Pete Sampras, il pistolero tranquillo

Tra McEnroe e Federer, tra i mitici ottanta e i Big Three, un timido ragazzo del Maryland chiede spazio. E lo fa senza troppi giri di parole, affidando le sue ragioni ad un talento purissimo

Quando nel settembre del 1984 John McEnroe vince il suo quarto US Open su Ivan Lendl, nessuno immagina che sarà il suo ultimo successo in un major, e che per cinque lunghi anni gli atleti a stelle e strisce non si imporranno più nei quattro tornei Slam. Mac avviava un precoce e pur splendido declino, e con lui il trentaduenne Jimmy Connors, e la Federazione Americana Tennis (USTA) affrontava una crisi di talenti senza precedenti per un paese che aveva vinto fino ad allora ventotto volte la Coppa Davis e giocato complessivamente cinquantaquattro finali.

Sul finire del decennio si affaccia però una strana triade di americani esotici: saranno loro, insieme al “rosso” Jim Courier, a riportare lo zio Sam sul trono del tennis. Nel 1988 esplode il talento del giocatore più moderno del pianeta, vero prototipo del tennista di oggi: figlio di un immigrato iraniano, André Agassi è il punk burlone e sorridente che prende tutti a pallate e arriva in semifinale a Parigi. Un anno dopo il flemmatico sino-americano Michael Chang vince, a diciassette anni, addirittura il Roland Garros, oltraggiando nientemeno che Re Lendl.

Nel frattempo, il terzo, il figlio dell’immigrato greco Soterios, lascia la presa bimane del rovescio che gli è stata impostata e si concentra sul gioco del suo idolo, Rod Laver. Colpisce la pallina con il suo stesso talento e pratica il gioco classico dei grandi degli anni Sessanta, dall’australiano a Manolo Santana. È ombroso e timido, non ha il carisma del punk e del saggio cinesino.

Ma nella destra ha la magia.

Per qualche tempo si allena a casa di Lendl, e impara la dedizione assoluta al lavoro dell’amerikano di Praga; il talento si deve associare al rigore, o Laver rimarrà lassù, inavvicinabile. Se ne ricorderà il 6 settembre del 1990, quando nei quarti di finale incrocia proprio il suo mentore. L’ex cecoslovacco arriva da otto finali consecutive nel torneo ed è favorito; nei primi due set però il greco è perfetto e lo confonde con fendenti e servizi terribili. Nei due set successivi il campione si riprende ed all’inizio del quinto tutti scommetterebbero su di lui. Ma il ragazzo lo stende con freddezza: 62 e tanti saluti. In semifinale supera McEnroe e in finale straccia proprio lo showman Agassi. Come dire: lui fa il cinema, io i fatti. Da qui comincia la favolosa storia di “Pistol” Pete Sampras.

Quella tra i due giovani finalisti di New York 1990 è la rivalità del decennio: sembra costruita apposta su alcune differenze che scavano un abisso tra i due. Le liti al limite del contatto fisico tra Connors e McEnroe lasciano la scena al contrasto di stili, comportamenti in campo e fuori. Pete è solitario e taciturno, interessato solo al suo tennis, imperscrutabile e infaticabile; Andre è simpatico e comunicativo, curioso del mondo, geniale e distratto. Insieme girano spot per la Nike allestendo campi da tennis per le strade più trafficate; insieme vengono travolti in una epica finale di Coppa Davis a Lione nel 1991, sconfitta assai istruttiva sulla vecchia Europa per i due giovanotti yankee. Insieme giocheranno cinque finali Slam, e Pete ne perderà una sola.

Perché nell’ultimo atto dei tornei è un killer: troppo determinato, troppo campione per tutti; a Wimbledon ne vince sette su sette. Nel momento giusto, il suo servizio non fallisce mai: “se funziona lui, sono tranquillo” dice parlando del suo gioco.  Vince 14 finali Slam su 18; solo Parigi gli sfuggirà, con la terra rossa che rallenta i colpi del suo fioretto magico.

