Il male di vivere e perire con gusto ovvero Leopardi a tavola

Il male di vivere e perire con gusto ovvero Leopardi a tavola

Il male di vivere e perire con gusto ovvero Leopardi a tavola

Non è certo noto per la sua allegria o la vita mondana, ma Giacomo Leopardi sembra un’altra persona quando si parla di cibo. Se davvero siamo quello che mangiamo, come inquadrare la più brillante mente filosofica dell’Italia dell’Ottocento?

Sebbene Giacomo Leopardi non fosse proprio il manifesto della felicità e dell’ottimismo, non rinunciava ai piaceri del cibo. Scrisse nello Zibaldone a proposito del mangiare: “occupazione interessantissima la quale importa che sia fata bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il benessere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo”. Frase che detta da chi ha elaborato i concetti di pessimismo storico e di pessimismo cosmico assume tutto un altro fascino.

Il suo rapporto con il cibo era di godimento e gusto. Scrisse infatti una lista di quarantanove pietanze che amava particolarmente, fra cui frittelle di riso, carciofi fritti nel burro, zucca fritta, pane dorato, cervelli fritti, ricotta fritta, pasta sfoglia, polpette, paste frolle, capellini al burro, pasticcini di maccheroni di grasso e di magro, bodin di latte, riso al burro, patate al burro, purè di fagioli, latte a bagnomaria, latte fritto. Sì, latte fritto. Che non è molto diverso dalla nostra crema fritta, o no?

La lista leopardiana serve da pretesto a Domenico Pasquariello e ad Antonio Tubelli, artista il primo e cuoco il secondo, per raccontare in un libro, seguendo il ritmo delle stagioni, le atmosfere e i sapori della Napoli del primo trentennio dell’Ottocento, in cui si collocano episodi e suggestioni relativi agli ultimi anni di vita di Giacomo. A conclusione venti ricette ispirate alla lista. Il volume, pubblicato nel 2008 e da poco ristampato, si chiama Leopardi a tavola ed è edito da Fausto Lupetti.

Non è che Leopardi mangiasse proprio sano, e avendo una salute cagionevole questo era un problema. Scorrendo l’elenco si nota che manca completamente la carne: non perché non l’amasse, ma perché l’elenco del poeta rispecchia alla perfezione quella che era la dieta dell’epoca. Un’alimentazione ricca di carboidrati, in cui le proteine derivavano principalmente dalle uova, dalle frattaglie, dai formaggi e in rari casi dal pesce.

Eravamo un popolo che consumava prevalentemente pane e vegetali, dove la carne faceva la sua comparsa (se la faceva) a domeniche alterne: nel primo decennio del Novecento il consumo di carne era di appena quindici chili pro capite all’anno, contro gli oltre duecento chili di pasta e pane. Negli anni del boom economico, improvvisamente, il consumo di proteine è salito in maniera esponenziale: la carne da un decennio all’altro – dagli anni Sessanta agli anni Ottanta – aumenta di ben venti chili pro capite.

Leopardi mangiava tantissimo gelato, tanto che sembra che non abbia voluto allontanarsi da Napoli durante il colera proprio per non rinunciare ai gelati di Vito Pinto alla Carità, famosissimo gelataio partenopeo dell’epoca. Inoltre beveva moltissimo caffè, zuccheratissimo, che amava sorseggiare ai tavoli del Caffè d’Italia in Piazza San Ferdinando. Era goloso, senza orari, capriccioso, e sembra che negli anni di Napoli sublimasse con il cibo gli altri piaceri che gli erano negati. Un po’ come noi fra marzo e maggio dell’anno scorso, quando blindati in casa senza possibilità di vedere i nostri affetti ci siamo lanciati su pacchi di patatine e barattoli di gelato.

Era malato, certo, ma Leopardi viveva una vita abbastanza disordinata, dormendo di giorno e svegliandosi solo nel tardo pomeriggio. Chiedeva che gli servissero la colazione al pomeriggio e il pranzo a un’ora variabile tra le dieci di sera e mezzanotte. Nonostante la salute, non seguiva le prescrizioni dei medici: se questi gli ordinavano di non mangiare carne, decideva immediatamente di “perire di pesci e di vegetali”. Quando invece gli prescrivono una dieta di grassi, non ne vuol più sapere di pesce e verdure, dichiarando allegramente di voler “perire” con l’abbuffarsi di lessi e col sorbire brodi densi come la panna.

