Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Quarantatré anni dopo la sua uscita, “The Wall” è un concept album ancora attualissimo per l’universalità dei temi trattati sulla condizione umana, dallo straniamento all’impossibilità di comunicare.

Andare oltre il Muro leggendo i testi dell’opera rock “The Wall”, è un esercizio che ci permette di ritrovare alcuni temi che si andavano imponendo alla sensibilità della band inglese. I Pink Floyd erano all’apice del loro successo con il tour precedente legato all’album “Animals”; le cifre di vendita e le presenze ai concerti sono sbalorditive e cresce nel leader di quegli anni, il bassista e cantante Roger Waters, la vertigine e la sensazione che il megaconcerto sia un luogo dove non ci sia un vero incontro, ma una festa vuota, dove si erge un bastione invalicabile tra la band e la gente. Il doppio vinile uscito nel novembre del 1979 ha le sue radici quindi nel precedente tour mondiale dei Pink.

Straniamento, impossibilità di raggiungere i fan, alienazione mentale; quest’ultima è una impressione forte nel gruppo, che alcuni anni prima ha visto uscire dalla formazione il fondatore Syd Barrett proprio per progressivi disturbi mentali. Il muro della copertina, completamente bianco di mattoni tutti della stessa dimensione, ci ricorda le pareti immacolate e Marcello Mastroianni con la frusta in mano, regista in crisi che non sa più cosa dire e come dirlo del capolavoro felliniano “8 e ½”.

Nel primo vinile dominano la paura e le domande. Certo la paura della guerra, che priva il piccolo Roger del padre, caduto nella Battaglia di Anzio del 1944, e che si palesa con il rumore degli aeroplani nella prima traccia “In the flesh?”. Ma anche quella di vivere.

Da qui in avanti si impone la figura della madre, che instilla nel figlio le proprie fobie: in “The thin ice” lo mette in guardia dal rischio di camminare sul “ghiaccio sottile della vita moderna”. Ricorrono le parole fear (paura, appunto), reproach (rimprovero) dei milioni di occhi rigati di lacrime (tear-stained), ossia il ricatto dei cari in pena per il piccolo. Quando il ghiaccio si rompe il bambino cade nell’abisso ed esce di testa (out of his mind). La scena si completa con l’immagine del figlio spaesato che si aggrappa al ghiaccio frantumato.

Nella canzone “Mother” ritorna il terrore della guerra, del non essere accettato, dell’essere bullizzato come accadeva a scuola; la paura di soffrire per amore. Tutto viene espresso con domande che Waters pone alla madre: “mamma, pensi che sganceranno la bomba? Che la mia canzone piacerà? Che io mi potrò fidare del governo? Mamma, mi spezzerà il cuore?

Ai suoi dubbi risponde il chitarrista David Gilmour, che, come controcanto, utilizza le parole nightmare (incubo) e di nuovo fear, e per contrasto afferma che la madre lo terrà cozy and warm (coccolato al caldo), che gli sceglierà le fidanzate, ma che lo terrà sempre d’occhio.

Nella tripla “Another brick in the wall” parte prima e seconda e “The happiest days of our lives” Waters ricorda i professori che evidenziavano le debolezze (weakness) dei bambini, e immagina gli stessi a casa frustrati e succubi di mogli psicopatiche, di nuovo parlando di disagio mentale, come visto in precedenza. Il coro degli alunni che chiedono urlando “non abbiamo bisogno di questa educazione, professori, lasciate i ragazzi da soli” è uno dei pezzi più famosi dell’opera e della musica moderna in generale; quasi un sogno, il desiderio del giovane Roger.

La riflessione sulla guerra ritorna in “Goodbye blue sky”, ed è la fine dell’innocenza. Ritornano gli uomini spaventati (frightened), che scappano. Ritornano le domande: “perché scappiamo se ci avevano promesso un mondo nuovo sotto un cielo blu chiaro?”.

Pink (questo il nome del protagonista, alter ego di Waters) è ormai adulto ed è diventato una rockstar, ma il suo processo di alienazione prosegue; sta costruendosi il muro che lo separa da tutto. Affronta una crisi (One of my turns) e domanda alla donna che è con lui se vuole dormire, fare l’amore o imparare a volare (la vuole uccidere?) o se vuole vederlo volare. “The Wall” è ormai costruito.

Nel secondo vinile il protagonista prende la scena, e i testi si soffermano maggiormente sulle sue azioni; la madre, l’assenza del padre, il maestro e la moglie lo hanno aiutato a porre mattoni su mattoni.

