ATP Finals: Novak Djokovic, il Maestro 6 tu!

ATP Finals: Novak Djokovic, il Maestro 6 tu!

ATP Finals: Novak Djokovic, il Maestro 6 tu!

A Torino il serbo si impone per la sesta volta, sette anni dopo l’ultimo successo. Non è il numero uno del mondo per ragioni esclusivamente extra-tennistiche.

Novak Djokovic vince il titolo di Maestro del circuito! Lo fa per la sesta volta e affianca Federer, che ha vinto più volte di tutti la competizione. Si è presentato per tutta la settimana dal 13 al 20 novembre con una livrea verde che ci ha ricordato l’Enigmista, il nemico che sfidava Batman a colpi di indovinelli. Qui il mistero è il solito: ma come fa a vincere sempre?

Il grande campione serbo ha dimostrato ancora una volta di essere fatto di un materiale indistruttibile. Ha difeso le sue scelte in materia di vaccini fino a dover accettare l’esclusione dall’Australian Open a gennaio; per lo stesso motivo non ha potuto entrare negli Stati Uniti ed ha così saltato tutte le manifestazioni in quel paese, soprattutto gli US Open.

Ha vinto Wimbledon, ma non ha incassato i punti destinati al vincitore per la decisione dell’Associazione Tennis di penalizzare il torneo che aveva deciso di non ammettere tennisti russi e bielorussi. Insomma, c’era di che scoraggiarsi. Novak invece ha pensato solo a farsi trovare pronto fisicamente e mentalmente ogni qualvolta gli avessero permesso di giocare.

Da settembre ha giocato tre tornei, vincendone due e sfiorando il titolo nel terzo, a Parigi, sconfitto all’ultima curva da Holger Rune, diciannovenne di cui parlammo subito bene commentando il Roland Garros (che occhio clinico).

A Torino ha vinto cinque volte perdendo solo un set, al tie-break con Daniil Medvedev. In finale ha disposto del Norvegese Casper Ruud in due set, 75 63, prevalendo sul campo più nettamente di quanto non dica il punteggio. I suoi colpi piatti viaggiavano spediti su una superficie molto veloce, e il giocatore nordeuropeo semplicemente non aveva le armi per metterlo in difficoltà.

Nel discorso successivo alla premiazione, Novak Djokovic è andato a braccio e a cuore, esprimendosi in un ottimo italiano e scatenando l’affetto del pubblico torinese.

Non sempre il tifo è dalla sua parte in giro per il mondo: perché è il più forte, per certe sue scelte, perché vince troppo. In Italia trova sempre le giuste emozioni e il calore del pubblico.

A trentacinque anni è ancora l’uomo da battere, e la stagione 2023 si è già aperta nel modo migliore, con le autorità australiane che hanno rimosso il ban al suo ingresso nel continente oceanico. Gli avversari sono avvisati…

Capitolo Rafa Nadal. L’asso spagnolo rientrava da un infortunio, e la superficie velocissima non lo ha aiutato. Ha perso il primo incontro con Taylor Fritz lottando nel primo set ma arrendendosi ai missili del suo avversario nel secondo. Due giorni dopo ha ceduto al canadese Auger-Aliassime, ed è stato eliminato. Si è scosso nel terzo match, inutile ai fini della classifica ma fondamentale per il suo orgoglio, e ha battuto un Ruud già ammesso alle semifinali.

Quello delle ATP Finals è l’unico alloro che tarda ad arricchire ulteriormente la sua ponderosa bacheca. Il maiorchino deve avere una vetrinetta in granito e alabastro rinforzato che fa municipio in quel di Manacor, ma l’edicola speciale approntata per ricevere il trofeo del Masters rimarrà sfitta per un anno ancora.

L’eventualità peraltro non sembra togliere il sonno al campione iberico; in conferenza stampa, scrollando la testa senza posa, ha riconosciuto il valore dell’avversario, la difficoltà di rientrare dopo un infortunio e di misurarsi da subito con giocatori forti.