E di cos’è morto Giacomino? Forse non di colera. Secondo uno studio del professor Cesaro, pare sia morto per aver mangiato un chilo di confetti. Inoltre, forse per attenuare gli effetti dell’indigestione, gli era stata data una tazza di brodo caldo di pollo e una limonata fredda: una miscela rivelatasi micidiale, che avrebbe provocato – in aggiunta – una congestione intestinale.

Vivere male, ma perire con gusto. In fondo, non è forse di dolciumi che avremmo tutti voluto morire da bambini?

di Gaia Rossetti

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

Equilibrio e tradizione: a tavola con Picasso

Equilibrio e tradizione: a tavola con Picasso

Equilibrio e tradizione: a tavola con Picasso

Se Leonardo da Vinci ci aveva rivelato tante sorprese (qui), figuriamoci cosa avrà combinato Pablo Picasso. E invece no. Serietà, rispetto e semplicità sono i termini che Picasso ha voluto accostare al suo rapporto con il cibo.

Picasso aveva con il cibo un ottimo rapporto: non ne era ossessionato, ma lo gustava con gioia convinto che fosse il cuore pulsante della casa. Cosa mangiava Picasso? Grasso e ciccia? Piatti sofisticati? No, è molto sobrio nelle sue scelte e predilige piatti ricchi di vegetali e senza eccessi. Ciò che predilige sono le tipicità territoriali cucinate in maniera semplice perché odia fare sfoggio delle sue disponibilità economiche, perciò anche a tavola si contiene.

Nel suo periodo a Barcellona, frequenta spesso il locale (ancora esistente) Els 4 Gats, dove si tenne la sua prima mostra e dove Woody Allen girò alcune scene di Vicky Cristina Barcelona. Il fotografo David Douglas Duncan, una sera a cena, lo ritrae in una foto che diventa iconica. Picasso stava mangiando una sogliola alla mugnaia mentre ripulisce una lisca di pesce: aveva sfilettato la sogliola con l’idea di immortalarne la lisca e Duncan documentò le fasi velocissime della creazione.

Picasso amava anche il vino, e parecchio. Ma anche in questo caso era molto sobrio e, nonostante amasse particolarmente condividere le sue bottiglie con gli amici, lo faceva per il piacere della convivialità e non per aprire bottiglie che sottolineassero la sua ricchezza.

Le opere di Picasso che ritraggono del cibo sono circa duecento e nel 2018 a Barcellona ci fu una mostra intitolata La cucina di Picasso, volta a celebrare proprio il legame fra l’artista e il cibo.

Una delle locandine della mostra

Una vita in cui il cibo è un elemento cardine, ma non un’ossessione. Un modo molto differente di intenderlo rispetto ad altri artisti e uomini di lettere, ma comunque non comune e interessante. Come, d’altronde, tutto ciò che racconta questo genio dell’arte.

di Gaia Rossetti

Gabriele D’Annunzio e l’odi et amo per il cibo

Gabriele D’Annunzio e l’odi et amo per il cibo

Gabriele D’Annunzio e l’odi et amo per il cibo

Digiuni mistici, ma anche grandi abbuffate di dolciumi. Il rapporto di D’Annunzio con il cibo era conflittuale, ma decisamente sui generis.

Nato a Pescara, in Abruzzo, Gabriele D’Annunzio era molto affezionato alla cucina della sua terra. Non era particolarmente ingordo, però aveva il pensiero che nutrirsi fosse un atto meschino e grossolano che gli suscitava repulsione. Infatti, nel cibo ricercava un coinvolgimento emotivo. Essendo un esteta, ciò che gli premeva era che il cibo fosse bello da vedere e che i colori regalassero armonia al piatto.

Mi sembra più bestiale riempire il triste sacco, rifocillarmi, che abbandonarmi all’orgia più sfrenata e più ingegnosa – G. D’Annunzio

Pare, però, che uno dei motivi per cui a D’Annunzio faceva ribrezzo mangiare fosse che aveva i denti rovinatissimi e neri, che non si era mai voluto curare. Per questo si imbarazzava a masticare davanti ad altre persone. Inoltre, si annoiava a stare seduto a lungo a tavola, così dovette inventare uno stratagemma per convincere gli ospiti a mangiare poco: un giorno, la marchesa Luisa Casati Stampa gli regalò una gigantesca tartaruga africana, che D’Annunzio chiamò Cheli. Cheli però morì per indigestione di tuberose e D’Annunzio ne fece fare una riproduzione identica dallo scultore Renato Brozzi, così da poterla sistemare con il guscio vero a capotavola della sua sala da pranzo detta, appunto, “Stanza della Cheli”. La tartaruga fissava gli ospiti e serviva per ricordare loro di non mangiare troppo, o avrebbero fatto la stessa fine.

