o forse sarebbe meglio dire, in questo caso, alla Scam And The City), anche se la trama presenta alcune debolezze in certi punti (perché nessuno conosce la ricca famiglia di Anna? Possibile che nessuno abbia pensato di googlarli? Va bene che stanno in Germania, ma non è mica Atlantide).

Il senso della vita è essere o possedere? Anna è entrambi, o meglio, vuole esserlo. Come un Mattia Pascal che vuol fuggire dalla sua vita mediocre (ops, piccolo spoiler), e si inventa un Adriano Meis che vince grandi somme al casinò di Montecarlo, frequenta belle donne e si da alla “bella vita”. Chi è arrivato in fondo al celebre romanzo di Pirandello sa come è andato a finire Pascal-Meis. Una sorte non così diversa da quella di Delvey-Sorokin, quasi vinta dal rischio di essere dimenticata da tutti, il suo più grande incubo, dietro le sbarre di una prigione. Ma Anna ha un’ultima chance per essere ciò che più brama: ricca e famosa. E Vivian (o è Shonda Rhimes?) è lì per quello.

In definitiva, forse dovremmo chiederci non “chi è Anna?”, ma “qual è la storia di Anna?”. E non “come ha fatto a rubare tutti quei soldi?”, ma “come ha fatto a non farsi beccare per così tanto tempo?”. Non vi resta che vedere la serie per scoprire le risposte.

Per altri consigli su serie tv da vedere, leggi qui.

Martina Costanzo

Sono Martina Costanzo, laureata in lettere moderne all'Università degli Studi di Milano e attualmente insegnante di italiano alle scuole medie e superiori. Oltre alla lettura, la mia grande passione è il cinema. Per IoVoceNarrante scrivo le recensioni dei film e delle serie tv di successo appena usciti, e classifico i migliori prodotti da vedere. Nessuno è mai rimasto deluso da un mio consiglio, provare per credere.

Zendaya e l’anti-film di San Valentino

Zendaya e l’anti-film di San Valentino

Zendaya e l’anti-film di San Valentino

Abbiamo amato Zendaya sin dai suoi albori a Disney Channel, abbiamo imparato ad apprezzarla in “The Greatest Showman” e nei film di Spiderman con Tom Holland, l’abbiamo venerata come una dea in “Dune” ed “Euphoria”. Ma l’avete vista nel film “Malcolm & Marie”?

La pandemia può aver portato via molte cose, ma di certo non la voglia di celebrare l’amore (o il consumismo). Anche quest’anno San Valentino incombe dietro l’angolo e, volenti o nolenti, le piattaforme streaming si riempiono di film e serie tv che virano immancabilmente tutti sullo stesso tema. Amore, amore, amore: romantico, tormentato, drammatico o a lieto fine, sembra di assistere alla stessa storia che si ripete in un loop infinito. Dov’è finita l’originalità? C’è qualcuno che si salva dai soliti sciupati cliché? Può Zendaya salvare la situazione, anche questa volta?

Premesse euforiche

Il primo trailer che annunciava l’uscita del film Netflix Malcolm & Marie risale all’8 gennaio 2021. La presenza di Zendaya e quella di Sam Levinson dietro le quinte ha mandato subito in fibrillazione i fan della serie tv Euphoria: Zendaya, infatti, non solo interpreta il personaggio di Rue Bennett nella serie, ma per la sua prova ha anche vinto il premio Emmy come miglior attrice protagonista di una serie drammatica. La scrittura di Levinson ˗ odiata o amata ˗ promette grandi cose, soprattutto con l’uscita dell’attesissima seconda stagione di Euphoria. Se vi siete persi dei pezzi, trovate qui un articolo per ricapitolare la situazione.

In Malcolm & Marie, accanto a Zendaya c’è John David Washington. Chi ha visto Tenet lo ha sicuramente riconosciuto: Washington interpreta il protagonista senza nome dell’ultimo film di Christopher Nolan.

Netflix ha acquistato i diritti del film per trenta milioni di dollari (ndr. Euphoria è distribuita da HBO, in Italia da Sky Atlantic e Now Tv). Malcolm & Marie è stato uno dei pochissimi film girati nel pieno della pandemia, quando la situazione era ancora critica, rispettando comunque le misure di sicurezza anti-Covid.

