Perché studiare l’antropologia in 10 libri

A cosa serve l’antropologia? Cosa fa l’antropologo? Ha ancora senso parlare di antropologia oggi? Un percorso fra 10 classici della disciplina per dare una risposta a questi quesiti.

Disciplina fondamentale, ma insegnata ormai solamente nei licei delle scienze umane, l’antropologia ha molto da dirci sul nostro passato, ma altrettanto sul nostro presente. Nasce nell’evoluzionismo darwiniano, cresce come strumento nelle mani del fascismo, si risveglia negli anni Cinquanta come disciplina imprescindibile per comprendere il mondo e, per dirla come la direbbe un antropologo, “il nativo che sta cambiando”.

Perché il termine stesso, “nativo”, negli anni ha assunto i significati più diversi. Da qualcosa di naturalistico in confronto all’artificiosità dell’età vittoriana a testimone di una cultura che si stava perdendo per sempre, passando per le sfumature negative a esso attribuite dall’età coloniale. In un mondo sempre più in evoluzione, e a volte anche in regressione, lo “studio dell’uomo” diviene fondamentale per capire cosa siamo stati, ma soprattutto cosa abbiamo pensato. E come il nostro modo di vedere la realtà ha influenzato ciò che invece siamo ora.

Perché studiare, quindi, l’antropologia? Ecco 10 libri, 10 classici della disciplina per capirla e apprezzarla, oggi più che mai.

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L’adolescenza in Samoa, Margaret Mead, 1928
Margaret Mead è un’antropologa americana attiva nella prima metà del Novecento e a lei si deve una prima piccola rivoluzione: è la prima degli americani a svolgere ricerche al di fuori della propria patria. L’obiettivo di Mead è fare ricerca su questo momento della vita da sempre considerato molto delicato, l’adolescenza, e decide di andare a studiarlo in un contesto completamente diverso da quello della sua vita di tutti i giorni. Samoa è una minuscola isola dell’Oceano Pacifico ubicata tra la Nuova Zelanda e la Polinesia Francese e le conclusioni tratte da Mead durante il suo soggiorno saranno fondamentali per i successivi studi sull’adolescenza, ma anche sul genere. L’adolescenza a Samoa è meno traumatica che in Occidente perché in questa società semplice e omogenea mancano messaggi concorrenziali e produttivistici: l’America della Mead è impestata di proibizionismo, che spinge i giovani a commettere crimini e a seguire gli ideali sbagliati. Un primo interessante sguardo sullo studio della giovinezza e delle differenze di genere.

L’Africa fantasma, Michel Leiris, 1934
Leiris scrive questo libro dopo la spedizione Dakar-Gibuti degli anni 1931-1933, una spedizione che coinvolge una dozzina di studiosi delle discipline più disparate che attraversa l’Africa allo scopo di raccogliere materiale etnografico per riempire le teche dei neonati musei europei. Una sorta di diario in cui Leiris racconta i metodi usati dai suoi colleghi per ottenere informazioni e materiali, spesso non ortodossi. Oltre a una riflessione metodologica lucida e obiettiva, Leiris si pone per la prima volta nella storia dell’antropologia un dilemma fondamentale: il posizionamento dell’antropologo nei confronti del suo interlocutore. Per la prima volta, un ricercatore si rende conto dell’impossibilità per l’intervistatore di essere neutrale nei confronti dell’intervistato in quanto anche lui è portatore di una cultura e di aspettative.

Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Edward Evan Evans-Pritchard, 1937
Prima opera importante per questo autore che focalizzerà la sua ricerca sulle società nilotiche. Gli Azande sono una popolazione stanziata fra gli attuali Sudan e Congo ed Evans-Pritchard intraprende questo percorso per studiarne inizialmente la stregoneria, ma si ritrovò a studiare la natura stessa del pensiero zande. Per gli zande, la stregoneria è un processo psichico a cui viene attribuita la disgrazia, ma si tratta di un discorso logico: la magia provoca la morte, gli stregoni lo certificano e lo confermano e a loro volta puniscono la morte con la magia. Il pensiero zande possiede quindi un carattere coerente. Il testo di Evans-Pritchard è fondamentale perché con esso si inaugura la corrente di studi sui sistemi di pensiero e pone fine alle teorie sulla mentalità pre-razionale e pre-logica. Per la prima volta, si attribuisce al pensiero di un popolo ancora erroneamente considerato “primitivo” una logicità intrinseca.

Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict, 1946
Il crisantemo e la spada viene commissionato alla Benedict dal governo degli Stati Uniti, in pieno clima bellico. Il governo americano si è accorto di avere un nemico forte, i giapponesi, diametralmente opposto a sé, e non riesce a prevedere i suoi movimenti in guerra perché non ha gli strumenti per farlo. Benedict non può però andare in Giappone durante il conflitto, dunque intervista i giapponesi che si sono formati in patria e poi si sono trasferiti in America. È difficile scrivere un’etnografia sul proprio nemico in questo periodo, è difficile da americana non inciampare nella credenza di sentirsi superiori rispetto e lui. C’è una continua contrapposizione fra società americana e giapponese, ma alla fine sembra che questa sia servita solo a mostrare come i concetti della cultura giapponese siano assolutamente coerenti fra loro, e che la distanza fra Giappone e USA non sia così enorme come sembra. Anzi.

Dio d’acqua, Marcel Griaule, 1948
Uno dei libri di antropologia più letti di sempre. 33 capitoli per le 33 giornate trascorse dall’autore con il suo informatore privilegiato, Ogotemmeli uno sciamano della tribù dei dogon del Mali. L’obiettivo è nobile: dare dignità a un pensiero indigeno accostandolo alle cosmogonie greche e cristiane. Non è solo una descrizione cosmogonica e cosmologica, il volume illustra anche i rapporti tra il cosmo e il sistema sociale e come questi nell’intima struttura sociale quotidiana siano determinati dai miti e dalle credenze. Il sistema sociale secondo Griaule non si può comprendere senza conoscere le credenze cosmologiche e cosmogoniche. La realtà sociale e quotidiana discende dall’idea che gli uomini hanno delle proprie origini e della propria posizione nel cosmo. Griaule è consapevole del fatto che le culture indigene stanno scomparendo e se vogliamo farle conoscere c’è urgenza di fare indagini, indagini che presuppongono un osservatore smaliziato e predisposto a incalzare l’informatore.

Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss, 1955
Itinerario geografico e spirituale dell’antropologo più prolifico ed eterogeneo di sempre, racconta di luoghi come il Brasile, ma soprattutto mostra le inquietudini morali ed esistenziali di LSévi-Strauss nel loro evolversi. Mostra la maturazione delle questioni e del personaggio a livello professionale, umano, esistenziale, spirituale. Il viaggio muove le gambe e muove il cervello, ci cambia, e se non ci cambia è un viaggio fallimentare. In Tristi tropici la campagna scientifica e la spedizione interiore sono intrecciate: un volume di scoperta del conflitto tra mondi, ritratto di alcune civiltà primitive misconosciute, ma è anche lo svelamento dell’efferato operare della civiltà bianca nei confronti delle civiltà primitive. È la storia di un genocidio infinito, della razionale ferocia applicata nelle colonie, di uno sfruttamento che mira ad annientare popoli. Un libro di denuncia contro la Francia ma anche contro le élites brasiliane che vivevano nei “quartieri bene” delle città sulla costa, è un libro in qualche modo primitivista: colmo del desiderio di un’autenticità umana, di qualcosa che sia senza i fronzoli, le complicatezze, le ridondanze della società europea tra le due guerre.