Aveva una bellissima cantina ben rifornita, nonostante fosse astemio, una ghiacciaia – cosa rarissima all’epoca – e una cucina grandissima, ma soprattutto una cuoca. Nulla di strano per ora, eppure è qui che arriva il bello: la sua cuoca è forse l’unica donna al mondo con cui lui abbia avuto a che fare senza portarla a letto.

Chi è costei? Albina Lucarelli Becevello. O Cuoca Pingue. O Suor Intingola. O Suor Indulgenza Plenaria. O Suor Ghiottizia. Tutti nomi che D’Annunzio usava per rivolgersi alla sua cuoca di origini venete che si era dimostrata disponibile per servire tutte le sue richieste stravaganti. E in termini di stravaganza, beh, nessuno batte il Vate. Le lettere che D’Annunzio lasciava a Suor Intingola sono praticamente altre opere letterarie:

Cara Albina, da otto giorni non chiavo. Inutile che tu mi mandi gli zabaioni non avendo bisogno di raddrizzare la schiena. Mandami piuttosto una mona sottile – G. D’Annunzio

E questo è solo uno dei tanti bigliettini di dubbia moralità che il poeta lasciava alla sua cuoca, raccolti per Utet da Maddalena Santeroni e Donatella Miliani nel volume La cuoca di D’Annunzio. D’Annunzio voleva che la sua cuoca abbinasse le pietanze alle amanti del momento: un giorno le ordinò una colazione per “una foresta che è capitata sotto i miei artigli”, un altro “un piatto freddo col polpettone magistrale per una donna bianca sopra un lino azzurro”. “Una sublime pasta di pomodoro per un’amica molto ghiotta” o ancora “un sublime risotto alla milanese per una vera meneghina che lo colloca fra le bonissime cose del basso mondo”.

Amava moltissimo la frutta perché riteneva avesse un carattere erotico, ma gli piacevano anche le uova (ne mangiava circa cinque al giorno) e le frittate, le costolette, il riso e tutti i tipi di pesci. E poi amava i dolci: mandorle tostate, cioccolato, marron glacé. Mangiava anche dieci gelati di seguito. Però poi faceva anche tre giorni di seguito di digiuno – un’alimentazione non proprio equilibrata, che farebbe rizzare i capelli anche al più old school dei dietologi.

Buongustaio, certo, ma pur sempre un poeta. Per questo, a lui si deve la creazione di molti nomi legati al mondo della gastronomia: fu lui a dare il nome “Saiwa” alla celeberrima fabbrica di biscotti, così come lo diede al dolce abruzzese “parrozzo” (una sorta di zuccotto natalizio di mandorle coperto di cioccolato) e al tramezzino, che invece il futurista Marinetti avrebbe voluto chiamare “tra i due”. Ma questa è un’altra storia.

di Gaia Rossetti

Quando la gastronomia fa la storia: l’Unesco e il cibo italiano

Quando la gastronomia fa la storia: l’Unesco e il cibo italiano

Quando la gastronomia fa la storia: i patrimoni Unesco legati al cibo italiano

Se sono le nostre azioni a determinare chi siamo, allora è altrettanto vero che “siamo ciò che mangiamo”. L’Unesco lo sa e ha inserito questi elementi dell’italianità nella lista dei suoi patrimoni.

I siti patrimonio Unesco nel mondo sono 1.067 e l’Italia, con ben 54 targhe, detiene il primato assoluto superando la Cina e la Spagna. Un record che ci fa onore e che tiene conto di una parte fondamentale della nostra cultura: l’alimentazione. O meglio, la ritualità a essa legata. Ebbene sì, perché non basta una pietanza a far alzare le orecchie all’Unesco, ma tutto il suo contorno. L’Organizzazione annovera in questa lista le tradizioni, le espressioni orali, l’arte e l’artigianato locali che esprimono il genius loci di un determinato angolo del mondo e tutte quelle attività che ne favoriscono l’affermazione, la trasmissione e la conservazione. Azioni umane distintive di un luogo e una cultura, in poche parole. Vediamo allora quali sono le eredità italiane patrimonio immateriale dell’umanità.

