Innovazione e tradizione: i dolci di Natale dei World Chocolate Masters

Innovazione e tradizione: i dolci di Natale dei World Chocolate Masters

Innovazione e tradizione: i dolci di Natale dei World Chocolate Masters

In vista della sfida finale del World Chocolate Masters il 2 febbraio 2022, i giovani pasticceri italiani in gara presentano i loro dolci di Natale

Ogni anno le maggiori testate della Penisola si interrogano su quali siano i migliori panettoni dell’anno e stilano una classifica per guidare i consumatori nell’acquisto del dolce più congeniale ai loro gusti. Perché, a prescindere dalle varie forme sotto cui si può manifestare lo spirito natalizio –regali, amici, famiglia, tradizione –, c’è un solo modo che mette d’accordo tutti: i dolci.

La preparazione dei grandi lievitati durante il periodo natalizio ha una fortissima valenza simbolica e culturale, un momento di condivisione e appartenenza a una determinata tradizione. Panettone, pandoro, ma soprattutto torrone e cioccolato, una delle massime espressioni di amore (e di golosità): è sul cioccolato infatti che vertono i dolci natalizi presentati dai finalisti italiani del World Chocolate Masters, con i quali hanno deciso di raccontare il loro Natale.

Si parte dalla tradizione: il sorrentino Antonino Maresca ha scelto di reinterpretare il panettone, un classico simbolo natalizio ma nella sua versione “Azteca”, che prevede l’unione di tre cioccolati che hanno come comune denominatore la pianta del cacao, le cui origini si rifanno ad alcune leggende delle popolazioni precolombiane da cui prende il nome.

Il Panettone “Azteca” di Antonino Maresca

Similmente, il pasticcere lombardo Stefano Bernardi ha presentato il suo Panettone al Cioccolato Fondente. Una ricetta classica sì, ma sempre golosa e mai banale.

Il Panettone al Cioccolato Fondente di Stefano Bernardi

Non solo panettone però, perché il veneto Attilio Rebeccani dipinge il suo Natale attraverso il Tronchetto Santa Claus, realizzato con una mousse al cioccolato al latte. Il tronchetto, come si evince dal nome, ha la forma di un Babbo Natale e viene sistemato sopra alcune decorazioni natalizie per completare il quadro.

Il tronchetto Santa Claus di Attilio Rebeccani

L’amore che il Natale porta con sé è rappresentato dal campione italiano di pasticceria e gelateria Diego Mascia, di origini piemontesi, attraverso la sua “Torta Amore” a base di cioccolato fondente e lime arricchita con una gelatina ai frutti di bosco assemblata su vari livelli.

La Torta Amore di Diego Mascia

Filippo Valsecchi, il lombardo vincitore di numerose competizioni a livello globale, sceglie un dolce più piccolo, ma indimenticabile per la riuscita di u buon pranzo di Natale: la sua Pralina XMas. Si tratta di un bon bon che sintetizza tutti i profumi e i sapori associati al Natale, carica di vaniglia e zenzero per scaldare gli animi – e i cuori.

La Pralina XMas di Filippo Valsecchi

Lo chef argentino naturalizzato italiano Matiaz Ortiz realizza con la sua La Foyer Christmas Cake una perfetta ricostruzione di un albero di Natale addobbato e composto interamente da un mix di cioccolato fondente e cioccolato al latte.

Ultima, ma non per importanza, la pasticcera bresciana Anna Gerasi ha deciso di rappresentare lo spirito delle feste con una Torta al Cioccolato innovativa, che unisce una mousse equatoriale alla crema inglese e un fondo croccante di nocciola.

 

La tradizione, dunque, ancora una volta si scontra con l’innovazione, con una ricerca creativa precisa al grammo. E ancora l’innovazione sarà al centro della sfida che il 2 febbraio 2022 vedrà questi giovani pasticceri concorrere a Pollenzo per la finale italiana del World Chocolate Masters. Il tema della competizione sarà il “Domani” e tutti i cambiamenti che comporta.