Mentre scriviamo è già partito per lucrosissime esibizioni in Sudamerica. Ha un anno più di Novak, ma è più provato nel fisico dopo anni di battaglie e di tennis dispendiosissimo; speriamo ritrovi la carica per una nuova stagione ai vertici, dopo un 2022 che lo ha portato comunque sul trono di Melbourne e di Parigi. Il pubblico lo segue come sempre, il suo ingresso in campo a Torino contro Fritz è stato salutato da un entusiasmo straordinario (cui chi vi scrive ha nel suo piccolo contribuito), vederlo giocare è sempre inspiring.

Vabbè, ma non c’erano mica solo loro due.

Vero.

Stefanos Tsitsipas, il bel greco vincitore a Montecarlo, come scrivemmo ad aprile, ha il difficile compito di raccontarci quanto fosse bravo Roger Federer. Il suo gioco lo ricorda molto.

È l’unico a colpire di rovescio a una mano ed è quello che meglio di tutti attacca la rete. Inoltre, piace molto al pubblico femminile, e qui batte anche Roger. Ma solo qui.

È bravissimo e vederlo in azione fa bene ad ogni appassionato; chissà se troverà la formula per fare un ulteriore salto di qualità e vincere uno Slam. A Torino ha perso una partita ben avviata contro il russo Rublev; forse gli farebbe bene prendersi una vacanza dal proprio clan, una famiglia con un padre allenatore un po’ troppo severo (la storia di questo sport è piena di genitori ingombranti, arroganti e a volte purtroppo anche maneschi).

Daniil Medvedev quest’anno è stato anche numero uno del mondo, ma non ha saputo essere sufficientemente continuo per difendere la posizione. Qui ha perso tre volte su tre, sempre al tie-break decisivo! Un record alla rovescia.

Fritz e Rublev sono stati semifinalisti inattesi ma bravi ad approfittare delle occasioni presentatesi, così come anche il finalista Ruud, uno dei tennisti che più ha compiuto progressi nella stagione appena terminata. Mia opinione: gli organizzatori non devono essere stati troppo contenti di avere questi tre semifinalisti, forti ma non molto personaggi. Per loro fortuna il quarto era Novak Djokovic, che ha messo a posto le cose…

Ne ho nominati sette, quindi ne manca uno. Felix Auger-Aliassime è stato il protagonista dell’autunno, con una rincorsa a suon di vittorie che gli è valsa la qualificazione per Torino. Ma per arrivarci si è spremuto oltre, ed è stato eliminato anzitempo. È giovane, ci sarà tempo.

L’anno si chiude qui, manca solo la Coppa Davis, in scena a Malaga proprio in questa settimana, C’è l’Italia, ma Sinner e Berrettini hanno marcato visita e noi riponiamo le speranze di bella figura soprattutto in Musetti e Sonego. Sarà dura sin dal primo turno, con gli USA di Taylor Fritz gasatissimo protagonista nel capoluogo piemontese.

Speriamo sia tanto stanco…

Danilo Gori

René Magritte: l’arte non copia la natura

René Magritte: l’arte non copia la natura

René Magritte: l’arte non copia la natura

René Magritte, esponente del movimento surrealista, nasce a Lessines, in Belgio, il 21 novembre 1898; conobbe una grande fortuna nella seconda metà del XX secolo, soprattutto in campo grafico e pubblicitario.

René Magritte fu un insigne esponente del movimento surrealista europeo. L’esperienza surrealista trae la propria necessità dall’interpretazione fenomenica del primo Novecento: il locus horribilis fra le due guerre sfugge ad ogni esegesi positivista; un positivismo quasi del tutto esaurito alle soglie degli anni Venti, spazzato via con virulenza, dopo che la guerra di trincea abbatté ogni certezza dell’uso della ragione. 

André Breton e il manifesto surrealista

Nel 1924 André Breton, poeta, romanziere e teorico venuto a conoscenza della teoria psicoanalitica di Freud, firma e pubblica il Manifesto del Surrealismo, nel quale si legge:

Surrealismo, sostantivo maschile. Puro automatismo psichico attraverso cui si intende esprimere verbalmente, con la scrittura o attraverso qualsiasi altro metodo, il vero funzionamento della mente. È il dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica o morale. (…) Il Surrealismo è basato (…) nell’onnipotenza del sogno, nel gioco incontrollato del pensiero.

