Titolo : L’affaire Moro: negli scritti di Sciascia la pena di un uomo disconosciuto dai suoi stessi “amici”

Lo statista invia lettere in cui parla delle possibili conseguenze della sua condanna da parte dei brigatisti. Ma non può essere ascoltato…

Il 24 agosto 1978 Leonardo Sciascia firma “L’affaire Moro”, che solo quattro anni dopo verrà arricchito dalla “Relazione di minoranza della commissione parlamentare per il caso Moro”, di cui l’Onorevole Sciascia sarà relatore. Il saggio ripercorre le vicende che vanno dal 16 marzo 1978, giorno del rapimento del presidente della Democrazia cristiana e dell’eccidio della sua scorta, al 9 maggio seguente, giorno del ritrovamento della salma dell’uomo politico pugliese.

Lo scrittore di Racalmuto rilegge le lettere che Moro indirizza ai suoi compagni di partito; le filtra con il suo acume e la sua indefettibile perspicacia, restituendo una immagine impressionante e a tratti mostruosa, della tragica vicenda.

L’aspetto che per primo colpisce alla lettura della piccola opera dell’autore di “Todo modo” è l’analisi di fatti e scritti, compiuti sostanzialmente a caldo, operando necessaria e scrupolosa pulizia della coltre di influenze sparse a piene mani dalla retorica nazionale sullo Stato che “accetta la sfida” che “non si piega al ricatto” che ha unito in quei giorni le forze di quasi tutto l’arco costituzionale.

Una analisi che potrebbe sembrare scontata oggi, ma che allora fu uno sforzo controcorrente, sostrato appunto della relazione di “assoluta” minoranza in Commissione.

Quando viene prelevato dalle Brigate Rosse, Moro si sta recando in Parlamento per la presentazione del governo guidato da Giulio Andreotti, il primo con il sostegno esterno del PCI, soluzione per cui il presidente democristiano si era speso con tenacia. Una acrobazia politica che probabilmente allarma qualche alleato intransigente a occidente, ma indigna anche gli ambienti extraparlamentari di sinistra, quelli più movimentisti almeno.

Dalla prigione Moro scrive una prima lettera al ministro degli affari interni, Francesco Cossiga, dalla quale si ricava il consiglio di riflettere sul da farsi per trarlo dagli impacci, per evitare possibili conseguenze in un processo “con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni”. Quindi: “prendete tempo e trovatemi, prima che le cose vadano per il peggio, per tutti ma soprattutto per me”.

Moro rivolge poi a Benigno Zaccagnini, segretario della DC, un’altra missiva, ricordando al segretario del partito quanta parte avesse avuto nel convincerlo, lui riluttante, ad assumere la carica di presidente. E parla apertamente della perfetta liceità dello “scambio di prigionieri”, scelta che all’uomo politico rapito appare “non solo equa, ma anche politicamente utile”.

Il leader democristiano mette in guardia gli amici dalla “possibile spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo paese” che susseguirebbe al perseguimento della strategia della fermezza.

Le BR dal canto loro avanzano l’ipotesi di uno scambio di prigionieri come unica strada per evitare la condanna dell’uomo che hanno in custodia. La DC è “lacerata dal dubbio”.

Ma, nota Sciascia, più che dal dubbio, il partito è lacerato dalla “certezza di non dover fare nulla”. E mentre la famiglia dello statista (mai come in quei giorni gratificato di questo titolo) chiede che il partito dichiari la propria disponibilità a chiarire quali siano le condizioni reali per il rilascio del proprio presidente, il partito stesso si dichiara in blocco “legato indissolubilmente ai principi di democraticità”, che tradotto vuol dire: “non si tratta”.

E il monolite resisterà per tutto il periodo di cattività del leader cattolico, al punto che anche nell’appello della Santa Sede ai rapitori per la liberazione dell’ostaggio, Paolo VI chiederà di rilasciare Moro “senza nulla chiedere”, senza condizioni, quindi nella linea tracciata dal fronte dei partiti. L’appello rimarrà ovviamente ignorato.