Sud e magia, Ernesto de Martino, 1959
Ernesto de Martino, etnologo che vive e opera a cavallo tra le due guerre mondiali, si occupa di magismo e stregoneria nella Lucania. Lo sguardo che dalla sua Roma volge a Tricarico, paesino fra Basilicata e Puglia dove condurrà le sue ricerche, è carico di esotismo e aspettative: da oltre un secolo l’Italia è unificata, ma gli italiani ancora fanno fatica a considerarsi tali, uniti sotto il nome di un’unica bandiera. Massimo d’Azeglio disse “fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani” e questo è l’obiettivo di de Martino: far conoscere l’Italia agli italiani. In un’epoca in cui chi veniva dal Meridione era considerato “primitivo” e “ignorante”, de Martino dimostra che la magia è solo un modo come un altro per reagire alla storia. E che non c’è nulla di primordiale in tutto questo.

Giornale di un antropologo, Bronislaw Malinowski, 1967 (e non il suo cugino più famoso Argonauti del Pacifico Occidentale)
Pubblicato a venticinque anni dalla sua morte, il diario di campo di Malinowski produce un’immagine diversa dalla consueta agiografia costruita sulla sua figura e sulla sua ricerca. L’intreccio tra le prescrizioni degli Argonauti e le rivelazioni del Giornale fa trasparire con molta chiarezza la complessità della situazione di ricerca e le dinamiche connesse all’implicazione soggettiva dell’etnografo. Ne traspare l’immagine di un uomo tutt’altro che in grado “di farsi strada nel cuore del più diffidente selvaggio”, al contrario emerge l’effige di un “contorto, preoccupato e ipocondriaco narcisista”, accusato di razzismo per il frequente utilizzo del peggiorativo nigger riferito ai nativi. Il Giornale ci fa capire che l’esperienza sul campo di Malinowski fu attraversata da un profondo disagio, segnata dalle difficoltà e dalle frustrazioni del lavoro, dallo smarrimento e della depressione. L’isolamento, teorizzato come precondizione per lo svolgimento di una buona ricerca empirica, si rivela imprevedibilmente insopportabile sul piano esistenziale e l’osservazione partecipante non riesce a risolvere il delicato equilibrio tra soggettività e oggettività su cui si fonda. Il mito dell’antropologo che non sbaglia mai crolla e al suo posto emerge un uomo come tanti altri, con tutti i suoi difetti.

Interpretazione di culture, Clifford Geertz, 1973
L’antropologia interpretativa, la cui nascita è segnata dalla pubblicazione di quest’opera, definisce la cultura come una “negoziazione di significati”. Nell’incontro etnologico fra intervistatore e intervistato infatti si compiono degli atti che hanno un significato più profondo, e tale significato va ricercato nel loro contesto di origine. Nonostante questo, Geertz è il primo a mettere per iscritto la consapevolezza dilagante che una cultura non possa essere messa al riparo dalle influenze e terne, e gli stessi osservatore e osservatoesercitano l’uno sull’altro un’influenza reciproca. Non più una società da osservare in modo freddo e distaccato, ma una circolarità ermeneutica tra soggetti dove ciascuno è produttore di significati: non esiste più una verità unica e assoluta, ma una miriade di verità relative frutto di interpretazioni e influenze.

Nisa. La vita e le parole di una donna !kung, Marjorie Shostak, 1981
Shostak si reca con il marito – un antropologo medico ­– presso i !kung, un popolo del deserto a nord del Botswana, dove instaura un rapporto di amicizia con la donna che soprannominerà Nisa e che la aiuterà a conoscere la quotidianità della società e soprattutto delle donne di questo clan. Negli anni Settanta inizia a farsi strada l’antropologia femminista e con essa moltissimi classici della storia dell’antropologia vengono riletti e reinterpretati alla luce della neonata antropologia di genere: è in questo clima che si inserisce lo studio di Shostak sulle donne !kung, uno sguardo lucido e disinvolto sulla differenza tra uomini e donne in una società tradizionale per scoprire che, in fondo, il genere come fattore discriminatorio è un costrutto tipicamente occidentale.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.