Per Netflix si tratta del secondo film recente girato in bianco e nero che trova spazio nei suoi cataloghi. A inizio 2021, infatti, è uscito il film Mank, diretto da David Fincher e ispirato, men che meno, al capolavoro di tutti i tempi Quarto potere. Nel caso di Mank, la scelta bicromatica è chiaramente volta alla rievocazione della vecchia Hollywood e dello stile del film di Orson Welles. Nel caso di Malcolm & Marie, invece, che significato ha la rinuncia al multicolore? È solo un vezzo stilistico o è una scelta che nasconde altro?

 

Trama? Una partita a tennis

La trama è estremamente essenziale e di fatto non genera alcuno sviluppo concreto, se non un lungo e infuocato dialogo tra i due personaggi in scena. La coppia è appena tornata a casa dopo la première del film di cui Malcolm è il regista. L’uomo è contento e su di giri perché la proiezione è andata molto bene. Marie, sua musa e fidanzata, appare fredda e distaccata.

Il casus belli è che Malcolm, durante il suo discorso, ha dimenticato di ringraziare Marie. Nel corso della discussione lo spettatore capisce che il film (nel film) parla di una ragazza tossicodipendente di colore. Marie accusa a più riprese Malcolm di essersi ispirato a lei e alla sua vita per creare il lungometraggio di cui va tanto fiero, senza però davvero riconoscerle alcun merito, vista la sua omissione (consapevole o meno) durante il discorso di ringraziamento.

Il litigio prosegue anche sul terreno amoroso, con una serie di accuse incrociate che toccano ogni aspetto del loro rapporto, dal morboso al passionale. Ci sono anche momenti felici, in questa lunga notte di guerriglia, ma sono rari e assomigliano più a un continuo coito interrotto che a una vera e propria tregua.

Malcolm & Marie racconta di una colossale litigata di coppia lunga una notte. Data l’idea di fondo su cui si basa (due persone e una casa), non ci si può aspettare un film movimentato, con tanti cambi di ambientazioni e diversi personaggi in scena. Men che meno se si pensa che è stato girato durante la fase acuta della pandemia, cosa che ha richiesto un numero limitatissimo di persone sul set e una location controllata dove poter girare.

Al di là dei limiti imposti dalle norme anti-Covid, il film è un intenso – e a tratti spaventoso – giro sulle montagne russe di un rapporto già di per sé complicato. Le variazioni dal pattern odio-amore sono poche, perché di fatto tutto il film si regge su questo, quindi vi è una ripetitività intrinseca che inizia a far sentire il suo peso dalla metà in poi. Come fare le stesse montagne russe dieci volte.

Malcolm & Marie non è solo questo. Nel lungometraggio di Levinson convivono due discorsi piuttosto evidenti. Il primo riguarda il rapporto tra i due personaggi, con i loro caratteri, il loro vissuto e le loro debolezze. Il secondo, invece, riguarda la creazione cinematografica, le implicazioni politiche, la critica. Ed è qui che nasce la polemica.

Sam Levinson ovvero l’uomo delle polemiche

Levinson non ha mezze misure e, di conseguenza, o lo si ama o lo si odia. La sua scrittura può piacere oppure no, ma in questo caso ha sollevato un vero polverone di critiche.

Malcolm è indubbiamente un personaggio nevrotico, narcisista, ossessivo e vendicativo, con un gigantesco ego da artista incompreso, e pensa che la propria arte sia tra le poche a essere “Vera Arte”. In tutto ciò, arriva a prendersela con una critica cinematografica (bianca) a suo avviso poco competente, che nella recensione del film ha voluto ridurre la sua opera a un discorso politico sulla razza (quando in realtà non lo è) solo perché Malcolm è un regista nero.

In molti hanno rivisto nel discorso del personaggio una risposta del regista Sam Levinson alla recensione che Katie Walsh aveva scritto sull’ L.A. Times in merito al suo precedente film (anche in Malcolm & Marie, Malcolm se la prende con “una dell’L.A. Times”). Ad assistere al suo monologo di frustrazione contro la critica di settore c’è Marie (interpretata da Zendaya), che viene a più riprese travolta da un rabbioso mansplaning.

Non solo a molti è sembrato che Levinson si volesse celare dietro al personaggio di Malcolm per regolare i propri conti aperti, ma lo fa tirando in ballo un’altra questione scottante, quella del colore della pelle e della politicizzazione delle pellicole. In moltissimo hanno accusato Levinson di aver messo in bocca a un attore nero un discorso da regista bianco privilegiato e frustrato che se la prende con un mondo in cambiamento che non riconosce più. Il protagonista nero è stato percepito come un escamotage per validare il discorso di Levinson: il regista nero che critica la critica per non voler fare critica sociale è Levinson che scalpita per non essere vincolato dalle critiche.