Ora assistiamo alla sua ricerca di qualcuno oltre la parete. In “Hey you” domanda aiuto e chiede se qualcuno lo sente. Come sempre nel tentativo di risalire ci sono momenti in cui tutto sembra vano, e una voce dice: “il muro è troppo alto, e i vermi gli stanno mangiando nel cervello”, con un nuovo riferimento all’aspetto psichico. Nel finale appare però anche uno sguardo al futuro: “hey tu, non dirmi che non c’è speranza; uniti resistiamo, divisi cadiamo”.

Pink si rende conto che a casa non c’è nessuno, che è da solo; nella famosissima “Confortably numb” (Piacevolmente intontito) vince le paure che ne derivano con delle pillole, e in una traccia precedente c’è un riferimento alle siringhe. Anche il ricordo del passato e del padre sembra scomparire.

In “The show must go on” Pink continua a riflettere, prega i genitori di riportarlo a casa, e si chiede: “è troppo tardi?”. È forse possibile invertire la strada intrapresa?

Forse lo sarà, ma il protagonista dovrà passare attraverso un incubo in cui il suo altro è un dittatore che cerca i diversi, neri, ebrei o omosessuali. Allora aspetta che il delirio passi, per prendersi una pausa (“Stop”) e di nuovo chiedersi: “è sempre stata colpa mia?”.

La redenzione passa attraverso il processo (The trial). Riappaiono quindi il maestro e la madre, i rimproveri e le offerte di rifugio sicuro nella casa di quando era bambino.

Il giudice lo dichiara quindi colpevole di aver fatto soffrire tante persone, e lo condanna a tornare in mezzo ai suoi pari. Pink deve riprendere a mostrare le sue paure più profonde. Il muro va abbattuto! La sua salvezza passa proprio attraverso le angosce di esporsi.

Le parole dell’ultima traccia, “Outside the wall”, ossia “Fuori dal muro” sono forse una riflessione generale sui rapporti umani: le persone buone, che ci vogliono bene, ci sostengono e ci fanno stare in piedi. Alcuni cadono, dopotutto non è facile resistere quando si sbatte contro il muro di un idiota matto.

I rapporti umani si interrompono contro le pareti che, a turno, ognuno di noi alza e abbassa, senza soluzione di continuità.

 

Danilo Gori

ATP Finals: Novak Djokovic, il Maestro 6 tu!

ATP Finals: Novak Djokovic, il Maestro 6 tu!

ATP Finals: Novak Djokovic, il Maestro 6 tu!

A Torino il serbo si impone per la sesta volta, sette anni dopo l’ultimo successo. Non è il numero uno del mondo per ragioni esclusivamente extra-tennistiche.

Novak Djokovic vince il titolo di Maestro del circuito! Lo fa per la sesta volta e affianca Federer, che ha vinto più volte di tutti la competizione. Si è presentato per tutta la settimana dal 13 al 20 novembre con una livrea verde che ci ha ricordato l’Enigmista, il nemico che sfidava Batman a colpi di indovinelli. Qui il mistero è il solito: ma come fa a vincere sempre?

Il grande campione serbo ha dimostrato ancora una volta di essere fatto di un materiale indistruttibile. Ha difeso le sue scelte in materia di vaccini fino a dover accettare l’esclusione dall’Australian Open a gennaio; per lo stesso motivo non ha potuto entrare negli Stati Uniti ed ha così saltato tutte le manifestazioni in quel paese, soprattutto gli US Open.

Ha vinto Wimbledon, ma non ha incassato i punti destinati al vincitore per la decisione dell’Associazione Tennis di penalizzare il torneo che aveva deciso di non ammettere tennisti russi e bielorussi. Insomma, c’era di che scoraggiarsi. Novak invece ha pensato solo a farsi trovare pronto fisicamente e mentalmente ogni qualvolta gli avessero permesso di giocare.

Da settembre ha giocato tre tornei, vincendone due e sfiorando il titolo nel terzo, a Parigi, sconfitto all’ultima curva da Holger Rune, diciannovenne di cui parlammo subito bene commentando il Roland Garros (che occhio clinico).

A Torino ha vinto cinque volte perdendo solo un set, al tie-break con Daniil Medvedev. In finale ha disposto del Norvegese Casper Ruud in due set, 75 63, prevalendo sul campo più nettamente di quanto non dica il punteggio. I suoi colpi piatti viaggiavano spediti su una superficie molto veloce, e il giocatore nordeuropeo semplicemente non aveva le armi per metterlo in difficoltà.

Nel discorso successivo alla premiazione, Novak Djokovic è andato a braccio e a cuore, esprimendosi in un ottimo italiano e scatenando l’affetto del pubblico torinese.