L’arte del “pizzaiuolo” napoletano

L’arte del pizzaiolo napoletano era stata oggetto di una petizione nel 2015 e due anni dopo si è conquistata l’ambito riconoscimento. Una tradizione trasmessa da maestro ad apprendista all’interno delle botteghe, oltre che molto diffusa a livello domestico, e che ha una precisa funzione sociale di aggregazione e condivisione. Il sito dell’Unesco sostiene che “la preparazione della pizza alimenta la convivialità e lo scambio intergenerazionale e assume il carattere di spettacolarizzazione con il Pizzaiuolo al centro della bottega mentre mostra la sua arte”.

Sono oltre tremila i pizzaioli attivi oggi a Napoli e Coldiretti stima che l’ingresso dell’arte della pizza nell’elenco delle Nazioni Unite abbia contribuito sensibilmente all’aumento della produzione del fatturato legati a questo prodotto: dopo il riconoscimento Unesco, infatti, si contano 127mila pizzerie rispetto alle 125.300 censite nel 2015.

La coltivazione della vite di Zibibbo ad alberello di Pantelleria

La vite ad alberello è parte integrante del paesaggio tipico dell’isola siciliana di Pantelleria, esattamente come lo sono le spiagge rocciose e i famosi dummusi, le abitazioni in pietra. Diretta conseguenza del clima fatto di sole, vento forte e scarse risorse idriche, la coltivazione della vite dello Zibibbo da cui si ricavano i celeberrimi passiti di Pantelleria segue ancora oggi la tecnica antica ed è celebrata da riti e festeggiamenti che animano l’isola da giugno a settembre.

Il procedimento prevede che lo stelo della vite venga piantato all’interno di una conca e accuratamente tagliato affinché produca sei rami in forma di alberello. Tenuto basso da una buona potatura, questo arbusto viene protetto da terrazzamenti di pietra: la stessa pietra che viene rimossa dal suolo prima della piantagione. Un metodo di coltivazione sostenibile che coinvolge circa 5mila abitanti e che nel 2014 è stato ufficialmente dichiarato patrimonio culturale dell’umanità.

La dieta mediterranea

L’iscrizione all’Unesco della dieta mediterranea, modello alimentare e simbolo della tradizione enogastronomica italiana e non solo, risale al 2013. Oltre all’Italia, la dieta mediterranea coinvolge infatti anche altri Paesi come Cipro, la Croazia, la Spagna, la Grecia, il Marocco e il Portogallo. E oltre al cibo – composto principalmente di grano, pesca e allevamento – l’Unesco riconosce alla dieta mediterranea anche il merito della convivialità. Non è solo ciò che si porta in tavola ad essere importante, quanto lo è invece la modalità con cui viene consumato: mangiare tutti insieme è la base per la creazione di un’identità comune, di una socialità estesa che va oltre le barriere di genere, età e provenienza. La dieta mediterranea enfatizza i valori dell’ospitalità, della vicinanza, del dialogo interculturale e della creatività, e un modo di vivere guidato dal rispetto per la diversità”. In questo caso, quindi, il patrimonio non è nel singolo prodotto, ma nell’esperienza e in quello che porta con sé, compresi il rispetto per la stagionalità degli alimenti e la tutela di usanze e tradizioni artigiane correlate (come, ad esempio, quella della produzione ceramica di piatti e oggetti da cucina).

Langhe-Roero e Monferrato: i paesaggi vitivinicoli del Piemonte

Culla del vino rosso per eccellenza, quest’area conserva ancora oggi il patrimonio della produzione vitivinicola piemontese. Tra i vanti della regione spiccano in particolare il Barolo, il Barbaresco, il Barbera d’Asti e l’Asti Spumante, tutti originali della zona che comprende la Langa del Barolo, il Castello di Grinzane Cavour, le colline del Barbaresco e il Monferrato con i tipici infernòt, locali sotterranei scavati nella roccia arenaria e destinati alla conservazione delle bottiglie. Una concentrazione di tradizione e gusto che trova anche nel paesaggio conferma della sua ricchezza: dolci colline ricoperte di vigne costellate da torri e castelli medievali, l’incontro perfetto tra storia, natura e artigianato.

