Nel cuore di “Let Me Be”: l’intervista a Fabio Gómez

Con l’ultimo singolo in uscita “Let Me Be”, il cantautore italo svizzero Fabio Gómez ha dimostrato che non servono stratagemmi per ottenere ascolti.

Let Me Be non è solo lo specchio di un successo, bensì è una storia che racchiude un viaggio introspettivo che fa tappa negli amori malati, nelle consapevolezze interiori, nel bisogno di prendere delle decisioni spesso radicali, e tutto per riconcorrere una libertà per nulla scontata. Let Me Be è anche una riflessione sulla società di oggi e sulla necessità di compiere un cambiamento, non per gli altri, ma per noi stessi. Una canzone e un crocevia di storie che solo un’intervista all’autore, Fabio Gómez, poteva portare alla luce.

“Let Me Be” è il tuo nuovo singolo che in soli due mesi ha riscosso ottimi risultati con oltre 700.000 visualizzazioni su YouTube e una lunga serie di rotazioni in radio. Ti aspettavi questo successo o è stata una dolce sorpresa?

Quando si lancia un brano si ha sempre un po’ paura che non venga compreso, sono le paure dell’artista di sopravvivenza, istintive; se non ci fossero non ci sarebbe poi l’adrenalina, la sorpresa di vedere crescere ogni giorno sempre di più il numero degli ascolti. Ma aldilà dei numeri, l’obiettivo non è questo, ma è quello di arrivare alle persone reali in modo organico. In un periodo storico dominato dal fake, produrre contenuti di valore è il mio modo di distaccarmi il più possibile da questa realtà. Prima di capire quali scelte intraprendere per questo brano mi sono preso del tempo, una palestra artistica diciamo, e anche grazie alle numerose live su Facebook ho capito che per me l’interazione è la cosa fondamentale, significa saper comunicare con il proprio pubblico. Un altro fattore importante sono state sicuramente le persone che ho conosciuto nel mondo, in particolare una ragazza boliviana che tramite il padre è riuscita a inserirmi nel circuito delle piattaforme digitali del Sud America e la proiezione del videoclip mi ha sicuramente portato ad avere una visibilità più ampia.

Il brano racconta la storia di un uomo e la sua personale ricerca della libertà vissuta come una vera e propria conquista.  Da dove nasce questo forte desiderio di sentirsi liberi e cosa, invece, ti ha fatto sentire intrappolato?

Sono state tante le situazioni nella mia vita che mi hanno fatto sentire intrappolato, ma quando scrivo cerco di farlo in maniera universale senza riferimenti personali in modo tale che chiunque mi ascolti possa immedesimarsi. D’altronde chi non ha avuto una situazione di questa natura? Penso che un po’ tutti ci siamo trovati in relazioni in cui all’inizio ci sentivamo all’inizio coinvolti e nel tempo abbiamo poi capito che tutto ciò poteva lederci. Credo che ciò che conti in assoluto sia riuscire a mantenere la propria integrità in una relazione. Se una persona inizia a cambiare il tuo modo di essere, il tuo modo di comportarti e comincia a soffocarti, non è più amore, ma diventa oppressione, possessione, gelosia e comando. Penso che quando nell’amore manchi la fiducia, manchi il presupposto fondamentale per essere liberi. Libertà vuol dire che le due parti, le persone coinvolte, si sentano libere di esprimersi come meglio credono e riescano a trovare il loro spazio di libertà immensa dove poter essere completamente loro stesse. È quando ti ritrovi a camminare in una città come Parigi, o New York, dove puoi correre e passare dei momenti meravigliosi, che riesci a sentirti pienamente libero. Forse è proprio perché sono un sognatore ad occhi aperti che sono finito dall’altra parte del mondo per poter costruire una mia strada alternativa.

Nel testo emerge un altro tema importante: l’amore. “Love gave me the blues again”. Le tue parole descrivono questo sentimento con sofferenza e delusione: è questa la tua visione dell’amore?  