Non sempre il tifo è dalla sua parte in giro per il mondo: perché è il più forte, per certe sue scelte, perché vince troppo. In Italia trova sempre le giuste emozioni e il calore del pubblico.

A trentacinque anni è ancora l’uomo da battere, e la stagione 2023 si è già aperta nel modo migliore, con le autorità australiane che hanno rimosso il ban al suo ingresso nel continente oceanico. Gli avversari sono avvisati…

Capitolo Rafa Nadal. L’asso spagnolo rientrava da un infortunio, e la superficie velocissima non lo ha aiutato. Ha perso il primo incontro con Taylor Fritz lottando nel primo set ma arrendendosi ai missili del suo avversario nel secondo. Due giorni dopo ha ceduto al canadese Auger-Aliassime, ed è stato eliminato. Si è scosso nel terzo match, inutile ai fini della classifica ma fondamentale per il suo orgoglio, e ha battuto un Ruud già ammesso alle semifinali.

Quello delle ATP Finals è l’unico alloro che tarda ad arricchire ulteriormente la sua ponderosa bacheca. Il maiorchino deve avere una vetrinetta in granito e alabastro rinforzato che fa municipio in quel di Manacor, ma l’edicola speciale approntata per ricevere il trofeo del Masters rimarrà sfitta per un anno ancora.

L’eventualità peraltro non sembra togliere il sonno al campione iberico; in conferenza stampa, scrollando la testa senza posa, ha riconosciuto il valore dell’avversario, la difficoltà di rientrare dopo un infortunio e di misurarsi da subito con giocatori forti.

Mentre scriviamo è già partito per lucrosissime esibizioni in Sudamerica. Ha un anno più di Novak, ma è più provato nel fisico dopo anni di battaglie e di tennis dispendiosissimo; speriamo ritrovi la carica per una nuova stagione ai vertici, dopo un 2022 che lo ha portato comunque sul trono di Melbourne e di Parigi. Il pubblico lo segue come sempre, il suo ingresso in campo a Torino contro Fritz è stato salutato da un entusiasmo straordinario (cui chi vi scrive ha nel suo piccolo contribuito), vederlo giocare è sempre inspiring.

Vabbè, ma non c’erano mica solo loro due.

Vero.

Stefanos Tsitsipas, il bel greco vincitore a Montecarlo, come scrivemmo ad aprile, ha il difficile compito di raccontarci quanto fosse bravo Roger Federer. Il suo gioco lo ricorda molto.

È l’unico a colpire di rovescio a una mano ed è quello che meglio di tutti attacca la rete. Inoltre, piace molto al pubblico femminile, e qui batte anche Roger. Ma solo qui.

È bravissimo e vederlo in azione fa bene ad ogni appassionato; chissà se troverà la formula per fare un ulteriore salto di qualità e vincere uno Slam. A Torino ha perso una partita ben avviata contro il russo Rublev; forse gli farebbe bene prendersi una vacanza dal proprio clan, una famiglia con un padre allenatore un po’ troppo severo (la storia di questo sport è piena di genitori ingombranti, arroganti e a volte purtroppo anche maneschi).

Daniil Medvedev quest’anno è stato anche numero uno del mondo, ma non ha saputo essere sufficientemente continuo per difendere la posizione. Qui ha perso tre volte su tre, sempre al tie-break decisivo! Un record alla rovescia.

Fritz e Rublev sono stati semifinalisti inattesi ma bravi ad approfittare delle occasioni presentatesi, così come anche il finalista Ruud, uno dei tennisti che più ha compiuto progressi nella stagione appena terminata. Mia opinione: gli organizzatori non devono essere stati troppo contenti di avere questi tre semifinalisti, forti ma non molto personaggi. Per loro fortuna il quarto era Novak Djokovic, che ha messo a posto le cose…

Ne ho nominati sette, quindi ne manca uno. Felix Auger-Aliassime è stato il protagonista dell’autunno, con una rincorsa a suon di vittorie che gli è valsa la qualificazione per Torino. Ma per arrivarci si è spremuto oltre, ed è stato eliminato anzitempo. È giovane, ci sarà tempo.

L’anno si chiude qui, manca solo la Coppa Davis, in scena a Malaga proprio in questa settimana, C’è l’Italia, ma Sinner e Berrettini hanno marcato visita e noi riponiamo le speranze di bella figura soprattutto in Musetti e Sonego. Sarà dura sin dal primo turno, con gli USA di Taylor Fritz gasatissimo protagonista nel capoluogo piemontese.