Il cuore dunque del movimento surrealista risiede nella negazione del primato della ragione dogmatica, di una ragione che intende chiarificare e giustificare il reale. Di conseguenza, ogni aspetto dell’irrazionale, dell’illogico, dall’automatismo al gioco, dal caso all’assurdo, vengono assunti ad aspetti cardini dell’esistenza e dell’espressione. 

Il movimento surrealista rintraccia nelle figure di Rimbaud e di De Sade, in letteratura, e di Bosch, Arcimboldo e Füssli, in campo strettamente artistico, i precursori e anticipatori, e annovera fra le proprie fila una schiera eterogenea di teorici e artisti, fra i quali Max Ernst, Salvador Dalì, Joan Mirò, Louis Aragon, Raymond Queneau; nonché René Magritte.

René Magritte fra le due guerre

René Magritte è con ogni probabilità il surrealista che ha avuto un maggior successo di pubblico. Tranne un breve periodo di permanenza a Parigi, fra il 1927 e il 1930, durante il quale ebbe la possibilità di fraternizzare e litigare con André Breton, Magritte passò la maggior parte della sua vita a Bruxelles, ben adattandosi ad uno stile di vita borghese. 

I vari manuali di storia dell’arte non mancano di segnalare il suicidio della madre come esperienza capitale della sua esistenza: quando Magritte aveva quattordici anni la madre si suicidò e venne trovata annegata nelle acque del fiume Sambre, un affluente della Mosa, con una camicia da notte avvolta al viso. E a ben vedere, nelle opere di Magritte ritornano con insistenza alcune figure femminili non solo associate all’acqua, ma anche avvolte da panni, come ne Les amants (Gli amanti, 1928) e L’histoire centrale (La storia centrale, 1928). 

Si formò principalmente in Belgio, dove poté sviluppare un certo piacere nell’associare l’umorismo al macabro. Le sue opere, che ebbero particolare risonanza nel Secondo dopoguerra, sono testimoni della contrapposizione fra consueto e assurdo, spesso a vantaggio di quest’ultimo, del trionfo della dimensione onirica che perturba e capovolge, dello stupefacente che deride il reale borghese.

Ceci n’est pas une pipe

Tuttavia, il contributo, forse, più importante di Magritte resta la serie di opere nelle quali si legge Ceci n’est pas une pipe, la prima delle quali è stata intitolata L’uso della parola I

Se Ferdinand De Saussure scrisse che il legame fra un significato, e cioè l’oggetto designato, e un significante, ossia l’elemento formale del significato, sono legati da un rapporto del tutto arbitrario, Magritte pare voglia esasperare, se non dissolvere l’arbitrarietà e negare il legame tra pensiero, parola e rappresentazione. 

Se si pensa, ad esempio, a una farfalla, saremo portati a rintracciarla nella realtà in qualità di insetto con due ali relativamente fragili e colorate. E allo stesso modo, qualora si volesse rappresentarla, ci si sforzerebbe di riprodurne la forma alla quale i nostri sensi sono avvezzi. Sarebbe difficile scambiare una farfalla per un’ape. 

Eppure Magritte non è d’accordo: in L’uso della parola I sotto ad una elementare pipa vi è la scritta Ceci n’est pas une pipe (questa non è una pipa). Secondo l’artista belga l’arte pura non ha nulla a che fare con la realtà, ma con il pensiero. Se io disegno una pipa, non è scontato che il mio pensiero abbia proprio inteso ciò che comunemente viene accettato come pipa. La pipa, quella che si utilizza quotidianamente, è una cosa; la pipa che il pensiero intende e che l’arte rappresenta, è un’altra. L’uso della parola I prende di mira una convenzione accettata universalmente: l’arte ha valore nella misura in cui rappresenta o si ispira al reale. Non importa se i muscoli di un Eracle saranno esagerati e disumani: si riconosce sempre la forma umana. 