La missione alla base di questo progetto è stimolare gli chef ad avvicinarsi alla scienza, alla tecnologia e al design, raccontando la pasticceria in una chiave nuova, sulla base di una costante innovazione e ricerca.

Il pandoro: storia di un brevetto, di fallimento e di rinascita

Il pandoro: storia di un brevetto, di fallimento e di rinascita

Il pandoro: storia di un brevetto, di fallimento e di rinascita

La certezza è una sola: il pandoro è nato a Verona. Eppure ci sono moltissime leggende riguardo la preparazione dolciaria che avrebbe ispirato Domenico Melegatti, colui che nel 1894 depositò il brevetto.

Alcuni sostengono che il dolce derivi dall’antico Pan di Vienna, una ricetta austriaca dei tempi dell’Impero Asburgico a sua volta ispirata alle brioche francesi. Ma le caratteristiche che accomunano il pandoro alla brioche francese hanno origini ancora più lontane: nei suoi scritti, Plinio il Vecchio cita un panettiere di nome Vergilius Stefanus Senex e il suo panis con farina, burro e olio.

Un’altra versione della storia sostiene invece che il pandoro sia un lontano parente del Pan de Oro, un dolce veneziano ricoperto da sottili foglie d’oro zecchino servito sulle tavole dell’alta nobiltà. Più probabile è, per somiglianza nell’aspetto e nel sapore, che il pandoro derivi dal Nadalin veronese, un dolce costituito da un tronco a stella con otto punte, non troppo alto e ricoperto da una leggera glassa che le famiglie prepararono per la prima volta nel 1260, per festeggiare il primo Natale sotto la signoria dei Della Scala.

Il pandoro moderno, come racconta la stessa famiglia Melegatti, nasce ufficialmente il 14 ottobre 1894, quando il celebre pasticcere veronese Domenico Melegatti ottiene il brevetto per la sua nuova creazione. Secondo la leggenda che aleggia intorno a questo dato storico, un garzone di bottega, addentando quel dolce morbido e burroso illuminato da un raggio di sole, avrebbe esclamato: “L’è proprio un pan de oro!”. E il nome per il dolce di Natale era stato scelto.

Il brevetto del pandoro Melegatti

Domenico Melegatti era un pasticcere molto noto a Verona, soprattutto per le sue sperimentazioni in cucina. Un’antica tradizione prevedeva che le donne veronesi si riunissero, la notte della Vigilia, per impastare il levà, un dolce fatto con farina, latte e lievito. Proprio dall’idea di trasformare quel dolce casereccio in qualcosa di godurioso, arricchendolo di uova e burro, nasce il pandoro.

All’inizio del Novecento, i medici consigliavano il pandoro ai convalescenti e alle donne in dolce attesa, ma negli anni Cinquanta diventa un dolce di ampio consumo e Melegatti inaugura il primo stabilimento industriale. Negli anni Settanta il dolce entra nei supermercati, e così inizia l’ascesa di un dolce che diventerà un vero e proprio must have sulle tavole natalizie.

Ma il periodo felice del pandoro Melegatti non era destinato a durare in eterno, e nel giro di una trentina d’anni l’azienda entra in crisi. Si fa risalire l’inizio di questo periodo nero al 2005, quando morì Salvatore Ronca, presidente molto amato dalla società. In realtà il business dei dolci natalizi, essendo richiesti solamente per un determinato periodo dell’anno, era in crisi già da tempo, e i vari competitor dell’azienda veronese si erano già attrezzati per restare attivi sul mercato tutto l’anno, grazie alla produzione di prodotti come brioche e biscotti. Melegatti è rimasta indietro, inaugurando il suo nuovo impianto per i croissant solo nel 2017. Proprio nell’agosto dello stesso anno la situazione precipita: la produzione si ferma, gli stipendi restano non pagati e i sindacati dichiarano lo stato di crisi. I dipendenti finiscono in cassa integrazione a zero ore e il debito sfiora i 30 milioni di euro. E si parla di fallimento.