Speriamo sia tanto stanco…

Danilo Gori

Vittorio De Sica, il sorriso e il perdono

Vittorio De Sica, il sorriso e il perdono

Vittorio De Sica, il sorriso e il perdono

Nella dedica di Ettore Scola in “C’eravamo tanto amati” l’omaggio a un immortale del cinema, il Vittorio De Sica regista ma non solo.

Che tempo c’era là fuori, quando Vittorio se ne è andato?

Forse c’era la nebbia, lana soffice e magica, misteriosa e tiepida del sorriso di Totò il Buono di “Miracolo a Milano”; o magari la pioggia, intrigante complice delle chiacchierate segrete di Micol Finzi-Contini e Giorgio quando l’inganno nazista era ancora solo un sinistro presagio.

O magari splendeva il sole, che baciava le imprese degli sciuscià a cavallo per le strade di Roma, o del piccolo Bruno in trattoria con il padre alla ricerca del ladro di biciclette; bambini che respirano istanti di riscatto da una vita di miserie. Chissà…

Perché quando se ne va un grande, una immagine persistente, al servizio del nobile poeta o dell’umile cronista, è quella del meteo partecipe del dolore universale. “Anche il sole indirizza i suoi caldi raggi verso il caro che prende congedo”, “il cielo si unisce alla tristezza di tutti rovesciando le sue lacrime dolenti”. Il caldo e il freddo come espressione del turbamento dell’ordine naturale, come omaggio a una personalità unica.

Ci avrà pensato Ettore Scola, nel 1974, regista in uscita con “C’eravamo tanto amati”? Il suo capolavoro era pronto: trent’anni di storia italiana, dalla lotta partigiana alla ricostruzione, dal boom agli anni Settanta. Le speranze e le illusioni, la voglia di cambiare il mondo e il mondo che ci cambia. “Il futuro è passato, e noi non ce ne siamo nemmeno accorti”, dice Gianni Perego, ex idealista ora arricchito palazzinaro con il volto di Vittorio Gassman. “Vivere come ci pare e piace costa poco, perché lo si paga con una moneta che non esiste: la felicità” rilancia Nicola – Stefano Satta Flores, l’intellettuale che ha lasciato la famiglia pur di inseguire velleitari sogni di un avvenire migliore.

Sì, secondo noi Scola ci ha pensato. E si deve essere detto: ai miei personaggi manca qualcosa. E cosa se non il sorriso?

Vittorio De Sica ha vinto quattro Oscar, e avrebbe vinto forse anche quello alla carriera, come Fellini, se un brutto male non se lo fosse portato via troppo presto, proprio nel 1974. Maestro straordinario della regia, è stato anche cantante e attore, sovente criticato per aver prestato la sua arte a film non degni di nota.

Ha dato fondo al proprio talento dando vita spesso a personaggi leggeri e furbacchioni. Nelle sue interpretazioni del periodo più maturo fanno capolino alcune costanti, talmente evidenti da farcele immaginare proprie dell’attore stesso. Una certa cialtroneria intanto: la ritroviamo nel sindaco che pensa di poter interpretare il codice della strada a proprio uso e consumo, e viene multato dal “Vigile” Alberto Sordi. O nel presidente di un ente di difesa della morale pubblica nel “Moralista”, corrotto e smascherato nel finale.

Il suo nobile in disgrazia poi assurge a categoria cinematografica propria. Spiantato, invariabilmente anche per una incontrollata ed ironicamente autobiografica attrazione per il gioco d’azzardo; alla ricerca di un matrimonio con qualche facoltosa donna di bella famiglia. È ad esempio un Conte Max prodigo di consigli per Alberto Sordi che vuole entrare in alta società, salvo poi aiutarlo quando, deluso dalla vacuità del mondo altolocato, si ripropone di conquistare una normalissima ragazza che lavora a servizio.

Se è il miracoloso guaritore di un paesino dell’Italia centrale impegnato a rovesciare sale sui pazienti o fare fatture (anti iattura ovviamente), eccolo ingaggiare guerra con il neoarrivato giovane medico condotto (“Il medico e lo stregone”).

Il sorriso, ecco cosa non manca mai nella sua arte. In chi viene sconfitto, in chi perde a carte e si rovina, in chi si arrende ad una giovane donna che non sarà mai sua. 

Se Sordi, soprattutto nei cinquanta e nei sessanta è l’italiano cattivo e poi incattivito dalla società dei consumi e dell’arrivismo, Vittorio è l’uomo che indulge alle debolezze più patetiche e ridicole. Quello che cerca di farla franca, ma che quando non ci riesce sembra dirsi: “ma davvero credevi di passarla liscia?”.