Per primo “Il Popolo”, quotidiano del partito scudocrociato, ma poi tutti gli altri, si affretteranno a introdurre la seconda lettera come scritta da una persona “sottoposta a condizioni di coercizione”, e quindi moralmente non ascrivibile a detta persona. Ed è qui, nota Sciascia, che invece non si riesce proprio a capire come sia così strano che una persona in condizioni di grave e assoluto pericolo cerchi una strada per evitare la condanna a morte.

La retorica nazionale inonda il paese attraverso TV e giornali; alla moglie del politico rapito viene attribuita la frase: “in nessun caso mio marito deve essere barattato”. Ma la signora Eleonora si affretta a smentire tanto onore: non ha mai detto nulla di simile; e anzi. La frase non le può essere più attribuita, dal momento che l’ha smentita, ma si continua dicendo che comunque la donna “ne sarebbe ben degna”.

È sconveniente sapere che Moro abbia sempre pensato alla possibilità della trattativa, ma la soluzione c’è: i giornali, la televisione e la radio si stanno adoperando per certificare la metamorfosi dell’uomo prigioniero. Moro non è più lui.

Moro invece seguita a dire di “un’opportunità umana e politica”, e, per rafforzare la sua tesi, ricorda come sia sempre stato favorevole alla trattativa. Puntuali scattano i meccanismi di difesa del monolite DC: mentre l’Onorevole Gui conferma, l’Onorevole Taviani smentisce che mai Moro abbia espresso questa posizione.

La successiva lettera dal “carcere” è un piccolo grande esercizio di ironia in merito alla carriera di Taviani, alla sua capacità di zigzagare tra tutte le correnti democristiane e alla segreteria, con scarso successo. Ironia mista sicuramente ad avvilimento: da dove verrà, si chiede sicuramente Moro che ben conosce il suo partito, questo zelo “statolatrico”, come lo definisce Sciascia?

La DC fa quadrato, immobile e imbarazzata di fronte alle lettere, sicura di poter affrontare ogni tempesta chiudendosi a riccio. E Sciascia ricorda come nell’ultimo intervento in Parlamento, proprio Moro da presidente scudocrociato si fosse schierato in difesa dell’Onorevole Gui, accusato di essere beneficiario di un grave illecito, sostenendo pregiudizialmente l’innocenza del blocco dirigente del partito basato sulla grande forza dell’opinione pubblica che sceglieva la DC da trent’anni.

Non si può bollare con marchio di infamia tutta una esperienza politica. Insomma, il richiamo dell’immutato consenso elettorale come dimostrazione di un partito senza colpe, e quindi di un singolo senza colpe.

Dalla difesa in toto di una fase e di una esperienza politica rampolla quindi la morte civile dell’esponente che dalla prigione del popolo invoca un gesto umanitario. Di nuovo il Moro che scrive non è più in sé, e verso la fine di aprile dalla sede di Piazza del Gesù viene diramato un documento che Sciascia definisce “mostruoso” firmato da una cinquantina di amici che certificano che Il Moro che conoscono non è quello delle lettere.

E la vicenda corre ineluttabilmente verso la condanna e l’esecuzione, che Moro attribuisce apertamente ai suoi “amici” prima ancora che ai terroristi. La condanna alla solitudine, prima ancora che alla morte.

Lo scrittore siciliano dedica l’ultima nota alla telefonata del brigatista che informa Franco Tritto, assistente e amico della famiglia Moro su dove ritrovare il corpo dello statista DC. La telefonata dalla stazione Termini dura più di tre minuti, con l’assistente che chiede di ripetere, si commuove e piange, e chi telefona che non fa fretta all’interlocutore, nonostante i rischi che stava correndo.

E che pronuncia le parole “mi dispiace”. “Forse ancora oggi” – conclude Sciascia – “il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti”.