Poco importa se l’orizzonte della sua vita appare limitato; nella sua autobiografia bestseller, Agassi si prende gioco di lui e dice di invidiarne l’ottusità (dullness), ovvero la sua assenza di ispirazione. Pete gli appare bidimensionale, senza pensieri particolarmente complessi; dal suo punto di vista, il greco risponderà tempo dopo di “aver semplicemente sempre saputo cosa avrebbe voluto fare, a differenza di Andre”.

Il 2 luglio 2001 negli ottavi di finale Pete affronta il teenager Roger Federer, e la storia fa di nuovo tappa a Wimbledon. Il giovane svizzero fa la sua prima apparizione sul Centrale, e il campione viene da una striscia vincente di 31 incontri a Londra; dal 1993 fino a quel giorno ha perso solo un match!

Ne esce uno show indimenticabile. Federer non mostra nessun timore reverenziale verso l’avversario e neppure nei confronti del leggendario stadio; vince il tie-break del primo set e perde il secondo solo per 75. I due si dividono i due successivi parziali dando fondo al loro arsenale di meravigliosi fiorettisti. Nel set decisivo sul quattro a quattro Sampras ha una palla break e gioca un rovescio alla figura dello svizzero corso a rete; sembra fatta, ma Roger si toglie di dosso la pallina con una volée di rovescio incredibile.

È il segnale: Federer annulla una seconda opportunità per l’americano, sale 54 e chiude l’incontro con un break. Sampras stringe, riluttante come sempre, la mano dell’avversario che lo ha battuto e comprende come undici anni prima si era sentito Lendl di fronte al suo successore.

Qualcosa scricchiola nella ferrea determinazione di Pete. Dodici anni dopo la finale del 1990 torna nell’ultimo atto di New York, e oltre la rete c’è lo stesso punk di allora; e anche il vincitore al termine è lo stesso. Sampras alza la coppa, saluta e torna negli spogliatoi; nessuno lo sa, ma rimarrà quella la sua ultima partita ufficiale. Quello che non vuole un uomo schivo come lui, poco incline all’ironia ma molto allo stile, è trascinare il proprio talento attraverso uno stillicidio di ritiri e clamorose rentrée, con lauti compensi per comparsate malinconiche e a volte grottesche. Caso rarissimo nello sport, ha il coraggio di ritirarsi dopo un trionfo, nel pieno delle proprie capacità tennistiche.

Il ritiro ufficiale verrà annunciato un anno dopo. Da quel momento Pete uscirà dal tennis; rilascerà occasionali interviste, parteciperà ancora a eventi tra vecchie glorie, ma non diventerà commentatore, o uomo immagine di un torneo. In una chiacchierata con l’ex campione Pat Cash per la CNN dirà che la cosa più importante per lui dopo la fine della carriera è la famiglia. Semplicemente. Nessuna voglia di essere il coach di qualcuno, perché “ne ho abbastanza di viaggiare per il tennis”; al “Time” confiderà che “le motivazioni erano finite, e non c’era nulla da dimostrare ancora”

Nell’ultimo match con Agassi, nel cuore dello scontro, Pete grida “that’s what I’m talking about!” (è di questo che sto parlando!), per caricarsi; al termine della finale riconoscerà di non aver mai ricevuto una ovazione come quella. La folla aveva la prova, anche Sampras il calmo vive le sue emozioni, ha paura di perdere, sa che altre occasioni per trionfare non verranno più.

A vent’anni dal ritiro poco rimane dei suoi record; Federer, Nadal e Djokovic hanno fatto piazza pulita dei numeri precedenti alla loro era. Ma l’appassionato di tennis non può dimenticare Petros il greco, mite e sublime pistolero di fine millennio, unico autentico predecessore del Divo Roger. Senza fare troppi clamori, aveva un sogno: lo ha coronato, e nel farlo ci ha regalato momenti di talento ineguagliabili. Senza parlare molto, lasciando alla racchetta il compito di raccontare di sé.