L’arte non copia la natura

Magritte rigetta questa convinzione, affermando che l’arte non copia la natura o il reale, né tantomeno ricerca tale imitazione: l’arte è un codice, usa un linguaggio convenzionale, come la scrittura; e come tale, rivendica una sua autonomia dal reale e dal quotidiano. La pipa rappresentata, quindi, non afferisce al reale, ma è un prodotto del pensiero. 

La radicale mancanza di legame tra pensiero, parola e rappresentazione strappa un sorriso se si pensa alla polisemia della parola “pipe”, che in francese non traduce solo “pipa”, ma anche “tubatura” (tuyau), nonché una variante gergale e dimessa di fellatio.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Suns Europe: svelati i nomi degli artisti del concerto!

Suns Europe: svelati i nomi degli artisti del concerto!

Suns Europe: svelati i nomi degli artisti del concerto!

Il 26 novembre 2022 alle ore 21.00, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine arriveranno da Galles, Paese Basco, Friuli, Carso, Drenthe e Sardegna i gruppi selezionati per l’evento conclusivo del festival delle arti in lingua minorizzata.

UDINE – È tutto pronto per il gran finale di Suns Europe! Il festival delle arti in lingua minorizzata – organizzato dalla cooperativa Informazione Friulana, editrice di Radio Onde Furlane – col sostegno finanziario della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, dell’ARLeF, Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane, del Comune di Udine, della Fondazione Friuli e la collaborazione dell’Istituto Basco Etxepare, dell’Ambasciata italiana dei Paesi Bassi e di numerosi soggetti pubblici e privati, locali e internazionali – dopo aver portato nell’estate friulana tanti appuntamenti di bella musica, e non solo, sbarca al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, il 26 novembre, alle 21, per il concertone finale che vedrà per protagonisti gli artisti e i gruppi selezionati per questa ottava edizione!

IL CONCERTONE – A calcare il palco del Teatro cittadino saranno gli schizofrenici mash-up di dance beats, estetica vintage e chitarre indie dei gallesi Hms Morris; ma anche una delle artiste più interessanti del Paese Basco, Olatz Salvador; se c’è una verità profonda nel suo lavoro è quella racchiusa nella sincerità del suo canto. Tornerà a Suns Europe anche la Sardegna con gli Ealûs, duo che trae ispirazione dal mistero e dalla bellezza dell’Isola in un progetto che desidera valorizzare tutta la ricchezza delle sue lingue. Immancabile anche la presenza del Drenthe (Paesi Bassi) con Rick Hilberts, giovanissimo cantautore già vincitore del prestigioso festival canoro Drèents Liedtiesfestival. Il suo brano “Vallende Sterren” è un’impeccabile ballata pop in rotazione su moltissime radio neerlandesi. Spazio anche allo sloveno del Carso con i Violoncelli Itineranti, un’inedita commistione fra la musica da camera e la poesia slovena contemporanea. A rappresentare il Friuli ci saranno invece le melodie morbide e taglienti di Massimo Silverio, cariche di un’emozione in cui i friulani non possono far altro che rispecchiarsi. L’intera serata – in diretta radiofonica su Radio Onde Furlane dalle 21 alle 23, condotta da Mauro Missana – sarà presentata da Elsa Martin e Nicola Angeli.

LA SERIE WEB IMMERSIVA 33/16 – La giornata in teatro comincerà già al mattino, alle 10 (e fino alle 19, ora dell’ultima messa in onda) con la proiezione, in Sala Fantoni, della serie web immersiva 33/16. Il corto sarà lanciato ogni 45 minuti e gli ospiti potranno fruirne dieci alla volta. Alle 18 è anche prevista una breve presentazione da parte del regista, Marco Fabbro.

Biografia artisti

Hms Morris (Galles)

Definire “electro-pop” la musica degli HMS Morris è decisamente riduttivo. Schizofrenici mash-up di dance beats, estetica vintage e chitarre indie, conferiscono a questo gruppo un’originalità rara nella già vivace scena gallese. Formatisi nel 2015 hanno pubblicato due album per l’etichetta Bubblewrap Collective e realizzato alcuni prestigiosi tour extraeuropei fra Canada e Giappone. Heledd Watkins (voce, chitarra, sintetizzatore), Sam Roberts (sintetizzatore, cori, basso), Billy Morley (chitarra solista), Iestyn Jones (batteria).