Nella lingua parlata inglese ci sono dei modi di dire diversi dai nostri e alcuni di questi riescono ad assumere un particolare significato, come quello che hai riportato. Il “blues” che tradotto significa “sofferente, malinconiconasce in realtà dal libro Spiritual come primo genere di musica profana portato avanti dalla comunità afroamericana ed è un genere meraviglioso che ha influenzato tantissima della musica che conosciamo. Il blues detta la linea di basso di tantissimi brani anche pop, a partire dai Beatles ai Rolling Stones. “Love gave me blues again” in quest’accezione prende sì il significato di delusione, ma è una parola ben più complessa. La prima strofa da cui è tratta questa frase descrive lo stato d’animo iniziale, ma già al ritornello si compie uno staccato completo, una forma di scelta radicale che dobbiamo essere in grado di prendere quando oltrepassiamo la linea della sofferenza perché capiamo che stiamo vivendo una situazione che va a intaccare il nostro equilibrio spirituale. È in quel momento che dobbiamo compiere delle scelte capaci di rivoluzionare tutto, e Let Me Be è l’espressione di questa scelta.

È vero che l’amore tante volte può portare a voler scappare, ma tante altre volte è proprio nella condivisione che vi si trova un senso di libertà. Questa visione dell’amore come ‘delusione’ deriva da un’esperienza personale?

Quando arrivi ad un certo grado di consapevolezza in cui riesci a capire cosa vuoi e cosa non vuoi per te stesso, arrivi anche al momento in cui devi essere in grado di compiere questa scelta, così che ti porti poi a trovare la condizione che realmente ti possa far crescere umanamente. Si tratta di un passaggio evolutivo forzato: la vita ti porta a vivere certe esperienze, ma è solo conoscendosi che si possono prendere tali decisioni. Se invece si rimane stagnanti, non ci si può lamentare poi della propria situazione.

New York è senza alcun dubbio la città dove per eccellenza “si è liberi di essere chi si vuole”: è questo il motivo che ti ha spinto a girare tra le location newyorkesi il videoclip del singolo? O esiste un legame più profondo con questa città?

In realtà hai azzeccato parte della storia perché New York è una città che gli stessi americani considerano “uno stato a sé”. È una città molto particolare perché è proprio a New York che la gente approda nel tentativo di cercare fortuna, è una città che funge da trampolino d lancio. Anche la storia ha molto a che fare con la Grande Mela, partendo dalla cinematografia che ha investito su questa città le più grandi storie momentanee: New York è come un amore estivo, dura il tempo che trova, ma è ricco di emozioni. Potremmo definirla come una città in continua evoluzione, un punto di passaggio che le persone sfruttano per poi stabilirsi in altri punti dell’America, come la California o la Florida. New York è sicuramente la città degli affari, magica ma anche crudele e i suoi grattacieli sono lo sfondo ideale per contenere tutte le storie che si intrecciano nel videoclip, a partire dai due ballerini dell’Accademia di Ballo di New York. Prima compagni di danza, poi compagni di vita e infine lo stesso amore per il ballo che li accomunava è stato la causa della loro divisione: lei sceglie il classico, lui la danza moderna. Ed ecco di nuovo la vita che ci porta a compiere delle scelte che in amore possono non essere condivise, ma amore significa anche accettare il cambiamento dell’altro e il bisogno di intraprendere strade diverse; amore è essere felici del successo dell’altra persona, anche se sono scelte non condivise. L’altra storia nella storia è quella di due amanti: una relazione che dura da troppo tempo e nella quale la ragazza, restando in balia di due amori e rifiutandosi di prendere una decisione fa scaturire la presa di coscienza nell’amante (impersonato da me nel videoclip). Lui capisce che è meglio andare via, deve allontanarsi da quella che è diventata un’ossessione e l’abbandono della città è la sua scelta radicale.

Sometimes it’s harder to hold on than to let go. Take a chance, make a change.” Queste sono le ultime parole che compaiono nel videoclip: è questo il tuo motto? Un invito a cogliere l’attimo?