Vittorio sorride e perdona tutti; sé stesso, certo, ma poi anche gli altri. Perché la carne è debole, perché “tengo famiglia”, frase che paradossalmente nella vita lui pronunciava declinandola al plurale, e le acrobazie quotidiane per poter garantire affetto e presenza a entrambi i suoi nuclei famigliari sono arcinote.

Così Ettore Scola costruisce il suo capolavoro pensando a Vittorio; uno dei protagonisti, Nicola, professore progressista, arriva a insultare le autorità scolastiche cittadine che criticano durante un cineforum proprio “Ladri di biciclette” perché fomenterebbe l’odio sociale. E lo stesso Nicola si presenta ad un noto quiz televisivo, rispondendo a domande sul regista.

Il film (che ha apparizioni di Fellini, Mastroianni e dello stesso De Sica) ha un finale amaro e malinconico, ed è bello pensare che l’inizio dei titoli di coda del film sia la formula magica con cui guardare avanti nonostante tutto, con cui riconoscere che la vita, dopo un fallimento, concede la rivincita già il giorno seguente. E che se la affronti con il sorriso, stai già avendo la meglio: “Dedichiamo questo film a Vittorio De Sica”.

Wim Wenders ha scritto: “cinema, il tuo nome è Federico”. Lungi da me il pensiero di contraddire il regista de “Il cielo sopra Berlino”; ogni qual volta però mi appresto a vedere “Umberto D.”, forse l’ultimo film della stagione neorealista di De Sica, ammiro la dignità del pensionato in miseria che non cede alla tentazione di liberarsi del proprio cagnolino uccidendolo sui binari del treno. E penso che, se fosse lì con me, gli direi: “Wim, siedi qui. Questo forse te lo sei perso…”

Danilo Gori

Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Nelle inconsistenti vicende dei cinque ragazzi di provincia troviamo le paure di crescere e diventare uomini

Il film “I Vitelloni” del 1953 è il secondo girato da Federico Fellini, di cui ricorre il 31 ottobre il ventinovesimo anno della scomparsa. È una commedia a tratti divertente, a tratti triste e anche disperata, osservata con comprensione ma non senza capacità di giudizio dal protagonista Moraldo, interpretato da Franco Interlenghi.

Ambientato nella città del regista, narra le vicende di cinque uomini, giovani ma non più ventenni, alle prese con una vita di provincia monotona, ma alla quale non riescono e, in fondo, non vogliono rinunciare.

C’è Fausto, il bello e cinico donnaiolo del gruppo, che si vede costretto a sposare Sandra e a trovare un lavoro quando si scopre che aspetta un figlio da lui; Leopoldo, l’intellettuale che continua pigramente a scrivere e rimaneggiare un’opera teatrale. Alberto (un Sordi al secondo film con Fellini, dopo lo “Sceicco Bianco”) è un mammone perdigiorno che critica la sorella, unica fonte di reddito della famiglia, per la sua relazione con un uomo sposato.

C’è Riccardo e c’è appunto Moraldo, fratello di Sandra e quindi genero di Fausto. Vediamo i vitelloni che si fanno beffe della “matta” del quartiere, che stanno sul molo a guardare il mare in inverno o che prendono il sole all’esterno del loro bar. “Poca vita, sempre quella”, come avrebbe cantato Lucio Dalla in “Anna e Marco”.

La figura centrale è come detto Moraldo. Timido e ingenuo, osserva imbarazzato alcune trovate dei più esuberanti amici; li asseconda e li perdona, come quando abbassa gli occhi per non guardare il cognato Fausto corteggiare senza vergogna altre donne. Sul suo viso non si spegne mai il taglio di sorriso con cui segue i compari, ma lentamente si fa strada in lui il desiderio di voltare pagina.

Una notte, tornando a casa dopo una serata in compagnia, si ferma a parlare con Guido, ragazzino che invece sta recandosi fischiettando in stazione, dove lavora come fattorino-tuttofare. Gli chiede se è contento, e il ragazzo fa una smorfia, ma risponde: “beh, si sta bene”. Moraldo si confronta con una persona ben più giovane di lui, che già affronta la vita dura di chi si alza sempre alle tre, ma lo fa con realismo e di buon grado.

Gli toglie il berretto da lavoro e se lo mette in capo; i due ridono ed è il più grande che si incarica di dedicare un momento del loro incontro al gioco.

Da corda al cognato vanesio e lo aiuta addirittura a rubare un arredo sacro dal negozio dove lavora e da dove è stato licenziato dopo che ha insidiato la moglie del proprietario. Rassicura pateticamente Sandra sulla serietà del marito, ma quando lei scappa con il bimbo dopo l’ennesima impresa fedifraga, a Fausto che dice “se si è buttata in mare mi uccido!” risponde: “non lo farai mai, sei un vigliacco!”.

