
Buio.
Nero pece che mi avvolge. Non vedo nient’altro.
Respiro a malapena un’aria acre, fetida, asfissiante che non cede spazio alla
vita.
Gli unici miei compagni sono ragni, blatte e lombrichi che per ben dieci decadi
hanno dimorato con me in questo soporifero regno di morte. Cento anni di sonno
causati da un virus latente, di cui nessuno aveva mai sospettato l’esistenza,
che dalla nascita ha infettato le mie cellule cerebrali attendendo
pazientemente il momento più opportuno per riprodursi, riducendo al minimo le
funzioni vitali di colei che la terra ha ora rigurgitato con disgusto. La
diagnosi dei medici alla vista dei sintomi fu la stessa: morte.
Venni così chiusa in una bara e sepolta dormiente.
Ora basta
ricordi. Senza sforzi sollevo il coperchio del sarcofago ormai marcio e
corrotto da cento anni di morte. Mi scrollo di dosso i coinquilini. Sono sola
in un luogo abbandonato da Dio. Tra poco dovrebbe sorgere il sole: il cielo
grigio fumo si sta colorando di tinte pastello che un tempo amavo, ma ora non
più. Ora non provo nulla. Sono un essere dimenticato in un luogo che fluttua
tra realtà ed incubo.
Riconosco la strada che percorrevo all’età di sedici anni per recarmi a scuola.
Nonostante un secolo di imprecazioni e maledizioni la sciagurata si erge ancora
in tutta la sua maestosa sciattezza. I rami degli alberi cresciuti a dismisura
si sono insinuati nei muri aprendo crepe brulicanti di parassiti ed insetti,
unica forma di vita in quel patibolo a quattro mura.
Mi
avvicino all’entrata e trovo il cancello divelto e più che mai arrugginito, ma
non mi soffermo a contemplarlo, così procedo verso la mia aula: i banchi e la
cattedra sono marci, sono stati divorati lentamente dalle termiti. Mi metto a
sedere su quel che rimane della mia sedia, macabro scheletro di ferraglia,
osservando una crepa di fronte a me. Non provo emozioni, non provo nulla. Sono
una presenza, una massa che la Terra attira verso sé: mi vuole inghiottire di
nuovo per cibarsi del mio silenzio. Me ne vado, ma dove?
Cammino, cammino non so per quanto: un deserto urbano si staglia contro il
cielo caliginoso di un giorno senza ore, senza tempo.
La piazza della città, o meglio quello che ne rimane, è un gelido ventre che
ingloba palazzi signorili di antiche casate nobiliari, ormai ammassi di
calcinacci maciullati dal lento, inesorabile scorrere del tempo.
Ecco la
chiesa, unico edificio discretamente riconoscibile in quell’oblio, ancora salda
sulle proprie fondamenta; osservo quei muri ingrigiti, un tempo bianchi, e le
campane dinanzi ad essa imprigionate da una corazza rugginosa, segno evidente
che il battacchio ha percosso da tempo il metallo per l’ultima volta. Vorrei
entrare, ma il portone è chiuso.
Un pensiero mi fulmina quasi dolorosamente: casa mia.
Percorro le vie che mi separano da essa
e osservo il volto della città ormai quasi irriconoscibile, ma non mi
importa. Ecco la discesa, i tre alberi, l’angolo e… nulla. La mia casa non
esiste più e con essa ciò che rimane dei ricordi.
Vengo trafitta da un’emozione d’immensa potenza: disperazione.
Lo stomaco dilaniato da un dolore mai provato, angoscia e anima si fondono, la
mente è offuscata da un’assordante assenza di pensieri. Nessun istinto mi
spinge ad agire, né umano, né ferino.
Corro, fuggo da un nulla onnipresente che m’ imprigiona in una cella senza
limiti, immensa.
Stremata mi fermo.
Si alza un vento caldo, quasi viscoso al tatto, che permette a malapena di
respirare.
Un foglio nuota in esso, lo afferro: una lettera colma di parole scritte da
mano incerta. Cerco luce per leggere, ma l’unico lume a mia disposizione è la
luna che veglia con il suo ghigno sadico e maligno.