Nel Natale del 2018, Melegatti torna a sorridere. Come una fenice, l’azienda dolciaria rinasce dalle proprie ceneri e torna a sfornare i suoi mitici pandori. I primi dolci di questa “seconda vita” sono stati prodotti da terzisti in altri stabilimenti, ma la nuova proprietà è riuscita a riportare i suoi pandori in alcune catene della grande distribuzione, dove fedeli compratori provenienti da tutto il Veneto si sono lanciati nell’acquisto.

Se Melegatti è sopravvissuta, il merito va a due personaggi conosciuti ora come gli “angeli del lievito”, Matteo Peraro e Davide Stoppazzoni, due dipendenti che anche durante la chiusura dello stabilimento, senza percepire stipendio o rimborsi, hanno continuato a nutrire il lievito madre. E si sa, in questo periodo in cui la panificazione è diventata di casa grazie alla quarantena e alla corsa al lievito, che il lievito madre deve essere coltivato quotidianamente e rinfrescato periodicamente. Neanche fosse un figlio.

Sono passati molti anni ormai da quel lontano 1894, quando Domenico Melegatti ha realizzato il sogno di ogni bambino proponendo un’alternativa delicata ma altrettanto golosa al sapore più impegnativo del panettone, che già da decenni troneggiava sulle tavole natalizie meneghine. E oggi, la domanda rimane una soltanto: panettone o pandoro?

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

Perché i bocconi di sushi sono così piccoli secondo Ruth Benedict

Perché i bocconi di sushi sono così piccoli secondo Ruth Benedict

Perché i bocconi di sushi sono così piccoli secondo Ruth Benedict 

La risposta al perché i pezzi di sushi sono così piccoli ci arriva direttamente dall’antropologia applicata, nell’immediato secondo dopoguerra. E a parlarne è una donna, Ruth Benedict.

Cibo, sesso e piaceri fisici: no, non sono alcuni dei sette vizi capitali, ma tre ambiti in cui la cultura giapponese ha avuto una diretta influenza, connotando fortemente il modo in cui gli appartenenti a questa società fruiscono di questi elementi. La “società della vergogna” è analizzata e raccontata dall’antropologa e poetessa statunitense Ruth Benedict che, nel 1946, pubblica l’opera Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese.

La spada: il “casus libri”

Il crisantemo e la spada è il miglior esempio di antropologia applicata – branca degli studi sull’uomo che si occupa di applicare i principi della disciplina all’economia, alla politica, alla società, ecc. – della prima metà del Novecento perché non si tratta di una ricerca organizzata autonomamente dalla Benedict, ma di un testo commissionato dagli Stati Uniti d’America in pieno clima bellico. Il governo americano si è reso conto di avere un nemico diametralmente opposto a sé e non riesce a prevederne i movimenti in guerra perché non ha gli strumenti per farlo. Viene così interpellata Ruth Benedict, fra le principali esponenti della scuola antropologica americana dell’epoca, affinché possa studiare la società giapponese e crearne un vantaggio per l’esercito americano.

Il conflitto in corso e la forte opposizione fra Stati Uniti e Giappone impedisce all’antropologa di recarsi in Giappone, dunque Benedict decide di intervistare i giapponesi che si sono formati e hanno studiato in patria e solo successivamente si sono trasferiti in America. Un proposito che sembra essere ben organizzato e conseguibile, ma che presenta per la studiosa non poche difficoltà.

Ruth Benedict è americana e il momento storico non le rende semplice osservare il suo oggetto di studio. Non può attraversare il globo, non può vivere la cultura nipponica sulla sua pelle: è quasi impossibile scrivere un’etnografia sul proprio nemico durante la guerra, mentre si combatte contro di lui. La convinzione degli americani, in questo momento storico, è quella di essere superiori a tutto e tutti sia a livello di armamenti, che di ideologie. Una posizione scomoda da cui intraprendere lo studio di una civiltà, per cui è difficile per Benedict, da americana, non inciampare nell’errore di sentirsi superiore rispetto al nemico.

