Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini, poetessa milanese scomparsa nel 2009, ha raccontato in versi l’amore carnale e l’amore per la poesia, sua compagna di vita. Ha testimoniato le sofferenze e il desiderio di libertà provate all’interno dei manicomi in cui è stata internata per diversi anni. 

Alda Merini nasceva il 21 marzo 1931 in una Milano che amava immensamente. Crebbe in una famiglia di umili condizioni e frequentò un istituto professionale. Cercò di trasferirsi al liceo Manzoni, ma non superò il test di italiano e si dedicò a studiare pianoforte. A quindici anni, però, emerse il suo talento e pubblicò due poesie all’interno di un’antologia. 

L’anno successivo, a soli sedici anni, comparvero i primi segni di una malattia che la perseguiterà per il resto della vita: il disturbo bipolare. Erano anni bui per le persone considerate pazze, internate nei manicomi senza alternative. La poetessa milanese non ricevette cure adeguate, ma solo numerose privazioni, subendo l’elettroshock. In quei luoghi dediti a torture ancora legali per diversi anni, Alda Merini riuscì a concepire poesie meravigliose, intense e forti, contrastando la bruttezza che la circondava. Da questa esperienza, infatti, nacque la raccolta La terra santa: un viaggio che attraversa i momenti vissuti all’interno del manicomio.
È stata marchiata dal fardello della follia, una compagna di vita scomoda e limitante, ma che le ha permesso di vedere il mondo da un altro punto di vista. Leggiamo un pezzo della lunga e struggente poesia Laggiù dove morivano i dannati: 

[…]
Laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia.
[…]

Il manicomio era il posto in cui non si poteva urlare il proprio dolore, dove non c’era posto per l’umanità e le urla venivano soffocate. È in quella mancanza che Alda Merini trovò Dio, lo vide in mezzo al nulla e lo sentì tra le pareti del silenzio. Credeva in Dio, pur non accettando che il sesso fosse trattato come un peccato. Ella amava l’amore sentimentale e il desiderio carnale, protagonisti di numerose poesie. Si innamorava continuamente, accettando anche la conseguente sofferenza. Visse relazioni difficili e conobbe uomini complicati, infedeli, che non le donavano tutto l’amore che lei dava loro. È in quell’amore, tra le braccia di un uomo, che riesce a stare bene. Ce lo racconta nella poesia C’è un posto nel mondo dove il cuore batte forte: 

C’è un posto nel mondo
dove il cuore batte forte,
dove rimani senza fiato,
per quanta emozione provi,
dove il tempo si ferma
e non hai più l’età;
quel posto è tra le tue braccia
in cui non invecchia il cuore,
mentre la mente non smette mai di sognare…
Da lì fuggir non potrò
poiché la fantasia d’incanto
risente il nostro calore e no…
non permetterò mai
ch’io possa rinunciar a chi
d’amor mi sa far volar.

Non può fuggire da quel posto, fonte di una felicità priva di eguali. Non può e non sa rinunciarvi perché anche se il tempo passa e si riversa sul corpo, lì il cuore non invecchia mai. Rimane vivo. 

Alda Merini era sposata con un panettiere, ma in seguito alla sua morte sposò il poeta Michele Pierri, che aveva apprezzato molto le sue poesie. Si trasferì per tre anni a Taranto e scrisse il suo primo libro in prosa: L’altra verità. Diario di una diversa. A Taranto, però, venne nuovamente internata e visse anni terribili, le impedirono anche di vedere le figlie. Soltanto dopo il 1978, anno in cui la Legge Basaglia chiuse i manicomi, Alda Merini poté ritrovare la serenità perduta.

Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
[…]
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.

Questa poesia, contenuta nella raccolta La terra santa, presenta un’antitesi tra la poesia, bella e delicata, e la pietra, dura e pesante. Alda Merini vuole dirci che non c’è bellezza senza sofferenza. Scrisse molte delle sue poesie in un manicomio, un luogo in cui ha subìto umiliazioni, ma quelle ginocchia piegate non le hanno impedito di inseguire la bellezza. È lì che cercò il mistero, trovandolo tra i versi di una poesia scritta col sangue. Tu, poeta, sei un pazzo criminale e detti versi all’umanità: consegni agli uomini i versi della rivincita, della speranza. Tu, poeta, sei fratello a Giona: sei come il profeta Giona, che trasgredì il dovere dettato da Dio, fuggendo e isolandosi da tutti gli altri. 