Qualcuno è arrivato ad additare Levinson come il white savior della situazione, perché nel film Malcolm sostiene con forza che un regista nero può benissimo fare un film che non sia affatto politico. Il problema è, ancora una volta, che la fonte di questo pensiero è un maschio bianco figlio del privilegio, e che vada a parlare di qualcosa che in teoria non gli compete.

Per fortuna, Malcolm & Marie è un film talmente ricco che può essere letto da una molteplicità di angolazioni. Un elemento imprescindibile è il personaggio interpretato dalla splendida Zendaya, che costituisce di fatto un contrappunto a tutto ciò che Malcolm rappresenta, nel lavoro come musa e nella loro relazione come amante. Marie ribatte a ogni invettiva, proponendo una visione opposta a quella del fidanzato, in un continuo ribaltamento di punti di vista che vuole portare acqua al mulino di entrambi.

Il personaggio di Marie possiede comunque una serie di tratti che la rendono per certi versi più vulnerabile: è più giovane, viene da un passato di tossicodipendenza, ha una serie di ferite ancora non rimarginate e sembra aggrapparsi a Malcolm come a un’ancora di salvezza dalla quale minaccia di staccarsi senza mai davvero farlo.

La tossicità è pervasiva e va a braccetto con la dipendenza. Non quella dai farmaci, che sembra ormai essere un residuo del passato, ma quella emotiva e affettiva che inquina il rapporto tra i due protagonisti. La mascolinità tossica di Malcolm e la dipendenza di Marie a tutto ciò che è tossico è un serpente che si morde la coda non diverso da quello riscontrabile in altre storie e in altri film, ma qui portato alle estreme conseguenze (come piace fare a Levinson).

Conclusioni

Al di là di tutto ciò che ogni spettatore può leggere in questo film, la regia e gli attori sono di grande qualità. La fotografia è artistica e visivamente evocativa, sfrutta angolazioni e riflessi per sottolineare la bipartizione dei due protagonisti. Perché in bianco e nero? È bello pensare che l’assenza dei colori voglia spingere lo spettatore a concentrarsi sull’essenza delle cose, sulle emozioni, e non sui mille stimoli visivi che normalmente pervadono (quasi invadono a volte) una normale pellicola.

Zendaya e Washington sono a dir poco strepitosi (lei era stata nominata ai Critics Choice Award come miglior attrice per questo film). Ciascuno di loro è riuscito in modo eccellente a dar vita ai personaggi, donando loro tutto ciò che potevano offrigli, urla, lacrime e dolore soprattutto. La potenza dei dialoghi è amplificata dalle loro interpretazioni travolgenti, tanto che in alcuni punti sembrano bucare lo schermo. Una buona fetta dell’intensità che può vantare questo film è merito loro.

La colonna sonora è curata da Labirinth come in Euphoria, anche se è di tutt’altro stampo. La cosa curiosa è che in alcuni punti sembra che le canzoni parlino per i personaggi e dicano ciò che loro non riescono a pronunciare.

Polemiche o non polemiche, Malcolm & Marie è un bel film per chi lo sa apprezzare (e per chi non si aspetta la solita commediola romantica di un’ora e mezza). Probabile che alcuni lo troveranno troppo statico, pesante, costruito, forzato e perché no pretenzioso, autoreferenziale e fine a sé stesso. Ma vale una visione, anche solo per fare l’esperienza di venire travolti da un fuoco incrociato senza pietà, in un rapporto che è un campo minato dove a ogni passo la terra può esplodere sotto i piedi. Cast e regia sono eccellenti, e la sceneggiatura non lascia indifferenti, come si è visto.

Per chiudere la questione sulle accuse, uno scenario altrettanto probabile è che Levinson abbia scritto un film come questo proprio per sollevare certe critiche che, puntualmente, sono arrivate. È indubbio che sia riuscito a costruito un corposo e cerebrale discorso non privo di fascino, nella sua complessità.

Anche se Malcolm dice che un buon film non deve avere per forza un messaggio, noi possiamo estrapolare un monito molto concreto, valido per questo San Valentino e per quelli a venire: non dare mai nessuno per scontato. O preparatevi alla notte più lunga della vostra vita, parola di Zendaya.