Il gruppo di amici è incapace di cambiare, ed è proprio Moraldo che realizza che, per crescere, bisogna partire. E così fa una mattina, salendo su un treno per chissà dove. Guido, il giovane fattorino, lo saluta con il volto illuminato dal sorriso, e quando il treno ha lasciato la stazione, si mette a camminare in equilibrio su una rotaia, riappropriandosi per un breve momento del suo diritto a giocare. Intanto tutti gli altri vitelloni dormono.

La carrellata dei letti con gli amici addormentati è nello stesso tempo tenera e feroce, e il gesto finalmente attivo di Moraldo avrà un’eco nel Nicola di “La meglio gioventù”, che, dopo aver osservato i propri cari vivere e smarrirsi, organizza la cattura della moglie brigatista, per impedirle di farsi e fare del male.

La bonaria ferocia di Fellini si ripropone nei forti contrasti nel momento della festa di Carnevale, dove tutti devono divertirsi e perdersi (come se alcuni già non lo fossero) in azioni frivole e ingannatorie, per poi cambiare scena al mattino successivo. Dopo i bagordi c’è solo la desolazione di un altro giorno passato e di uno nuovo da riempire di nulla. Alberto, ubriaco, fissa una testa enorme di cartapesta, decorazione ormai inutile, e forse per un attimo vede sé stesso. Ritorna faticosamente a casa, aiutato da Moraldo, e trova la sorella che scappa con il suo amore impossibile. È la tragedia: Alberto consola la madre ma in lui si fa strada la consapevolezza che dovrà trovarsi un lavoro.

E ancora contrasti nelle profonde differenze tra Fausto e il padre, persona povera ma orgogliosa e piena di dignità che, una volta che la nuora Sandra è riapparsa, accoglie il figlio a cinghiate. Alla scena è presente l’ex datore di lavoro di Fausto, che porge la mano al genitore sconsolato dalla vacuità del figlio e gli dice con rispetto: “onoratissimo!”.

“I Vitelloni” non ha avuto immediato successo; la sua fama è cresciuta nel tempo; Martin Scorsese ha detto di essersi ispirato al film per le dinamiche tra criminali di “Quei bravi ragazzi”, e Stanley Kubrick lo ha definito semplicemente il “mio film preferito”. I personaggi assurgono a tipi universali; non c’è quasi traccia di cadenze dialettali, e la pellicola, come spesso accade in Fellini, non è nemmeno girata nella sua città natale. Come in altri suoi lavori, la bugia e il sogno sono sempre in agguato, mezzi espressivi principali del Maestro per raccontare la sua verità.

Danilo Gori

US OPEN: Matteo Berrettini e Jannik Sinner, italians a go-go!

US OPEN: Matteo Berrettini e Jannik Sinner, italians a go-go!

US OPEN: MATTEO BERRETTINI E JANNIK SINNER: ITALIANS A GO-GO!

I due italiani protagonisti nelle prime giornate del torneo, mentre Serena Williams si ritira dalla bagarre e viene celebrata da tutto il suo mondo.

Prima settimana del torneo newyorchese: allo US Open conferme, novità e storie belle belle. Quella che si prende la copertina si chiama Serena; sabato 3 settembre la sconfitta patita dall’australiana Tomljanovic ha posto fine alla sua impareggiabile carriera.

La campionessa ha superato due turni: nel secondo match ha sconfitto l’attuale numero due del mondo, la estone Anett Kontaveit: ha giocato il suo miglior incontro degli ultimi anni ed è stata sospinta da un pubblico che ha tifato anche palesemente contro la sua avversaria. Anett si è lamentata di questo e ha pianto durante la conferenza stampa, ma la realtà è che Serena l’ha sovrastata nella personalità prima ancora che nel gioco. 

Il comportamento della audience mi ha ricordato l’edizione del 1991, quando il trentanovenne Jimmy Connors riuscì a issarsi fino alle semifinali orchestrando gli spalti come un vero gladiatore. Nel match contro l’olandese Paul Haarhuis un suo passante di rovescio in avanzamento è da molti considerato il punto più entusiasmante nell’intera storia del torneo; anni dopo, durante un’intervista, l’olandese dirà: “non ho mai sentito un baccano simile su un campo da tennis, né più lo sentirò”.