I poeti trovano sé stessi di notte, quando gli altri dormono e non hanno fretta di finire. Scrivono quando le piazze sono vuote e l’unico rumore che si ode è quello delle lancette: 

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
[…]

Alda Merini visse una vita difficile, violenta e accusata di essere folle. Non smise mai di cercare, creare e amare. Mise su carta le proprie emozioni, altalenanti e forti, consegnandoci fragilità, coraggio e speranza. È stata e continua a essere una delle poetesse più espressive e talentuose del Novecento, e non solo. Non è stata compresa per molto tempo, ma la penna le è rimasta fedele tra le dita. 

O poesia, non venirmi addosso
sei come una montagna pesante,
mi schiacci come un moscerino;
[…]

La poesia è violenta con lei, la teme, come alcuni uomini che ha conosciuto. Eppure, non può fare a meno di amarla e noi non possiamo non amare i suoi versi. 

Martina Macrì

Sono Martina, ho una laurea in Lettere e studio Semiotica a Bologna. La scrittura è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Scrivo affinché gli altri, o anche solo una persona, mi leggano e si riconoscano. Su IoVoceNarrante mi occupo principalmente di letteratura.  

“L’affaire Moro”: negli scritti di Sciascia la pena di un uomo disconosciuto dai suoi stessi “amici”

“L’affaire Moro”: negli scritti di Sciascia la pena di un uomo disconosciuto dai suoi stessi “amici”

Titolo : L’affaire Moro: negli scritti di Sciascia la pena di un uomo disconosciuto dai suoi stessi “amici”

Lo statista invia lettere in cui parla delle possibili conseguenze della sua condanna da parte dei brigatisti. Ma non può essere ascoltato…

Il 24 agosto 1978 Leonardo Sciascia firma “L’affaire Moro”, che solo quattro anni dopo verrà arricchito dalla “Relazione di minoranza della commissione parlamentare per il caso Moro”, di cui l’Onorevole Sciascia sarà relatore. Il saggio ripercorre le vicende che vanno dal 16 marzo 1978, giorno del rapimento del presidente della Democrazia cristiana e dell’eccidio della sua scorta, al 9 maggio seguente, giorno del ritrovamento della salma dell’uomo politico pugliese.

Lo scrittore di Racalmuto rilegge le lettere che Moro indirizza ai suoi compagni di partito; le filtra con il suo acume e la sua indefettibile perspicacia, restituendo una immagine impressionante e a tratti mostruosa, della tragica vicenda.

L’aspetto che per primo colpisce alla lettura della piccola opera dell’autore di “Todo modo” è l’analisi di fatti e scritti, compiuti sostanzialmente a caldo, operando necessaria e scrupolosa pulizia della coltre di influenze sparse a piene mani dalla retorica nazionale sullo Stato che “accetta la sfida” che “non si piega al ricatto” che ha unito in quei giorni le forze di quasi tutto l’arco costituzionale.

Una analisi che potrebbe sembrare scontata oggi, ma che allora fu uno sforzo controcorrente, sostrato appunto della relazione di “assoluta” minoranza in Commissione.

Quando viene prelevato dalle Brigate Rosse, Moro si sta recando in Parlamento per la presentazione del governo guidato da Giulio Andreotti, il primo con il sostegno esterno del PCI, soluzione per cui il presidente democristiano si era speso con tenacia. Una acrobazia politica che probabilmente allarma qualche alleato intransigente a occidente, ma indigna anche gli ambienti extraparlamentari di sinistra, quelli più movimentisti almeno.

Dalla prigione Moro scrive una prima lettera al ministro degli affari interni, Francesco Cossiga, dalla quale si ricava il consiglio di riflettere sul da farsi per trarlo dagli impacci, per evitare possibili conseguenze in un processo “con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni”. Quindi: “prendete tempo e trovatemi, prima che le cose vadano per il peggio, per tutti ma soprattutto per me”.

Moro rivolge poi a Benigno Zaccagnini, segretario della DC, un’altra missiva, ricordando al segretario del partito quanta parte avesse avuto nel convincerlo, lui riluttante, ad assumere la carica di presidente. E parla apertamente della perfetta liceità dello “scambio di prigionieri”, scelta che all’uomo politico rapito appare “non solo equa, ma anche politicamente utile”.

Il leader democristiano mette in guardia gli amici dalla “possibile spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo paese” che susseguirebbe al perseguimento della strategia della fermezza.

Le BR dal canto loro avanzano l’ipotesi di uno scambio di prigionieri come unica strada per evitare la condanna dell’uomo che hanno in custodia. La DC è “lacerata dal dubbio”.