Martina Costanzo

Sono Martina Costanzo, laureata in lettere moderne all'Università degli Studi di Milano e attualmente insegnante di italiano alle scuole medie e superiori. Oltre alla lettura, la mia grande passione è il cinema. Per IoVoceNarrante scrivo le recensioni dei film e delle serie tv di successo appena usciti, e classifico i migliori prodotti da vedere. Nessuno è mai rimasto deluso da un mio consiglio, provare per credere.

Euphoria-mania: ritorna la serie dell’esagerazione

Euphoria-mania: ritorna la serie dell’esagerazione

Euphoria-mania: ritorna la serie dell’esagerazione

L’eccesso è la sua cifra stilistica. O la ami o la odi, ma una cosa è certa: non puoi smettere di parlarne. Dopo una pausa forzata dettata dalla pandemia, è finalmente tornata sugli schermi l’attesissima seconda stagione della serie tv Euphoria, distribuita in Italia da Sky Atlantic a partire dal 16 gennaio 2022.

È dalla seconda metà di quell’anno infausto che è stato il 2020 che chiunque, in un modo o nell’altro, ha sentito parlare di Euphoria, pur non sapendo magari di cosa si trattasse. Tra i tanti fattori che hanno fatto scalpore riguardo questa serie ha sicuramente avuto una certa eco l’Emmy vinto da Zendaya, la più giovane di sempre a portarsi a casa il premio come miglior attrice protagonista di una serie drammatica.

Euphoria è una di quelle serie talmente esagerate e travolgenti che o si odiano visceralmente o si amano alla follia. I contenuti e i modi con cui sono mostrati hanno scatenato, ad esempio, una tempesta di critiche da parte del Parents Television Council. Una delle accuse che vengono mosse allo scandaloso teen drama è il mostrare a un’audience di adolescenti frequenti scene di sesso esplicito e di nudo (in un episodio sono apparsi sullo schermo quasi trenta peni), per non parlare dello stupro subìto da uno dei personaggi.

Euphoria è solo questo? Certamente no. La serie tv statunitense, trasmessa dal network HBO e in Italia da Sky Atlantic, si basa sull’omonima miniserie israeliana del 2012. La sceneggiatura è di Sam Levinson, che ha dichiarato di essersi spesso ispirato alle proprie vicende di adolescente e alla personale lotta contro la tossicodipendenza. Parlandone in senso generale, la serie è un dramma adolescenziale che racconta di un gruppo di liceali alle prese con l’amore, l’amicizia, l’identità, i traumi, il sesso e la droga.

 

Non il solito teen drama

A quasi due anni dalla prima stagione, è assolutamente necessario fare un ripasso prima di iniziare a vedere le nuove puntate. Il personaggio di Rue Bennett (Zendaya), in veste di narratore, può essere considerato il fulcro della storia. In realtà ogni puntata tende a soffermarsi su ciascuno degli altri personaggi, in una sorta di racconto corale pilotato dalla protagonista. Se Rue fosse una medaglia, l’altra faccia sarebbe certamente Jules Vaughn (Hunter Schafer). Le due creano un forte legame prima di amicizia e poi romantico che, nel finale della prima stagione, si spezza drammaticamente: Jules se ne va lasciando Rue spiazzata sulla banchina del treno. È stato così che l’ultima puntata della serie aveva lasciando gli spettatori, totalmente in dubbio sul futuro delle due ragazze.

Uno degli aspetti più lodevoli della serie è la qualità dell’interpretazione degli attori. La prova di Zendaya nella parte di Rue le è valso il Premio Emmy, ma anche il resto del cast riesce a sostenere il peso recitativo di questi personaggi che vivono di esagerazione e tormento emotivo. L’interpretazione di Hunter Schafer nei panni di Jules ha suscitato un altissimo apprezzamento; Jacob Elordi, Nate Jacobs nella serie, invece era già noto per aver recitato nel film di Netflix The Kissing Booth e nel sequel.

La critica ha apprezzato la fattura del prodotto in generale: un’ottima regia, una fotografia visivamente stupenda, accompagnate da una travolgente colonna sonora. Ecco il mix perfetto che rende Euphoria un prodotto eccellente.

L’estetica esagerazione di una drammatica età

Si sa, l’adolescenza non è affatto un periodo “tutto rose e fiori”. Alle classiche crisi sui cambiamenti in atto, i conflitti con le figure genitoriali e la ricerca della propria identità, nel mondo di oggi i ragazzi devono affrontare una quantità di nuove sfide che li possono facilmente portare sull’orlo di un abisso.