Leggo a
fatica ciò che è impresso su quel foglio giallognolo incartapecorito: sessant’anni
or sono venne scoperta l’esistenza di un pianeta gemello della Terra,
battezzato METIS3. Numerose équipes di astronomi, geologi, biologi e fisici, in
seguito a studi oltremodo, quasi maniacalmente, approfonditi circa tale astro,
garantirono che esso godeva delle medesime peculiarità da cui era
caratterizzato il pianeta che da milioni di anni l’uomo considerava casa. Ciò
costituì una scoperta sensazionale, in quanto in tale luogo l’umanità avrebbe
potuto scrivere un nuovo capitolo della propria storia.
Tecnici e ingegneri si misero all’opera per realizzare astronavi
tecnologicamente sofisticate, mezzi grazie ai quali sarebbe stato possibile
attuare un graduale, immenso esodo.
Le notizie da parte dei pionieri giungevano con alcuni mesi di ritardo, data la “galattica” distanza tra la Terra e METIS3, ma ciò non scalfiva la loro positività: si erigevano nuovi edifici con materiali a impatto zero sull’ambiente circostante, l’aria salubre garantiva ottima salute ai nuovi abitanti, i paesaggi incantevoli intonsi prima di allora dalla mano dell’uomo permettevano di comprendere come fosse anticamente la vita sulla Terra: in questo modo si avrebbe dato una risposta a molti interrogativi della storia dell’evoluzione biologica fino ad allora conosciuta. Il problema della sovrappopolazione che minacciava la Terra sarebbe stato facilmente risolvibile raggiungendo altri corpi celesti con caratteristiche simili a quelle del primo pianeta abitato dall’uomo.
Nei successivi venti anni se ne scoprirono altri due che rispondevano a tale
esigenza, così a poco a poco gli uomini abbandonarono la Terra, sfruttata fino
al midollo e disgustosamente obsoleta, meno una decina di detenuti che, strano
a dirsi, avrebbero scontato la propria pena sì in libertà, ma prigionieri di
quell’immenso nulla. Non potevano sottrarsi a quel martirio suicidandosi dal
momento che ciò era loro impedito da alcuni robot che li sorvegliavano
costantemente, affinché la loro pena fosse ancor più atroce.
Il 10 agosto dell’anno 2074 giunse l’apocalisse: la supernova MB10, relativamente
vicina ai tre pianeti scoperti, esplose: la bomba stellare fu così violenta da
scagliare gas nello spazio fino a 30.000 km/s e da produrre nell’atmosfera che
circondava il corpo celeste elementi chimici più pesanti del ferro.
I gas tossici giunsero fino ai pianeti, dove soffocarono in un soffio di morte
ogni persona, animale e forma di vita. Nessuno sopravvisse.
Prima che
l’ecatombe fosse completa vennero inviati messaggi radar di richieste disperate
di aiuto tra i vari pianeti colpiti dall’immane catastrofe, ma era ormai troppo
tardi.
Il tutto divenne il nulla.
La Terra venne risparmiata, essendo in una galassia differente, così per ironia
della sorte coloro che bramavano la morte per porre fine ad un’inutile
esistenza rimasero sfacciatamente aggrappati alla vita.
Ricevuta la notizia via radar, i dannati finsero che uno di loro fosse deceduto
per cause naturali e, approfittando della distrazione dei robot, li
distrussero.
Decisero poi di comune accordo di togliersi la vita autoinfliggendosi un taglio
alla gola, recidendo la carotide, fruendo così di una rapida morte da
dissanguamento.
Uno di loro tuttavia, prima di abbandonare volontariamente l’esistenza, scrisse
la lettera che ora le mie mani tremanti fanno frusciare debolmente, nella
disperata speranza che qualcuno potesse sapere quale infelice sorte fosse
spettata alla razza che per millenni aveva dominato la Terra.
Ora ne ho la certezza: sono sola.
Assolutamente
sola.
Il mio nome è…nessuno.
Carne sopravvissuta alla morte morendo. Non ho più un’anima: è fuggita per
sempre, svanita nell’immensità nel niente. La mia vita è volata via, scivolata
dalle dita senza che me ne accorgessi. L’oscurità m’inghiotte senza pietà. Le
mie gambe non reggono più il peso di una disperazione tanto sconfinata. Sono a
terra, immobile, nera e fredda come morte.
Fu l’ultima volta che vidi il cielo.
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Maria Baronchelli
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