Ma, nota Sciascia, più che dal dubbio, il partito è lacerato dalla “certezza di non dover fare nulla”. E mentre la famiglia dello statista (mai come in quei giorni gratificato di questo titolo) chiede che il partito dichiari la propria disponibilità a chiarire quali siano le condizioni reali per il rilascio del proprio presidente, il partito stesso si dichiara in blocco “legato indissolubilmente ai principi di democraticità”, che tradotto vuol dire: “non si tratta”.

E il monolite resisterà per tutto il periodo di cattività del leader cattolico, al punto che anche nell’appello della Santa Sede ai rapitori per la liberazione dell’ostaggio, Paolo VI chiederà di rilasciare Moro “senza nulla chiedere”, senza condizioni, quindi nella linea tracciata dal fronte dei partiti. L’appello rimarrà ovviamente ignorato.

Per primo “Il Popolo”, quotidiano del partito scudocrociato, ma poi tutti gli altri, si affretteranno a introdurre la seconda lettera come scritta da una persona “sottoposta a condizioni di coercizione”, e quindi moralmente non ascrivibile a detta persona. Ed è qui, nota Sciascia, che invece non si riesce proprio a capire come sia così strano che una persona in condizioni di grave e assoluto pericolo cerchi una strada per evitare la condanna a morte.

La retorica nazionale inonda il paese attraverso TV e giornali; alla moglie del politico rapito viene attribuita la frase: “in nessun caso mio marito deve essere barattato”. Ma la signora Eleonora si affretta a smentire tanto onore: non ha mai detto nulla di simile; e anzi. La frase non le può essere più attribuita, dal momento che l’ha smentita, ma si continua dicendo che comunque la donna “ne sarebbe ben degna”.

È sconveniente sapere che Moro abbia sempre pensato alla possibilità della trattativa, ma la soluzione c’è: i giornali, la televisione e la radio si stanno adoperando per certificare la metamorfosi dell’uomo prigioniero. Moro non è più lui.

Moro invece seguita a dire di “un’opportunità umana e politica”, e, per rafforzare la sua tesi, ricorda come sia sempre stato favorevole alla trattativa. Puntuali scattano i meccanismi di difesa del monolite DC: mentre l’Onorevole Gui conferma, l’Onorevole Taviani smentisce che mai Moro abbia espresso questa posizione.

La successiva lettera dal “carcere” è un piccolo grande esercizio di ironia in merito alla carriera di Taviani, alla sua capacità di zigzagare tra tutte le correnti democristiane e alla segreteria, con scarso successo. Ironia mista sicuramente ad avvilimento: da dove verrà, si chiede sicuramente Moro che ben conosce il suo partito, questo zelo “statolatrico”, come lo definisce Sciascia?

La DC fa quadrato, immobile e imbarazzata di fronte alle lettere, sicura di poter affrontare ogni tempesta chiudendosi a riccio. E Sciascia ricorda come nell’ultimo intervento in Parlamento, proprio Moro da presidente scudocrociato si fosse schierato in difesa dell’Onorevole Gui, accusato di essere beneficiario di un grave illecito, sostenendo pregiudizialmente l’innocenza del blocco dirigente del partito basato sulla grande forza dell’opinione pubblica che sceglieva la DC da trent’anni.

Non si può bollare con marchio di infamia tutta una esperienza politica. Insomma, il richiamo dell’immutato consenso elettorale come dimostrazione di un partito senza colpe, e quindi di un singolo senza colpe.

Dalla difesa in toto di una fase e di una esperienza politica rampolla quindi la morte civile dell’esponente che dalla prigione del popolo invoca un gesto umanitario. Di nuovo il Moro che scrive non è più in sé, e verso la fine di aprile dalla sede di Piazza del Gesù viene diramato un documento che Sciascia definisce “mostruoso” firmato da una cinquantina di amici che certificano che Il Moro che conoscono non è quello delle lettere.

E la vicenda corre ineluttabilmente verso la condanna e l’esecuzione, che Moro attribuisce apertamente ai suoi “amici” prima ancora che ai terroristi. La condanna alla solitudine, prima ancora che alla morte.

Lo scrittore siciliano dedica l’ultima nota alla telefonata del brigatista che informa Franco Tritto, assistente e amico della famiglia Moro su dove ritrovare il corpo dello statista DC. La telefonata dalla stazione Termini dura più di tre minuti, con l’assistente che chiede di ripetere, si commuove e piange, e chi telefona che non fa fretta all’interlocutore, nonostante i rischi che stava correndo.

E che pronuncia le parole “mi dispiace”. “Forse ancora oggi” – conclude Sciascia – “il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti”.