Il dilemma della virtù e la società della vergogna

Il tema chiave del testo è il concetto di guerra per il Giappone, come i suoi abitanti interpretano e vivono il conflitto in corso. A metà del testo, però, si indaga un elemento cardine della cultura nipponica, il dilemma della virtù. Secondo la popolazione giapponese, gli uomini e le donne tendono per loro natura al bene e per questo agiscono nel bene. Ciò significa agire secondo un giudizio settoriale del comportamento, l’on: on è un obbligo che le persone portano addosso in quanto tali, per il solo fatto di esistere e di calpestare il suolo. È un desiderio di riconoscenza, un obbligo di mostrarsi capaci di comprendere che la propria esistenza non è data per scontata, ma abbia vere e proprie necessità di essere riconosciuta. On è un concetto ampio composto da diverse sfaccettature: chu è l’on verso l’imperatore, ko è la riconoscenza verso i propri genitori, jin significa letteralmente “essere riconoscenti e misericordiosi” verso il prossimo… ma è giri l’aspetto dell’on più rilevante per i giapponesi. Giri è riconoscenza nei confronti del proprio nome o del proprio mondo. Per i giapponesi, quando qualcuno non si comporta bene è perché tutte queste sfere collidono fra loro e l’individuo si trova a dover scegliere a quale sfera essere più fedele.

Rappresentazione grafica dell’on

E se non si riesce a “eliminare la ruggine” dalla propria esistenza? A comportarsi bene?
L’insuccesso rappresenta una vergogna per i giapponesi, e la vergogna è qualcosa di connaturato a questa cultura. Non a caso, Benedict definisce la società giapponese la “società della vergogna”. Quando i giapponesi combattono si sentono gli occhi del mondo addosso e per questo non possono permettersi di fare una brutta figura. Ogni individuo vive stando attento al giudizio degli altri. I giapponesi sanno di essere inferiori agli americani per quantità e qualità dei loro armamentari, ma affrontano il secondo conflitto mondiale convinti di vincere non perché sono migliori a combattere: vinceranno perché la loro anima è più pura.

In quest’ottica, persino il suicidio e la morte vengono rivalutati. La morte non è interpretata come una fine, il cessare dell’esistenza, ma come un momento di passaggio, un’espiazione delle colpe. Il suicidio, infatti, è solo un modo per pulirsi dall’onta di non essere stati all’altezza del proprio giri: la vergogna, per i giapponesi, è insostenibile, e l’unico modo per liberarsene è morire con lei.

Altro elemento fondamentale della cultura giapponese è la gerarchia. In Giappone c’è una strettissima gerarchia sia a livello statuale che relazionale e una forte fiducia in questa organizzazione. L’esistenza di una gerarchia permette di gestire al meglio sia i contesti più ristretti, come la famiglia o le relazioni interpersonali, che quelli più ampi, come un intero Stato. Nella famiglia giapponese, ad esempio, la donna è sottomessa all’uomo, ma lo è consapevole del fatto che questo ruolo è funzionale alla gestione della famiglia e al giusto scorrimento dei ruoli familiari. Allo stesso modo, un fratello maggiore non è e non può comportarsi come un fratello minore. Occorre, nella trattazione di un tema così delicato come quello delle questioni di genere, ricordare il periodo storico in cui sono state fatte queste analisi e questo testo è stato concepito, ovvero il 1946. Millenovecentoquarantasei. Un momento storico e politico lontano anni luce da noi, ormai.

Il piacere

Tutta questa moralità dovrebbe, a questo punto, essere applicata coerentemente al piacere, un atto fine a se stesso. L’approccio giapponese nei confronti del piacere è lo stesso che sono tenuti ad avere nei confronti dell’arte, si può apprendere un modo di provare piacere. Ma, non per questo, il piacere è culturalmente accettato. I giapponesi riescono a godersi a fondo un piacere, ma sono poi costretti a espiarlo. Per esempio, quando qualcuno si immerge nelle tipiche fonti termali giapponesi e si gode un lungo bagno caldo, come se ci fosse una legge del contrappasso la mattina dopo dovrà farsi una doccia ghiacciata.