Olatz Salvador (Paese Basco)

Se c’è una verità profonda nelle canzoni di Olatz Salvador è quella racchiusa nella sincerità del suo canto. Le melodie percorse dalla sua voce delineano un paesaggio dolce ed amaro, proprio come quello del Paese Basco da cui proviene. Sostenuta da una solida band Olatz Salvador è ad oggi una delle artiste più interessanti di Donostia.

Massimo Silverio (Friuli)
Le melodie morbide e taglienti di Massimo Silverio sono cariche di un’emozione in cui i friulani non possono far altro che rispecchiarsi. Se la personalissima rilettura degli stilemi musicali carnici lo colloca saldamente nella sua Cercivento, il coraggio e la raffinatezza nel suono gli conferiscono un respiro internazionale che probabilmente nessun musicista friulano aveva avuto fino a oggi.

Violoncelli Itineranti (Sloveno del Carso) 
Tre violoncelli ed una voce in un curioso dialogo fatto di raffinate orchestrazioni ed un pizzico di improvvisazione. I Violoncelli Itineranti sono una formazione interamente femminile che rappresenta la minoranza slovena del Carso. Un’inedita commistione fra la musica da camera e la poesia slovena contemporanea.  “Sonce ljubo” è il titolo del loro primo album di recente pubblicazione. Andrejka Možina (voce, violoncello, composizione), Irene Ferro-Casagrande (violoncello) e Carla Scandura (violoncello).

Rick Hilberts (Drenthe – Paesi Bassi) 
Nonostante Rick Hilberts abbia cominciato a cantare in lingua Drènts in tempi piuttosto recenti, la sua carriera di cantautore è già segnata da una ragguardevole serie di successi e riconoscimenti. Questo giovanissimo cantautore è già vincitore del prestigioso festival canoro Drèents Liedtiesfestival e il suo brano “Vallende Sterren” è un’impeccabile ballata pop in rotazione su moltissime radio neerlandesi.

Ealûs (Sardegna) 
Gli Ealûs traggono ispirazione dal mistero e dalla bellezza della Sardegna in un progetto che desidera valorizzare tutta la ricchezza delle sue lingue. Il suono che ne risulta ha il raro pregio di risultare estremamente arcaico e allo stesso tempo fortemente contemporaneo. Attualmente stanno lavorando alla produzione del loro primo album in lingua sarda “Zénesi”. Giorgia Gungui alla voce e Dominic Sambucco alla chitarra.

SUNS EUROPE – Suns Europe (da giugno a novembre 2022) è il festival europeo delle arti performative in lingua minorizzata (termine che indica le lingue cui viene negata la possibilità di essere utilizzate in maniera normale e paritaria in tutti gli ambiti della vita quotidiana). Nato nel 2009 in Friuli, cuore multilingue dell’Europa, Suns (friulano: suoni) era un concorso musicale per le comunità minoritarie dell’Europa alpino-mediterranea. Il festival si è poi evoluto in Suns Europe, un luogo di incontro e di scambio tra artisti di gruppi linguistici minoritari del continente e un’occasione per tutte le comunità europee di prendere coscienza dei propri diritti linguistici, nonché dell’importanza del pluralismo culturale come patrimonio, diritto e opportunità per tutti, in Friuli e non solo. Il Festival è organizzato dalla cooperativa Informazione Friulana, editrice di Radio Onde Furlane col sostegno finanziario della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, dell’ARLeF – Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane, del Comune di Udine, della Fondazione Friuli e il contributo dell’Istituto Basco Etxepare, dell’Ambasciata italiana dei Paesi Bassi, delle associazioni Amîs da Mont Quarine e Damatrà, del CEC Centro Espressioni Cinematografiche. Inoltre si avvale della collaborazione di numerosi soggetti pubblici e privati quali i Comuni di Artegna, Mortegliano, Moruzzo, Pozzuolo del Friuli e Romans d’Isonzo, l’associazione Amici del Teatro di Artegna, la Società Filarmonica di Pozzuolo del Friuli, il Liberatorio d’Arte “Fulvio Zonch” di Romans d’Isonzo, il circolo Cas*Aupa di Udine e le associazioni Inniò, Babel (Sardegna) e Stichting REUR (Bassa Sassonia). Suns Europe ha il merito di trasformare il Friuli in un crocevia di culture, lingue e artisti, creando contaminazione e confronto, dando spazio a una produzione artistica di assoluto valore.