I promessi sposi: un romanzo di attuale umanità

I promessi sposi: un romanzo di attuale umanità

I promessi sposi: un romanzo di attuale umanità

I promessi sposi è il classico romanzo che molti studenti direbbero aver preferito non leggere, additato come noioso, vecchio e troppo lungo. Eppure nell’apparente inattualità dell’opera alcuni personaggi insegnano comportamenti che hanno tanto di attuale, molto più vicini al lettore contemporaneo di quanto la scuola insegni.

Una cappa di religiosità e bigottismo spesso imprigiona il romanzo de I promessi sposi, certo il più noto di Alessandro Manzoni, in un giudizio negativo e limitato. Alcuni si chiedono perché venga ancora letto a scuola, trovandolo troppo inattuale. Altri semplicemente lo considerano noioso e, gli studenti meno avveduti, spesso neppure lo leggono.
Eppure in un romanzo apparentemente così distante nel tempo, se si considera che fu scritto nella prima metà dell’Ottocento, c’è tanto di attuale. Ovviamente andrà messo in secondo piano il discorso più strettamente religioso, che certo poteva colpire un lettore ottocentesco nella messa sulla pagina della devozione dei protagonisti, ma non un adolescente del Ventunesimo secolo. Resta il fatto che alcuni personaggi del romanzo, in particolare Lucia, Innominato e Monaca di Monza, assumono nel corso della vicenda comportamenti che li rendono ritratti di un’umanità molto più moderna di quanto possa sembrare.

Si parta da Lucia, una figura mesta e devota, spesso le sventure in cui si imbatte la portano non distante dal cedere ai propositi. Eppure Lucia non cede, mai neppure una volta, incarna una fermezza di intenzioni e una fedeltà a Renzo e alla fede in Dio che sembrano simulacri di un’umanità perduta. L’irremovibilità di Lucia risiede nella sua devozione che la porta addirittura alla rinuncia più grande: Renzo, quando farà voto di castità pur di saperlo salvo.
Nella sua fermezza, nella sua capacità di affrontare le avversità, e nella sua disponibilità a perdonare l’Innominato nonostante le malefatte commesse, c’è un insegnamento che viene lasciato anche all’uomo contemporaneo: non demordere, non lasciarsi abbattere, non abbandonare il proposito nonostante le difficoltà ma trovare una ragione che dia la forza. Lucia trova questa forza in Dio, ogni persona può trovare un affetto, un obiettivo, un fine, che faccia da lume anche nei momenti più bui, che consenta di affrontarli e arrivare a un lieto fine. Sì, perché quello di Renzo e Lucia è un lieto fine. La stregua resistenza di Lucia consentirà ai due promessi di ricongiungersi, e la sua fermezza sarà premiata con lo scioglimento del voto di castità.

Lucia incarna al contempo la capacità di perdonare, e quale maggiore perdonato c’è nel romanzo se non l’Innominato. Criminale senza scrupoli, autore dei più efferati misfatti, alla vista di Lucia è capace di chiedere perdono, di ripensare alle proprie malefatte e provare pentimento, vergogna e desiderio di redimersi.
Pentimento e perdono vanno di pari passo e se sinceri costituiscono uno dei più grandi strumenti di cui l’uomo dispone per non farsi guerra, per non generare odio e conflitto ma concordia e fratellanza.
Il pentimento dell’Innominato sarà decisivo per portare a una svolta nella vicenda che sia risolutiva. L’Innominato ricorda al lettore che è lecito sbagliare, anche con dolo, ma che è anche possibile redimere i propri errori e fare del bene, partire dai mali commessi e volgerli a un fine benefico. La commozione che produce nel lettore la scena del pentimento del bravaccio, è carica di umanità, lascia trasparire tutto il turbamento interiore, i ritorni e ripensamenti, il terrore di una punizione, anche divina, ma al contempo la forza di riesaminarsi e chiedere scusa.

È proprio l’incapacità di chiedere perdono che fa di un altro personaggio, la monaca di Monza, forse la figura più umana della vicenda. Figlia di una nobile famiglia, ma in quanto donna destinata alla vita religiosa, Gertrude rappresenta la reazione più comprensibile di una figlia tradita dal padre. Portata in convento con la forza, allontanata dalla vita che avrebbe voluto, e potuto, condurre, per darsi ai voti e alla preghiera senza alcuna personale forma di sincera devozione.