Lo stesso vale per i due piaceri per eccellenza, il sesso e il cibo, che devono essere vissuti come esperienze sì fini a se stesse, ma alla luce del sole. Il piacere sessuale è qualcosa che va coltivato, che sia coniugale o extraconiugale. Per questo, le mogli e i mariti sono sempre consapevoli quando il coniuge sta avendo una relazione al di fuori del matrimonio: è, anche questa, una questione di onore.

E il cibo?
Vi siete mai chiesti perché i bocconi di sushi siano così piccoli? Perché tutte le pietanze giapponesi siano preparate di modo da essere formate da pezzettini che possano essere portati alla bocca senza bisogno di essere prima tagliati? Perché sulle tavole giapponesi non troviamo coltelli o nulla per tagliare, ma solo le bacchette?
Perché ogni singolo boccone che portiamo alla bocca deve essere fine a se stesso, rotondo, pieno. Un’esperienza autoconclusa: più piccola è la porzione di cibo, più ci si può dedicare completamente al momento in cui questo viene masticato, assaporato e ingoiato. Perché questo momento possa essere dilatato e chi decide di mangiare un pezzo di sushi (o di qualsiasi altro alimento) possa concentrarsi solo su quello mentre lo sta facendo. Un modo diverso, ma forse più sano e rispettoso, di concepire il cibo. I giapponesi non vedono il nutrirsi come un modo per riempire lo stomaco, ma come un vero e proprio atto esperienziale. E su questo abbiamo molto da imparare.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
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Market Routes: l’idea di due appassionate di vintage e mercati

Market Routes: l’idea di due appassionate di vintage e mercati

Market Routes: l’idea di due appassionate di vintage e mercati

Il 27 novembre a Milano è previsto il prossimo Market Routes, il tour dei mercati meneghini proposto e organizzato da due appassionate di vintage

Market Routes, il progetto di Maura Lauria e Katia Meneghini, è un percorso guidato che invita a riscoprire i mercati rionali di Milano. Le due appassionate di moda vintage, seconda mano ed esploratrici di mercati urbani hanno un unico, nobile intento: condividere una passione per far riscoprire l’autenticità di questi luoghi e sensibilizzare le persone verso acquisti più consapevoli e mirati. Per questo, oltre ad accompagnare piccoli gruppi di interessati a fare shopping, grazie al progetto Market Routes sarà possibile ricevere una consulenza specializzata su come districarsi nel ondo degli espositori, come riconoscere i pezzi di abbigliamento e gli oggetti giusti e le caratteristiche dei materiali, oltre a consigli su come acquistare i capi senza doverli necessariamente provare.

Il tour si svolge nell’arco di una giornata: dopo una presentazione davanti a un caffè per conoscersi e capire le esigenze dei partecipanti, vengono dati alcuni consigli su come muoversi nel mercato, come cercare i capi e come riconoscere tessuti e forme.

Market Routes prevede la visita a tre mercati rionali nell’arco di un sabato, ma è possibile anche realizzare esperienze più brevi secondo le esigenze dei partecipanti. Gli spostamenti avvengono rigorosamnte a piedi e con i mezzi pubblici, in nome di quella sostenibilità insita nell’acquisto di un capo vintage. Uno stile di vita più sostenibile comincia da semplici gesti e azioni. Ai partecipanti viene consegnata una borsa in tessuto riciclato che permette di riporre gli acquisti evitando di utilizzare le borse in plastica ed è prevista una pausa pranzo dove ci si confronta nuovamente per procedere poi con la seconda parte della giornata, in un nuovo mercato, e concludere con commenti sugli acquisti effettuati.