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Vittorio De Sica, il sorriso e il perdono

Vittorio De Sica, il sorriso e il perdono

Vittorio De Sica, il sorriso e il perdono

Nella dedica di Ettore Scola in “C’eravamo tanto amati” l’omaggio a un immortale del cinema, il Vittorio De Sica regista ma non solo.

Che tempo c’era là fuori, quando Vittorio se ne è andato?

Forse c’era la nebbia, lana soffice e magica, misteriosa e tiepida del sorriso di Totò il Buono di “Miracolo a Milano”; o magari la pioggia, intrigante complice delle chiacchierate segrete di Micol Finzi-Contini e Giorgio quando l’inganno nazista era ancora solo un sinistro presagio.

O magari splendeva il sole, che baciava le imprese degli sciuscià a cavallo per le strade di Roma, o del piccolo Bruno in trattoria con il padre alla ricerca del ladro di biciclette; bambini che respirano istanti di riscatto da una vita di miserie. Chissà…

Perché quando se ne va un grande, una immagine persistente, al servizio del nobile poeta o dell’umile cronista, è quella del meteo partecipe del dolore universale. “Anche il sole indirizza i suoi caldi raggi verso il caro che prende congedo”, “il cielo si unisce alla tristezza di tutti rovesciando le sue lacrime dolenti”. Il caldo e il freddo come espressione del turbamento dell’ordine naturale, come omaggio a una personalità unica.

Ci avrà pensato Ettore Scola, nel 1974, regista in uscita con “C’eravamo tanto amati”? Il suo capolavoro era pronto: trent’anni di storia italiana, dalla lotta partigiana alla ricostruzione, dal boom agli anni Settanta. Le speranze e le illusioni, la voglia di cambiare il mondo e il mondo che ci cambia. “Il futuro è passato, e noi non ce ne siamo nemmeno accorti”, dice Gianni Perego, ex idealista ora arricchito palazzinaro con il volto di Vittorio Gassman. “Vivere come ci pare e piace costa poco, perché lo si paga con una moneta che non esiste: la felicità” rilancia Nicola – Stefano Satta Flores, l’intellettuale che ha lasciato la famiglia pur di inseguire velleitari sogni di un avvenire migliore.

Sì, secondo noi Scola ci ha pensato. E si deve essere detto: ai miei personaggi manca qualcosa. E cosa se non il sorriso?

Vittorio De Sica ha vinto quattro Oscar, e avrebbe vinto forse anche quello alla carriera, come Fellini, se un brutto male non se lo fosse portato via troppo presto, proprio nel 1974. Maestro straordinario della regia, è stato anche cantante e attore, sovente criticato per aver prestato la sua arte a film non degni di nota.

Ha dato fondo al proprio talento dando vita spesso a personaggi leggeri e furbacchioni. Nelle sue interpretazioni del periodo più maturo fanno capolino alcune costanti, talmente evidenti da farcele immaginare proprie dell’attore stesso. Una certa cialtroneria intanto: la ritroviamo nel sindaco che pensa di poter interpretare il codice della strada a proprio uso e consumo, e viene multato dal “Vigile” Alberto Sordi. O nel presidente di un ente di difesa della morale pubblica nel “Moralista”, corrotto e smascherato nel finale.

Il suo nobile in disgrazia poi assurge a categoria cinematografica propria. Spiantato, invariabilmente anche per una incontrollata ed ironicamente autobiografica attrazione per il gioco d’azzardo; alla ricerca di un matrimonio con qualche facoltosa donna di bella famiglia. È ad esempio un Conte Max prodigo di consigli per Alberto Sordi che vuole entrare in alta società, salvo poi aiutarlo quando, deluso dalla vacuità del mondo altolocato, si ripropone di conquistare una normalissima ragazza che lavora a servizio.