Priva di malvagità nei confronti della famiglia e priva di ogni possibilità decisione, Gertrude reagisce alla vita religiosa cui viene costretta facendo l’opposto di ciò che si addirebbe a una monaca. intrattiene una relazione con il giovane Edigio, adottando atteggiamenti di vendetta e cattiveria con le proprie compagne e sfogando su Lucia una vendetta ingiustificata e frustrata.
In Gertrude si incarna il conflitto genitore-figlio che molti adolescenti affrontano e la ribellione che ne deriva. La monaca di Monza è una figura frustrata e inappagata dalla propria vita, come tale sfoga il proprio sadismo su chi si imbatte in lei: qui la povera Lucia. Ma nella monaca sta tutta l’umanità di una donna che se avesse potuto scegliere del proprio destino, se il padre le avesse saputo chiedere scusa per le imposizioni inflitte, sarebbe probabilmente rimasta la persona buona e altruista, disposta addirittura per affetto a sacrificare la propria felicità per il volere dei genitori. Tre personaggi, tre comportamenti più che attuali: fermezza, pentimento e frustrazione.

Nella narrazione de I promessi sposi non è messa sulla pagina solo la vicenda di un amore contrastato ma anche uno spaccato di passioni umane che hanno la medesima forza travolgente nell’uomo dell’oggi. Leggere I promessi sposi non è solo un noioso compito scolastico, ma un esercizio di messa a confronto con un’umanità lontana nel tempo ma vicina nelle affezioni che ha ancora tanto da dire a distanza di duecento anni.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Il (Quarto) potere di Mank, predecessore ed eredità di “Citizen Kane”

Il (Quarto) potere di Mank, predecessore ed eredità di “Citizen Kane”

Il (Quarto) potere di Mank, predecessore ed eredità di “Citizen Kane”

Quarto potere, il celeberrimo film che ha fatto da vero e proprio spartiacque nella storia della cinematografia statunitense, usciva nelle sale il 1 maggio di 82 anni fa. Da quel giorno, molte cose nel cinema sarebbero cambiate.
Nel 2020 è comparso sul catalogo Netflix Mank, film la cui storia è intimamente connessa a quella del capolavoro di Welles. Appena uscito, il pubblico gridava già all’Oscar, ma si è dimostrato davvero all’altezza delle aspettative?

Mank, ancor prima della sua uscita il 4 dicembre 2020 sulla piattaforma Netflix, aveva intorno a sé aspettative piuttosto alte: in primis per il cast stellare coinvolto, poi per la presenza di David Fincher alla regia, e infine per il collegamento con uno dei capisaldi della cinematografia statunitense e mondiale, ovvero Quarto potere.
Il film di Netflix è un dramma biografico dal look retrò che propone un viaggio dietro le quinte dell’industria cinematografica hollywoodiana durante gli anni della Grande depressione, gli stessi nel quali prese vita il capolavoro di Orson Welles. La pellicola originale è da sempre associata a quest’ultimo, quindi sembra lecito chiedersi: chi è Mank?

L’antefatto: chiariamo alcune cose

Lo sfondo della vicenda è piuttosto complesso perché frutto della stratificazione tra diversi piani di realtà. É necessario quindi fare un po’ di chiarezza: Herman J. Mankiewicz è lo sceneggiatore che scrisse Citizen Kane (Quarto potere in italiano). Orson Welles è il poliedrico genio ventiquattrenne che produsse, co-scrisse e diresse il film; non contento, interpretò anche la parte del protagonista della pellicola, il magnate dell’industria della stampa Charles Foster Kane.
La parabola biografica del personaggio di finzione si ispira liberamente alla vita di un altro uomo (realmente esistito), William Randolph Hearst. Quest’ultimo è stato un grande editore e imprenditore, che fu a capo di un impero mediatico senza precedenti in grado di influenzare enormemente i giornali e l’opinione pubblica.
I punti di contatto tra la storia personale di Hearst e Kane sono molteplici, tanto che il magnate americano cercò in tutti i modi di boicottare il film. Il suo intervento servì solo a limitarne la circolazione e a penalizzare la pellicola agli Oscar del 1942, dove vinse soltanto il premio per la miglior sceneggiatura originale. La stessa su cui si scatenò, appunto, la lotta tra Welles e il collega Mank.