L’ultima frase riguardo la scelta significa che a un certo punto nella vita è necessario concedersi la possibilità di vedere le cose da un altro punto di vista, di intraprendere altre strade e di dare un taglio a situazioni durate troppo.  La prima frase “a volte è più difficile trattenere le cose che lasciarle andare” è un campanello d’allarme che vuole far notare come la nostra sofferenza inizia proprio quando iniziamo a trattenere le cose, dapprima i pensieri. Se non lasciamo che il flusso scorra per una questione di gravità naturale, si rischia di entrare in conflitto con noi stessi, con il nostro passato e con il nostro futuro. Il mio motto è sempre questo: quel che è stato è stato, e non tornerà mai indietro.  È inutile rimuginare troppo sulle cose, ormai sono accadute o accadranno seguendo il loro corso. Non è più la realtà che stai vivendo, devi solo conviverci. Non bisogna avere paura del futuro, né farne un pensiero fisso perché la nostra mente crea in continuazione aspettative e dinamiche irreali. Ho smesso di impiegare il mio tempo mentale a pensare come sarà: progetto sì, ma se sarà tutto diverso vivrò il corso degli eventi con la stessa serenità. Un po’ come il videoclip che ho girato a New York, avevamo un piano di riprese, ma poi è andata diversamente perché ci siamo lasciati affascinare e guidare dal momento: bisogna essere aperti alla novità tenendo i piedi per terra e valutando sul campo cosa è possibile o sconveniente, per questo mi piace pensare di essere un sognatore ad occhi aperti, costantemente creativo, ma nel concreto. Un altro tema portante nella canzone, aldilà delle scelte radicali, è proprio la Sindrome di Stendhal moderna: la pervasività della digitalizzazione ci ha condotti in una silente ipnosi inconscia che ci ha legati ipnoticamente ai media. Il quadro di Stendhal moderno è questo, le persone ormai sono impressionate solo da immagini, video e distorcono la propria attenzione dal mondo reale e Let Me Be vuole essere un campanello d’allarme.

Sei nato in Svizzera, hai studiato a Chicago e poi a Sanremo, ma nel cuore hai anche del sangue spagnolo. Ti reputi un cittadino del mondo o esiste un luogo dove più di altri ti senti a casa?

Madrid è a tutti gli effetti la mia casa. È il luogo dove abita la mia famiglia con la quale ho un rapporto meraviglioso perché con il tempo hanno saputo capire chi sono. Ne conosco ogni rincón, lì mi trasformo e vivo una libertà totale. Un altro posto in cui mi sento a casa è sicuramente la Svizzera: vi ho vissuto moltissimi anni e ho anche dei parenti a Berna. Ecco, a Berna mi succede spesso una cosa magica, perché la sento come città di nascita e di ricerca a livello emotivo. Ad ogni arrivo per me è sempre un po’ inedita, nonostante la conosca molto bene, vi sento un tepore che mi ispira a livello emotivo e creativo; invece Lugano o il Ticino sono luoghi che hanno il potere di farmi rivivere il passato. Mi ritrovo come in un crocevia: Varese e il Ticino sono stati i miei luoghi di transizione e trasformazione, dai quali mi sono sempre allontanato. Eppure, quando sono lì, mi sento sempre a casa, riaffiorano con un po’ di nostalgia, i ricordi e la mia infanzia. La fortuna di essere cresciuto in Svizzera è stata la possibilità di vivere in un contesto multiculturale nel quale i ragazzi crescono accompagnati da più culture che li proiettano verso nuovi orizzonti. Anche se eravamo giovani, a vent’anni avevamo già una mente bohémienne, cosmopolita con una percezione della diversità totale che ne fa derivare umiltà. Per fare strada bisogna aprire la mente su altri e più orizzonti.

“Let me be” è stato un bel successo. Hai già in mente il prossimo singolo? 

Per farla breve: sarà una sorpresa, non voglio svelare nulla! Posso dire che sto già lavorando a un nuovo singolo la cui uscita è prevista per ottobre o novembre, dipende molto dall’andamento della pandemia che purtroppo ha determinato tante scelte costrittive per tutti gli artisti. Sicuramente ripartirà il mio tour mediatico nel Sud America, mentre a maggio uscirà la versione spagnola di Let Me Be con la stessa melodia. ma con variazioni nel canto e nell’arrangiamento.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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