Se è il miracoloso guaritore di un paesino dell’Italia centrale impegnato a rovesciare sale sui pazienti o fare fatture (anti iattura ovviamente), eccolo ingaggiare guerra con il neoarrivato giovane medico condotto (“Il medico e lo stregone”).

Il sorriso, ecco cosa non manca mai nella sua arte. In chi viene sconfitto, in chi perde a carte e si rovina, in chi si arrende ad una giovane donna che non sarà mai sua. 

Se Sordi, soprattutto nei cinquanta e nei sessanta è l’italiano cattivo e poi incattivito dalla società dei consumi e dell’arrivismo, Vittorio è l’uomo che indulge alle debolezze più patetiche e ridicole. Quello che cerca di farla franca, ma che quando non ci riesce sembra dirsi: “ma davvero credevi di passarla liscia?”.

Vittorio sorride e perdona tutti; sé stesso, certo, ma poi anche gli altri. Perché la carne è debole, perché “tengo famiglia”, frase che paradossalmente nella vita lui pronunciava declinandola al plurale, e le acrobazie quotidiane per poter garantire affetto e presenza a entrambi i suoi nuclei famigliari sono arcinote.

Così Ettore Scola costruisce il suo capolavoro pensando a Vittorio; uno dei protagonisti, Nicola, professore progressista, arriva a insultare le autorità scolastiche cittadine che criticano durante un cineforum proprio “Ladri di biciclette” perché fomenterebbe l’odio sociale. E lo stesso Nicola si presenta ad un noto quiz televisivo, rispondendo a domande sul regista.

Il film (che ha apparizioni di Fellini, Mastroianni e dello stesso De Sica) ha un finale amaro e malinconico, ed è bello pensare che l’inizio dei titoli di coda del film sia la formula magica con cui guardare avanti nonostante tutto, con cui riconoscere che la vita, dopo un fallimento, concede la rivincita già il giorno seguente. E che se la affronti con il sorriso, stai già avendo la meglio: “Dedichiamo questo film a Vittorio De Sica”.

Wim Wenders ha scritto: “cinema, il tuo nome è Federico”. Lungi da me il pensiero di contraddire il regista de “Il cielo sopra Berlino”; ogni qual volta però mi appresto a vedere “Umberto D.”, forse l’ultimo film della stagione neorealista di De Sica, ammiro la dignità del pensionato in miseria che non cede alla tentazione di liberarsi del proprio cagnolino uccidendolo sui binari del treno. E penso che, se fosse lì con me, gli direi: “Wim, siedi qui. Questo forse te lo sei perso…”

Danilo Gori

Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Nelle inconsistenti vicende dei cinque ragazzi di provincia troviamo le paure di crescere e diventare uomini

Il film “I Vitelloni” del 1953 è il secondo girato da Federico Fellini, di cui ricorre il 31 ottobre il ventinovesimo anno della scomparsa. È una commedia a tratti divertente, a tratti triste e anche disperata, osservata con comprensione ma non senza capacità di giudizio dal protagonista Moraldo, interpretato da Franco Interlenghi.

Ambientato nella città del regista, narra le vicende di cinque uomini, giovani ma non più ventenni, alle prese con una vita di provincia monotona, ma alla quale non riescono e, in fondo, non vogliono rinunciare.

C’è Fausto, il bello e cinico donnaiolo del gruppo, che si vede costretto a sposare Sandra e a trovare un lavoro quando si scopre che aspetta un figlio da lui; Leopoldo, l’intellettuale che continua pigramente a scrivere e rimaneggiare un’opera teatrale. Alberto (un Sordi al secondo film con Fellini, dopo lo “Sceicco Bianco”) è un mammone perdigiorno che critica la sorella, unica fonte di reddito della famiglia, per la sua relazione con un uomo sposato.

C’è Riccardo e c’è appunto Moraldo, fratello di Sandra e quindi genero di Fausto. Vediamo i vitelloni che si fanno beffe della “matta” del quartiere, che stanno sul molo a guardare il mare in inverno o che prendono il sole all’esterno del loro bar. “Poca vita, sempre quella”, come avrebbe cantato Lucio Dalla in “Anna e Marco”.