Ho divagato. Tutti i colleghi di Serena, più o meno titolati, hanno celebrato sulle rispettive pagine social il ritiro della regina nera. Personalmente credo che il suo impatto sulla popolarità del tennis femminile sia avvicinato solo da quello impresso sul movimento da Martina Navratilova, che fuggì a 19 anni nel 1975 dalla nativa Cecoslovacchia. Da Martina a Serena, ovvero quando i confini dello sport sono troppo stretti per personaggi che entrano nell’immaginario collettivo.

Protagoniste del torneo femminile? Detto della Williams, per il resto a regnare è il caos! Tutte battono tutte, le certezze di ieri non sono quelle di oggi, e probabilmente domani sarà un altro giorno…

Rossella O’Hara a parte, ci sono sorprese in tutti i turni e troppe sorprese equivalgono a nessuna sorpresa; per evitarvi il tedio di una nuova riproposizione della parola aserpros (scritta alla rovescia, così non entra nel computo), diciamo che, come peraltro già in passato indicato, l’uniformità del gioco moderno ha indebolito le gerarchie. In ogni torneo dello Slam possiamo considerare come minimo dieci giocatrici in grado di vincere; entro il secondo turno quest’anno sono uscite ben sette vincitrici di tornei dello Slam, dato senza precedenti, che dimostra la volatilità delle classifiche attuali.

Quanto descritto si traduce in uno statu quo difficile da gestire dal punto di vista finanziario per l’Associazione Tennis Femminile (WTA), che ha bisogno assoluto di nuove figure vincenti che trainino il circuito. L’associazione inoltre ha cancellato tutti gli eventi in Cina, a seguito della vicenda drammatica che ha coinvolto la tennista cinese Shuai Peng. La giocatrice ha denunciato sul proprio blog durante lo scorso novembre di essere stata oggetto di violenza sessuale da parte di un dirigente del tennis cinese, e per alcuni giorni è scomparsa. In seguito, sono stati diffusi video apparentemente rassicuranti dell’atleta, ma ancora non è stato possibile alla WTA contattarla direttamente. Da qui la decisione in merito alle competizioni in Cina, che però toglie introiti importanti.

Tornando agli US Open, a mio parere le tenniste che agli ottavi di finale sembrano avere qualcosa in più da mettere sul tavolo negli ultimi turni sono, oltre a Iga Swiatek, campionessa a Parigi e numero uno della classifica, Ons Jabeur, vincitrice a Madrid, e le americane Pegula e Gauff. Senza dimenticare la francese Garcia.

Il titolo comunque parla di italiani, e quindi… parliamone! Pur giocando a corrente alternata, Berrettini e Sinner hanno raggiunto gli ottavi di finale. Nella sera di domenica 3 Matteo è sceso in campo e si è qualificato per i quarti di finale superando in cinque set lo spagnolo Davidovich-Fokina. L’italiano ha commesso diversi errori di diritto e con il servizio, ma ha gestito meglio del suo avversario i momenti più delicati del match. Lunedì sarà la volta dell’altoatesino, che è favorito contro il russo Ivashka. Il traguardo di due nostri rappresentanti negli ultimi otto in gara agli US Open è tutt’altro che impossibile.

Nel torneo maschile Rafa Nadal è l’osservato speciale numero uno. Si è qualificato per gli ottavi; le sue condizioni fisiche lasciano ancora più di un dubbio, ma, nella terza partita della settimana ha giocato assai bene, confermando l’attitudine dei grandi campioni di andare in crescendo negli appuntamenti più importanti.

Il suo primo avversario è il russo Medvedev, il vincitore dell’ultima edizione. Ha passeggiato nelle prime tre partite, ma nella notte tra domenica e lunedì affronterà Nick Kirgyos, che dopo la finale di Wimbledon ha intenzione di continuare a giocare con la stessa intensità. Il quadro si completa con il passaggio agli ottavi di Carlos Alcaraz, mentre Tsitsipas ha mandato in campo una sua sbiadita controfigura, ed è stato eliminato al primo turno da un giocatore di secondo piano.

Con la seconda settimana lo US Open entra nel vivo degli incontri decisivi, per arrivare alle finali del prossimo fine settimana. A lunedì quindi, per leggere di vincitori e vinti!

La noia: romanzo e paradigma novecentesco

La noia: romanzo e paradigma novecentesco

La noia: romanzo e paradigma novecentesco

Da Leopardi a Schopenhauer, da Svevo a Joyce, la condizione dell’uomo moderno sembra alimentarsi di un sentimento di noia che priva l’individuo di ogni slancio vitalistico, condannandolo ad un taedium vitae perenne e incomunicabile. 