La trama: dalla persona al contesto, e viceversa

La pellicola di Fincher è un viaggio tra i retroscena della Hollywood degli anni Trenta, del processo di scrittura di uno dei film più memorabili di sempre, e dell’ancestrale binomio tra una mente geniale e le sue dipendenze (alcol, gioco d’azzardo).
Mank (Gary Oldman) si trova costretto a letto dopo che, a causa di un’incidente d’auto, si è infortunato a una gamba. In un’isolata casa di campagna, lo sceneggiatore viene aiutato dalla stenografa (Lily Collins) a portare a termine il compito che gli è stato affidato: concludere in pochissimo tempo la stesura della sceneggiatura per il film di Orson Welles (Tom Burke).
Da questo frammento temporale si diramano continui flashback che mostrano il protagonista muoversi nella difficile scena hollywoodiana di quegli anni, caratterizzata dalla diffusa povertà della gente, la minaccia di Hitler oltreoceano, e il continuo scontro con i socialisti. La vicenda è impreziosita da teatrini elettorali, dall’uso arbitrario e spregiudicato dei media al servizio della politica e dalla strumentalizzazione consapevole delle fake news.
Lo spettatore viene proiettato al fianco di Mank nelle sue vorticose relazioni sociali, con il milionario William Randolph Hearst (Charles Dance), il direttore dello studio cinematografico Louis B. Mayer (Arliss Howard), l’amante ufficiale di Hearst e starlet Marion Davies (Amanda Seyfried), fino alla moglie, la “povera” Sara (Tuppence Middleton).

Tiriamo le fila

La regia di Fincher è di certo impeccabile (da notare anche l’uso sapiente delle luci del direttore della fotografia Erik Messerschmidt, che si rende indispensabile con il bianco e nero); non si può ovviamente dire rivoluzionaria come per quella di Quarto potere, ma è un riuscito omaggio allo stile del passato. Degna di nota anche la manipolazione del sonoro, distorto appositamente per renderlo simile a un autentico film d’epoca.
Nel lungometraggio recita un cast di tutto rispetto, impreziosito da attori del calibro di Amanda Seyfried, Lily Collins e Charles Dance. Un posto d’onore spetta senza dubbio a Gary Oldman che, con questa interpretazione nella parte del protagonista, ha sfiorato il suo secondo Premio Oscar come miglior attore. Menzione speciale anche alla Seyfied, che ha dato prova di una notevole maturazione artistica con la sua brillante prova. Non per niente, anche lei ha ricevuto una nomination come migliore attrice non protagonista.
La scrittura del film è (volutamente) intricata, stratificata, complessa, resa ancor più opulenta da una serie di rifermenti non solo storici e politici, ma anche letterari: geniale l’analogia tra Don Chisciotte-il futuro personaggio di Kane-Hearst. A complicare il tutto, la pellicola gioca con piani temporali non sequenziali. Una trovata ingegnosa (e metanarrativa) è quella di simulare la scrittura di un copione per segnalare le transizioni tra i vari flashback.
È divertente l’intrinseca sottile ironia che fa Houseman quando inizialmente critica la sceneggiatura scritta da Mank perché troppo complicata – dal momento che mescola piani temporali e punti di vista diversi, cosa che sarà una delle rivoluzioni segnate da Quarto potere –, e la sceneggiatura del film Mank: anche qui i piani temporali sono sfalsati, ma il punto di vista è unico, a rimarcare l’assoluta centralità della quale gode, finalmente, lo sceneggiatore. Orson Welles, nel lungometraggio, si vede solo di striscio, il rapporto si sviluppa quasi esclusivamente a distanza. Non c’è spazio per lui, questo è il film di Mank.


Perché il grande pubblico non conosceva Mank? Una damnatio memoriae? Il genio creativo di Welles troppo ingombrante? Forse entrambe le cose, o nessuna delle due. Come per il suo personaggio Kane, la figura di Mank rimane un puzzle complesso e intricato, una matassa imbevuta di alcol e parole che però, finalmente, riceve l’attenzione che merita.
Una piccola curiosità: la sceneggiatura del film Mank è stata scritta dal padre di Fincher, Jack, nei primi anni Novanta.

Un film per chi?

É sicuramente un film per appassionati, lo è abbastanza per i temerari fiduciosi, decisamente poco per chi vuole vedere un film senza pretese con il quale intrattenersi per qualche ora.
In definitiva, chi non ha mai visto Quarto potere può vedere Mank sperando di capirci qualcosa? Sì, è difficile ma non impossibile, contando il fatto che anche chi ha visto il lungometraggio di Welles (ma non è esperto della scena Hollywoodiana degli anni Trenta) riesce con una certa fatica a cogliere i numerosissimi riferimenti contenuti. Bisogna investirci una buona dose di concentrazione, seguirlo in religioso silenzio per non rischiare di perdersi mezza battuta, ma è un film che ripaga.
Chi non conosce il sottofondo della vicenda può comunque godersi la storia di un arguto, tagliente, ironico sceneggiatore alla deriva, ma la visione sarà impoverita dall’impossibilità di riconoscere le allusioni che, alla fine, costituiscono l’anima del film: il tributo lucido, non patinato, di Fincher al cinema del passato.
Ciò nonostante, una persona può comunque emozionarsi davanti a un’opera di Van Gogh o di Picasso senza necessariamente sapere chi sia l’artista né che tecnica abbia utilizzato. Questo è il bello dell’arte fatta bene.