Cercare pezzi unici nei mercati può sembrare complesso e servono occhio, perseveranza e pazienza, ma Maura e Katia godono di un’esperienza pluriennale nel mondo della moda, dell’organizzazione di eventi, del design e della consulenza e daranno ai partecipati le giuste dritte per riconoscere e scovare indumenti interessanti che spesso si fa fatica a identificare nel caos dei market.

Vogliamo trasmettere alle persone una modalità diversa di visitare i market, invitarli a scoprire l’essenza e l’unicità che ogni posto racchiude e contribuire a sfatare falsi miti grazie ai nostri consigli mirati e a qualche dritta utile

Più info e prenotazioni al link o inviando una mail a themarketroutes@gmail.com

Burrobirra: fra alcol e magia

Burrobirra: fra alcol e magia

Burrobirra: fra alcol e magia

La burrobirra (butterbeer in lingua originale) è la celeberrima bibita di Harry Potter che veniva servita al pub I Tre Manici di Scopa, la preferita di maghi grandi e piccini.

La burrobirra compare per la prima volta nel terzo libro della saga, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, quando per la prima volta i giovani maghi si recano al villaggio di Hogsmeade. E’ una bevanda dolce che assomiglia nell’aspetto a una vera e propria birra, descritta “un po’ come il butterscotch, ma meno malata”. Cosa si intendesse per “malata” è tutto da decidere, probabilmente però si riferiva alla sua dolcezza, ben inferiore a quella del più famoso dolcetto al caramello.

Veniva servita fredda in bottiglia e calda in “boccali schiumosi”, fatta di butterscotch, zucchero e acqua. Potrebbe aver avuto una leggera gradazione alcolica, considerando che Harry Potter alla festa di Natale del professor Horace Lumacorno si chiese cosa avrebbero potuto fare Ron ed Hermione sotto l’influenza della burrobirra. Un chiaro segnale che tanto analcolica non fosse.

Quello che è certo è che la burrobirra era una bevanda reale, molto diffusa al tempo dei Tudor. Recentemente il celebre cuoco britannico Heston Blumenthal ha ricreato questa bevanda in occasione dell’”Heaston’s Tudor Feast”. Ma come possiamo replicarla noi in casa?

Impazzano sul web le versioni di chef stellati, food blogger e piccoli fanatici della saga, tutti ansiosi di ripercorrere le tappe del maghetto e di sentire i sapori che sentiva lui a Hogsmeade, sprofondando il muso nella schiuma densa di questa burrobirra di cui tutti parlano, ma che nessuno riesce a riprodurre. Un po’ come il Pumpkin Spiced Latte di Starbucks, il cui ingrediente segreto temo sia, purtroppo, una bella dose di roba-chimica-non-meglio-specificata.

Cosa c’è di più buono della birra? La Rowling probabilmente risponderebbe “il grasso animale del burro”, che ricorda l’odore dei biscotti che accompagnano il tè delle cinque nella sua nebulosa Londra. Allora perché non unirli, accompagnando le bollicine della birra alcolica alla coccola del burro?

Perché è questo che ti aspetti quando pensi alla burrobirra, qualcosa che sia dolce e affettuoso come il burro ma anche fresco dalla leggera nota amara come la birra. Un connubio perfetto e ben bilanciato, a metà strada fra la merenda energetica e l’aperitivo sfizioso.

Peccato che nessuna delle ricette in rete siano lontanamente simili all’idea che ci siamo fatti di questa bevanda magica. Le ricette più replicate aggiungono vodka, succo di pesca o arancia per dare il colore arancione pallido che rimanda alla birra, latte e panna montata sulla superficie a simulare la schiuma. Roba che, forse, è peggio della chimica di Starbucks. Forse.

Ma il Wizarding World of Harry Potter, parco a tema in Florida, ci viene in aiuto e lancia la ricetta ufficiale, servita ovviamente all’interno del parco. E’ una versione ben lontana da quella che le nostre menti hanno elaborato, è completamente analcolica e per questo apprezzabile anche dai più piccoli. Una scelta saggia per un parco tematico, in effetti.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.