La dipendenza è il filone principale che segue il personaggio di Rue, mentre Jules si barcamena in un limbo identitario e amoroso. Quest’ultima, infatti, è una ragazza trasgender che si trasferisce in una nuova città dove ricominciare tutto da capo. È dotata di una sessualità molto libera, destinata però a scontrarsi con l’affetto che prova per la sua amica e il peso emotivo nel sostenerla nel suo percorso di (tentata) disintossicazione.

La spietata chimera dell’amore è ovviamente onnipresente e costituisce un forte innesco per tutte le altre sottotrame: la relazione tossica e violenta tra Nate e Maddy (Alexia Demie), il percorso per scoprire la sessualità e amare il proprio corpo di Kat (Barbie Ferreira), l’incompatibilità tra i sentimenti e le scelte del passato di Cassie (Sydney Sweeney) e McKay (Algee Smith).

 

Dove e come ci eravamo lasciati

Il vero ultimo episodio con cui la serie aveva lasciato, con il fiato sospeso, i suoi spettatori è stato “Fuck Anyone Who’s Not A Sea Blob”. Questo è il titolo della seconda puntata speciale di Euphoria, incentrata interamente su Jules. Le riprese della seconda stagione sarebbero dovute iniziare nella primavera del 2020, ma a causa della pandemia di Coronavirus erano state sospese e non ancora programmate ufficialmente.

Nel settembre dello stesso anno sono comunque stati girati due episodi special che fungono da raccordo con la stagione successiva. Part 1: Rue (Trouble Don’t Last Always) è andato in onda il 6 dicembre 2020 e dal 23 gennaio 2021 era disponibile anche la Part 2. Questo episodio è stato speciale anche perché è il primo a essere co-scritto da Levinson e dall’attrice Hunter Schafer.

Al termine della prima stagione, Rue lasciava Jules dalla banchina di un treno mentre l’amica, rimasta a bordo, si allontanava per raggiungere New York. Tale rottura ha fatto presagire una ricaduta di Rue nella droga e un destino incerto per Jules. L’episodio speciale su Rue è stato un intenso e toccante dialogo tra la ragazza tossicodipendente e il suo sponsor Ali (Colman Domingo), seduti in una solitaria tavola calda durante la notte della Vigilia di Natale.

Anche la Part 2 si apre con una conversazione, questa volta tra Jules e la psicologa. Seduta sul divano nello studio della terapeuta, la ragazza si lascia andare a un flusso di coscienza, parlando della sua identità, della spasmodica ricerca della femminilità, del rapporto complicato con la figura materna e di quello speculare con Rue.

Finalmente, in questo episodio si assiste all’attesissimo scavo psicologico di Jules, una ragazza all’apparenza spensierata ma profondamente combattuta. Come lei stessa racconta, il suo costante vivere in uno stato ossimorico spesso si sfoga nell’autocritica e nelle fantasie romantiche con amanti immaginari, in un vortice di autoerotismo e senso di colpa in cui è difficile ricordarsi cosa è reale e cosa non lo è.

Il colorato mondo di Jules diventa a tinte fosche non appena dischiude la sua mente. Lo spettatore è travolto dalle fantasie, dalle paure e dai desideri della ragazza anche visivamente, grazie a una regia che sa dosare in modo eccellente l’aspetto artistico con quello comunicativo. La puntata è, come tutte le altre, un piccolo scrigno di bellezza, ma pesante come il piombo.

 

Euphoria è certamente una serie che merita una visione, anche se per qualcuno può essere difficile da digerire. È un viaggio a tratti orribilmente psicadelico, a tratti delicatamente dolceamaro, inferno e paradiso insieme senza mezze misure, come è l’adolescenza. La chiave di lettura è tanto l’onestà quanto l’empatia: nella spietata “terra di mezzo” tra l’infanzia e l’età adulta è difficile sopravvivere; l’unico modo per uscirne tutti interi è aggrapparsi a un appiglio sicuro, sperando di non esserlo per qualcuno che ha un bagaglio ancor più pesante.

Martina Costanzo

Sono Martina Costanzo, laureata in lettere moderne all'Università degli Studi di Milano e attualmente insegnante di italiano alle scuole medie e superiori. Oltre alla lettura, la mia grande passione è il cinema. Per IoVoceNarrante scrivo le recensioni dei film e delle serie tv di successo appena usciti, e classifico i migliori prodotti da vedere. Nessuno è mai rimasto deluso da un mio consiglio, provare per credere.