Il film ha ricevuto ben dieci nomination agli Oscar del 2021. Ha portato a casa solo l’Oscar per migliore fotografia (a Erik Messerschmidt), e migliore scenografia (a Donald Graham Burt e Jan Pascale).

Per chi gradisce un assaggio della sceneggiatura originale, clicca qui.


PRO
– un intenso e travolgente Gary Oldman
– Mank, un personaggio a dir poco magnetico
– David Fincher si riconferma grande regista

CONTRO
– storia piuttosto complicata e intricata
– bisogna sforzarsi di star dietro a un ritmo incalzante
– la visione richiede una certa concentrazione

Un altro film contemporaneo di Netflix in bianco e nero con Zendaya? Sì, esiste, clicca qui per scoprirlo.

 

Il campionato internazionale di Carpe Koi in scena a Cremona a maggio

Il campionato internazionale di Carpe Koi in scena a Cremona a maggio

Il campionato internzaionale di Carpe Koi in scena a Cremona a maggio

Dopo il successo della scorsa edizione torna a CremonaFiere l’unico campionato internazionale di carpe giapponesi in programma il 20 e 21 maggio 2023.

Dopo il successo della scorsa edizione torna a CremonaFiere l’unico campionato internazionale di carpe giapponesi in programma il 20 e 21 maggio 2023.

Italian Koi Expo si svolgerà in contemporanea con Japan Show, l’esclusivo salone che offrirà al pubblico la possibilità di immergersi a 360° nella cultura giapponese: dal food al design, dall’artigianato alla cosmesi, passando per letteratura, studio della lingua, sport e intrattenimento.

Un’esposizione dedicata al mondo delle carpe giapponesi che vedrà la partecipazione di giudici internazionali ZNA per la premiazione e che in soli 10 giorni ha esaurito i posti a disposizione con 33 vasche già sold out con oltre 150 esemplari provenienti da tutto il territorio nazionale.

Italian Koi Expo nasce dalla sinergia tra CremonaFiere e IKA (Italian Koi Association), dopo il successo della prima edizione che ha visto carpe provenienti da Italia ed Europa ad oggi è già stato raggiunto il numero massimo di iscrizioni che denota il forte interesse per questa speciale competizione oltre che per l’intera cultura giapponese.

Al concorso parteciperanno 16 varietà di carpe: Kohaku, Sanke, Showa, Bekko, Utsuri, Asagi, Sushui, Koromo, Goshiki, Kawarigoi, Hikarimuji, Hikarimoyo, Hikari-Utsuri, Tancho, Ginrin, Doitsu. A valutarle saranno giudici ZNA di fama internazionale: Ronald Stam (Olanda), Ruud Besems (Olanda), Rudi Van Den Broeck (Belgio) e Niko Bellens (Belgio).

Le premiazioni si svolgeranno Domenica 21 Maggio 2023 e, a seguito del verdetto stabilito dai giudici internazionali ZNA, verrà assegnato il premio di categoria e misura per la prima e seconda classificata di ognuna delle sette classi di lunghezza e delle sedici categorie ammesse, premi speciali “Best in Variety” assegnati alla koi più bella di ogni varietà e premi Champion: Baby, Young, Adult, Mature, Supreme, Grand e Jumbo Champion. Infine, IKA assegnerà il proprio premio a sorpresa. Main sponsor del Koi Show 2023 si riconferma Mountain Tree, azienda leader a livello mondiale nella produzione e fornitura di materiale filtrante ed accessori da laghetto.

A Italian Koi Expo, inoltre, non mancheranno presentazioni e convegni a cura di professionisti del mondo koi quali veterinari ed esperti del settore, blogger internazionali di Koi Question, come Tiebo Jacobs, e youtuber di caratura mondiale come Yvo De Wal. 

“Dopo l’esperienza dello scorso anno, e visto il grande successo ed interesse del Japan Show, siamo felici di tornare con questo appuntamento dedicato alla cultura giapponese ed in particolare con l’evento internazionale unico in Italia dell’Italian Koi Expo. – dichiara Roberto Biloni, Presidente di CremonaFiere – Il mondo fieristico ha sempre bisogno di innovazione e grazie alle collaborazioni nascono proposte sempre più attrattive.”