La noia: una vicenda incompiuta

“Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità”. Dino, è un giovane artista appartenente alla nobiltà romana, si è da poco trasferito in via Margutta, dove ha sede il suo fatiscente studio da pittore. Eppure la novità dello studio, la vivace realtà romana e la pittura non sembrano alleviare quella “noia” di cui afferma soffrire sin dai tempi dell’adolescenza.
A breve distanza dalla notizia della morte del pittore e vicino di studio Mauro Balestrieri, si presenta alla porta di Dino Cecilia, una ragazza tanto bella quanto inafferrabile, un tempo amante e modella del vecchio pittore. Tra i due sorge presto una relazione, ma come ogni aspetto nella vita di Dino, anche la bella Cecilia, istintiva e animalesca nel suo vivere nella mera ottica di soddisfare esigenze fisiche, gli viene rapidamente a noia. Una mattina Dino decide allora di darle appuntamento per porre fine alla relazione, ma Cecilia non si presenta, l’evento, l’impossibilità di possedere la ragazza, fa da miccia ad un’inarrestabile gelosia che travolge Dino.
Sempre più tormentato per la donna, Dino decide di pedinarla, venendo a conoscenza degli incontri della giovane con un altro uomo, l’avvenente attore Luciani. Nella speranza di placare la tormentata gelosia per Cecilia, Dino stabilisce al termine di ogni appuntamento di offrire denaro alla ragazza nella speranza che questa assuma ai suoi occhi i panni di una prostituta, indesiderabile e abbandonabile. Paradossale agli occhi di Dino, turbato e afflitto dall’incontrollabile gelosia, è il fatto che tanto più la giovane Cecilia mente e lo tradisce, tanto più lui se ne innamora.
Il pittore fa un ulteriore tentativo: forse, se si fosse sposato con Cecilia, la noia del matrimonio gli avrebbe portato tedio anche verso la giovane. Ma Cecilia ha bisogno di tempo per pensarci, e questo tempo viene trascorso a Ponza insieme a Luciani, in una vacanza pagata con il denaro di Dino.
Dino, consapevole di aver perso ormai ogni dignità e ragione, tenta il suicidio schiantandosi in auto contro un platano. L’esperienza ravvicinata della morte lo porta ad una svolta: non può cambiare la propria ossessione per Cecilia ma può solo accettarla, attendendone il ritorno per poterla incontrare ancora.

Uno squarcio sulla condizione borghese

Pubblicato nel 1960 presso Bompiani, La noia è certamente tra i romanzi più rappresentativi della poetica di Alberto Moravia, in continuità alla linea assunta già ne Gli indifferenti. A essere messo in scena è prima di tutto il problematico rapporto con la realtà della borghesia novecentesca, una borghesia in sfacelo, aggrappata a valori quali sesso e denaro.
Dino è un giovane pittore, tanto ricco quanto disincantato dal lusso. Ogni aspetto della sua esistenza gli dà noia, si aggrappa al sesso come entità su cui esercitare un possesso, ed è proprio questa concezione distorta che lo porta ad una svolta radicale nella propria vita. L’impossibilità di possedere Cecilia lo spinge a desiderare la noia, ma la noia è tanto inappagante quanto l’incapacità di lasciare davvero andare Cecilia, anzi: più cerca di liberarsene, più se ne innamora.

Filo conduttore dell’opera è quindi l’incomunicabilità, prima di tutto tra i due amanti: l’una del tutto aliena alla relazione, l’altro intenzionato a disinnamorarsi. Una storia d’amore che ruota non intorno all’affezione ma alla noia. Quello di noia è un concetto vago e indefinito, che ha bisogno di essere concretato in immagini: la tela bianca dell’artista annoiato dalla pittura, il disinteresse di una giovane a qualsiasi relazione che vada oltre una dimensione di fisicità, i vani tentativi di un uomo di porre fine ad un legame che tanto lo immerge nella vita quanto lo logora. La noia è inafferrabile, come Cecilia.

Il finale e il messaggio

Una possibile via di fuga, o forse alleviamento della propria condizione, si apre nel finale: accettare di convinvere con l’inafferrabile. L’epilogo di Moravia sembra quasi riportare alla mente quel pendolo che Schopenauer faceva oscillare tra dolore e noia, in una perenne condizione di instabilità fatta di rapidi barlumi di vitalità piena.

In questo senso Moravia descrive con abilità quel sentimento di male di vivere che domina la scena artistico-letteraria di tutto il Novecento europeo e che in un certo senso tocca ancora l’uomo contemporaneo. Andamento prosastico e apparentemente piatto delineano i contorni di una vicenda che scava nel profondo dell’animo umano per cogliere quello stato di incomunicabilità che permea l’uomo moderno circondato da una realtà piena di valori vuoti e di legami labili.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.