Rimbaud: il veleno e l’ebrezza

Fra i più celebri autori di tutta la letteratura francese, annoverato nel circolo dei “poeti maledetti”, Arthur Rimbaud nasce a Charleville (nel dipartimento delle Ardenne, al confine con il Belgio) nel 1854 e muore il 10 novembre 1891. 

Fra i più celebri autori di tutta la letteratura francese, annoverato nel circolo dei “poeti maledetti”, Arthur Rimbaud nasce a Charleville (nel dipartimento delle Ardenne, al confine con il Belgio) il 20 ottobre 1854. 

Ripercorrendo la sua parabola biografica ci si accorge già dagli anni dell’adolescenza che il giovane Rimbaud possiede un animo passionale, in cui il fuoco si esplica non solo nei versi a tratti tormentati e esaltati, ma anche nei comportamenti più disparati e scandalosi per la morale borghese, nel cui ambito Rimbaud fu educato.

Abbandonato dal padre, capitano di fanteria, Arthur Rimbaud si separa dalla madre autoritaria e bigotta all’età di 16 anni, nel 1870: sono anni difficili per la Francia, minacciata dalla milizia prussiana; Rimbaud progetta un viaggio a Parigi senza essere autorizzato, e una volta arrivato nella capitale francese viene arrestato e detenuto nella prigione Mazas. Solo l’intervento del suo amico e professore di letteratura del liceo, Georges Izambard, gli permette di ritrovare la libertà.  

Da allora Rimbaud, rientrando raramente nella sua città natale, comincia una vita di peregrinazioni che lo porterà, come noto, a conoscere Paul Verlaine nell’agosto del 1871. L’inquieta relazione fra i due, in un turbine di tumulti ed eccessi, termina fatalmente nel giugno del 1873, a Bruxelles: in seguito a due colpi di arma da fuoco che gli feriscono leggermente il polso, Rimbaud parte senza Verlaine, abbandonato nel suo delirio ebbro. 

Leggere come una brezza autunnale, le liriche di Rimbaud corrono sulla carta; esaltanti come un sorso d’assenzio nella notte illuminata a giorno, i suoi versi e poemi in prosa, a tratti scomposti, sortiscono nel lettore moderno e contemporaneo un languore saturnino; infine le parole, al contempo strappate  al rozzo uso comune e alla vuota eloquenza, suscitano un deragliamento dei sensi e un abbandono alla forza evocativa delle parole stesse. 

In Mattinata d’ebrezza (Matinée d’ivresse), che compare nella raccolta di poemi in prosa Les Illuminations, pubblicata a partire dal 1886, il veleno assurge a funzioni disinibitorie che liberano l’io lirico: 

O mio Bene! O mio Bello! Fanfara atroce in cui non vacillo! Cavalletto fiabesco! Urrà per l’opera inaudita e per il corpo meraviglioso, per la prima volta! Cominciò fra le risate dei bambini, finirà per causa loro. Questo veleno resterà in tutte le nostre vene anche quando, passata la fanfara, saremo restituiti all’antica disarmonia. 

La voce dell’io lirico si fa aspramente ermetica. In un reale che potrebbe apparire disarmonico, brutto, un guizzo fiabesco irrompe: è la fanfara dell’arte, del bello e del bene, compresa e assorbita grazie ad un processo estatico. 

“Cavalletto” traduce il francese “chevalet”, che può far riferimento sia al cavalletto del pittore sia allo strumento di tortura (eculeo) sul quale il corpo del malcapitato veniva tirato.

L’io lirico, in questo caso veggente, sembra trasportarci in una dimensione paradossale in cui il dolore, non più stigmatizzato, diventa complemento del bello: non più solo la malinconia, ma il dolore, anche fisico, tempra lo spirito umano sul percorso del bello. 

Il veleno, che causa dolore e porta alla morte, prelude all’estasi: in un’esistenza in cui la sofferenza è preponderante, il corretto modo di incanalarla, di domarla, diventa essenziale.

Oh adesso noi così degni di queste torture! Riuniamo con fervore questa promessa sovrumana, questa demenza! L’eleganza, la scienza, la violenza!

La climax ascendente comprende dei sostantivi di sfere semantiche assai diverse fra loro e che ben esemplificano il caos dell’esistenza umana; fra tutti, la violenza ne è l’apice. Il caos è assenza di raziocinio (demenza), e l’individuo ne resta pericolosamente implicato. 

(…) Piccola veglia d’ebbrezza, santa! Non fosse altro che per la maschera di cui ci hai gratificato. Noi ti affermiamo, metodo! Non dimentichiamo che ieri hai glorificato ciascuna delle nostre età. Noi abbiamo fede nel veleno. Sappiamo donare la nostra vita intera tutti i giorni.

Il veleno e il dolore, metafore di una vita caotica, causano un’ebrezza esistenziale: essa è santa, perché squarcio sopportabile in un velo sofferente; è gratificante, perché il flebile guizzo d’arte, effimero nella sua consistenza quanto prorompente, fa cosa gradita ad un animo fustigato. La fede nel dolore, nel veleno e nell’ebrezza diventa totalizzante

Altamente consapevole, forse, della sua condizione, Rimbaud, a partire dal 1875, abbandona la poesia. Le sue peregrinazioni lo portano verso le Indie olandesi, in Egitto e nel Corno d’Africa; nel 1885 si dedica anche al traffico d’armi. 

La parabola discendente della sua vita lo riporta in Europa: a Marsiglia, accolto nell’Ospizio della Concezione, viene accudito dalla sorella Isabelle, e muore nel novembre 1891, fra deliri e atroci dolori.

 

di Giuseppe Sorace

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.