La figura centrale è come detto Moraldo. Timido e ingenuo, osserva imbarazzato alcune trovate dei più esuberanti amici; li asseconda e li perdona, come quando abbassa gli occhi per non guardare il cognato Fausto corteggiare senza vergogna altre donne. Sul suo viso non si spegne mai il taglio di sorriso con cui segue i compari, ma lentamente si fa strada in lui il desiderio di voltare pagina.

Una notte, tornando a casa dopo una serata in compagnia, si ferma a parlare con Guido, ragazzino che invece sta recandosi fischiettando in stazione, dove lavora come fattorino-tuttofare. Gli chiede se è contento, e il ragazzo fa una smorfia, ma risponde: “beh, si sta bene”. Moraldo si confronta con una persona ben più giovane di lui, che già affronta la vita dura di chi si alza sempre alle tre, ma lo fa con realismo e di buon grado.

Gli toglie il berretto da lavoro e se lo mette in capo; i due ridono ed è il più grande che si incarica di dedicare un momento del loro incontro al gioco.

Da corda al cognato vanesio e lo aiuta addirittura a rubare un arredo sacro dal negozio dove lavora e da dove è stato licenziato dopo che ha insidiato la moglie del proprietario. Rassicura pateticamente Sandra sulla serietà del marito, ma quando lei scappa con il bimbo dopo l’ennesima impresa fedifraga, a Fausto che dice “se si è buttata in mare mi uccido!” risponde: “non lo farai mai, sei un vigliacco!”.

Il gruppo di amici è incapace di cambiare, ed è proprio Moraldo che realizza che, per crescere, bisogna partire. E così fa una mattina, salendo su un treno per chissà dove. Guido, il giovane fattorino, lo saluta con il volto illuminato dal sorriso, e quando il treno ha lasciato la stazione, si mette a camminare in equilibrio su una rotaia, riappropriandosi per un breve momento del suo diritto a giocare. Intanto tutti gli altri vitelloni dormono.

La carrellata dei letti con gli amici addormentati è nello stesso tempo tenera e feroce, e il gesto finalmente attivo di Moraldo avrà un’eco nel Nicola di “La meglio gioventù”, che, dopo aver osservato i propri cari vivere e smarrirsi, organizza la cattura della moglie brigatista, per impedirle di farsi e fare del male.

La bonaria ferocia di Fellini si ripropone nei forti contrasti nel momento della festa di Carnevale, dove tutti devono divertirsi e perdersi (come se alcuni già non lo fossero) in azioni frivole e ingannatorie, per poi cambiare scena al mattino successivo. Dopo i bagordi c’è solo la desolazione di un altro giorno passato e di uno nuovo da riempire di nulla. Alberto, ubriaco, fissa una testa enorme di cartapesta, decorazione ormai inutile, e forse per un attimo vede sé stesso. Ritorna faticosamente a casa, aiutato da Moraldo, e trova la sorella che scappa con il suo amore impossibile. È la tragedia: Alberto consola la madre ma in lui si fa strada la consapevolezza che dovrà trovarsi un lavoro.

E ancora contrasti nelle profonde differenze tra Fausto e il padre, persona povera ma orgogliosa e piena di dignità che, una volta che la nuora Sandra è riapparsa, accoglie il figlio a cinghiate. Alla scena è presente l’ex datore di lavoro di Fausto, che porge la mano al genitore sconsolato dalla vacuità del figlio e gli dice con rispetto: “onoratissimo!”.

“I Vitelloni” non ha avuto immediato successo; la sua fama è cresciuta nel tempo; Martin Scorsese ha detto di essersi ispirato al film per le dinamiche tra criminali di “Quei bravi ragazzi”, e Stanley Kubrick lo ha definito semplicemente il “mio film preferito”. I personaggi assurgono a tipi universali; non c’è quasi traccia di cadenze dialettali, e la pellicola, come spesso accade in Fellini, non è nemmeno girata nella sua città natale. Come in altri suoi lavori, la bugia e il sogno sono sempre in agguato, mezzi espressivi principali del Maestro per raccontare la sua verità.

Danilo Gori