La nascita di Japan Show, che ha visto in concomitanza il primo svolgimento di Italian KOI EXPO, la più grande ed importante esposizione d’Italia di carpe koi giapponesi, è stata per noi di Italian Koi Association motivo d’orgoglio e di grande soddisfazione. – asserisce il presidente Sebastiano Adami Il target del 2023 sarà quello di incrementare il livello qualitativo delle koi in gara e di arricchire l’aspetto estetico del campo gara, con elementi che possano maggiormente ricondurre lo spazio in questione al mondo e alla cultura giapponese.”   

Maggiori informazioni: www.japanshow.it

“Trend” Meme: un 2022 da Giggino a Manzoni

“Trend” Meme: un 2022 da Giggino a Manzoni

“Trend” Meme: un 2022 da Giggino a Manzoni

Da Giggino Di Maio a Will Smith fino agli ultimi miti nostrani. Ecco i meme più visti del 2022…

Se i Semisonic cantavano “Closing Time”, noi lo riadattiamo in “Boomer Time”. Un momento per noi boomer, per noi generazione di millennials amante del vintage, del retrò, di quei meme che fanno molto 2015.

Già, i meme. Una comicità che è passata dall’essere innovativa all’essere tradizionale in pochissimi anni. Ma bando alle ciance e veniamo subito al core di questo articolo: i personaggi più “memati” del 2022.

Il re incontrastato è lui, Gigino Di Maio, l’ex leader del Movimento 5 Stelle, ex vice premier, ex vicepresidente della camera, ex ministro degli esteri, ex ministro dello sviluppo economico, ex…sì, insomma, gli mancava solo “ex…on the beach” e aveva fatto l’en plein.
Il suo “Meme awards” di fine 2022, il premio assegnato da Off topic, hub culturale torinese che gestisce i Meme Awards, è salito agli onori della cronaca, ma quali sono – oltre al buon Giggino – gli altri personaggi che hanno ricevuto la maggior dose di meme nel 2022?

WILL SMITH
L’Italia ha Di Maio, il mondo ha Will Smith. Certo, metterli sullo stesso piano è complicato, uno è un uomo che ha fatto ridere intere generazioni con la sua pettinatura caratteristica, la sua carnagione scura, le sue espressioni comiche, mentre l’altro è un grande attore americano, ma in questo contesto non sono mai stati così vicini.
Dalla notte degli Oscar Will Smith ha ottenuto una popolarità globale (non che prima fosse uno sconosciuto). Certo, non è detto che nel suo caso il “basta che se ne parli” sia positivo, ma nel frattempo lo schiaffo a Chris Rock è diventato un trend topic della risata mondiale…

ELON MUSK
Twitter è dalla sua fondazione il luogo ideale per la diffusione dei meme, ha ben spiegato Wired. “Qualcuno temeva che l’arrivo di Elon Musk avrebbe intaccato lo spirito ironico del social network. Invece, da utenti esperti abituati a scherzare su tutto, gli iscritti hanno scelto di rendere un meme il nuovo proprietario, che di certo non ha timore di essere deriso. Forse una battuta su Musk vi costerà l’account su Twitter, ma d’altronde prendere in giro chi ha ruoli di potere è un passatempo che va di moda da secoli”.

ORIETTA BERTI
E veniamo ai miti “nostrani”. Sanremo è da anni una fucina di idee per i mematori italici, tra personaggi improbabili, Bugo, Morgan, flessioni a torso nudo, boomerate di Fiorello (ti vogliamo bene Fiore <3), ma il ritorno a sulla cresta dell’onda di Orietta con il suo stile “nonna de tutti” mixato con la Sirenetta (in attesa delle polemiche per la “color correction” nel live action Disney in uscita nel 2023) non è passato inosservato. Anzi, non è passato “inmemato”.

IVANO MANZONI
Dopo la sua esplosione, Alessandro è sceso al secondo posto della classifica dei Manzoni più famosi d’Italia. Un’espressione genuinamente “sbalordita” per i testi del rap di oggi, un giubottino giallo fluo e…sei in pole position.

ROBERTO DA GENOVA
Non è il nome di un santo e neppure di un televenditore d’assalto, ma l’ultimo Vip del web. Il cognome non ci è ancora noto, ma la sua intervista è diventata virale. E il resto…beh, il resto è storia.  

Francesco Inverso

Quando scrissi la prima volta un box autore avevo 24 anni, nessuno sapeva che cosa volesse dire congiunto, Jon Snow era ancora un bastardo, Daenerys un bel personaggio, Antonio Cassano un fuoriclasse e Valentino Rossi un idolo. Svariati errori dopo mi trovo a 3* anni, con qualche ruga in più, qualche energia in meno, una passione per le birre artigianali in più e una libreria colma di libri letti e work in progress.
Sbagliando si impara…a sbagliare meglio.