La città di Parma, prima italiana nella rete delle città Unesco

La rete delle città creative dell’Unesco – divisa nei sette settori culturali di Musica, Letteratura, Artigianato e Arte popolare, Design, Media Arts, Cinema e Gastronomia – è stata fondata nel 2004 con l’obiettivo di incentivare la collaborazione tra i comuni più virtuosi per uno sviluppo urbano sostenibile. Sono settantadue i paesi che rientrano nella rete e l’Italia può contare su due città afferenti all’area della gastronomia, in cui il cibo diventa fattore e motore di impresa e la sua cultura è al centro delle politiche di crescita locale.

La prima è Parma, in un certo senso la patria del cibo italiano patrimonio dell’Unesco. La città emiliana è stata identificata come sede di un’eccellenza e di un patrimonio agroalimentari unici, salvaguardati e raccontati dall’imprenditoria locale. Sono le aziende come Barilla, Mutti, Parmalat e dai vari consorzi del Parmigiano, del Prosciutto e del Culatello a ottenere di recente che fosse proprio Parma la sede del IV Forum dell’Unesco sulla cultura alimentare.

Alba, la città del tartufo bianco e delle nocciole

Anche Alba fa parte del network delle città creative Unesco per la sua ricca tradizione enogastronomica. Tre i prodotti simbolo della capitale delle Langhe:

  • Il tartufo bianco d’Alba, per cui è nota in tutta il mondo e che attira visitatori sia dall’Italia che dall’estero;
  • Le nocciole piemontesi, con cui vengono create numerose specialità locali a cominciare dal gianduiotto fino al torrone, passando per la Nutella;
  • La toma, formaggio tipico delle Langhe che ben si accompagna ai numerosi vini locali, simbolo dell’arte casearia che caratterizza tutta la zona.

Non stupisce, quindi, che la regione in cui sono nate esperienze come quella di Slow Food e dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo sia sinonimo di creatività e innovazione culinaria.

E ora?

La lista dei cibi e delle tradizioni italiane legate all’Unesco non può certo terminare qui. Non a caso, siamo ancora in attesa del verdetto sul prosecco, candidato di recente come possibile Patrimonio dell’Umanità: la bollicina presenterebbe infatti tutti i requisiti per essere inclusa nella lista, grazie alla riqualifica del territorio e all’economia veneta avvenute con il nascere di questa produzione.

Prosecco, ma non solo. È stato avviato anche un progetto per il riconoscimento dell’amatriciana, una delle ricette più dibattute degli ultimi tempi, nonché il faro di speranza per la popolazione colpita dal terremoto tra 2016 e 2017. Lo stesso varrebbe per il caffè espresso, poiché in Italia se ne consumano tre miliardi di tazzine al giorno, la filiera dà lavoro a 10.000 addetti e vale 5 miliardi di euro. Tre realtà che ci rendono orgogliosi di ciò che siamo, ma soprattutto di quello che mangiamo.

di Gaia Rossetti

Ginnaio: a Treviglio in scena il festival del gin!

Ginnaio: a Treviglio in scena il festival del gin!

Ginnaio: a Treviglio in scena il festival del gin!

Il 27 e 28 gennaio 2023 arriva a Treviglio Fiera (BG) il festival dedicato ai produttori di gin e distillati italiani

La manifestazione – organizzata da VALe20 – Eventi e Comunicazione – andrà in scena venerdì 27 gennaio dalle 18 alle 2 e sabato 28 gennaio 2023 dalle 16 alle 2 di presso il polo fieristico di Treviglio (BG), un’area espositiva collocata a pochi metri dalla stazione centrale dei treni di Treviglio e dotata di più di 1000 posti auto gratuiti adiacenti alla struttura.
Con i 20 produttori provenienti da tutta Italia e le oltre 100 etichette proposte, Ginnaio punta a diventare un evento di riferimento per tutti gli appassionati dei gin e distillati italiani.
Durante la due giorni, i partecipanti potranno degustare liberamente i gin in purezza e i distillati a fronte del pagamento di un biglietto di ingresso in fiera di 10 euro (6 euro in prevendita attiva fino alle 23.59 del 26/01/2023).
A Ginnaio, i partecipanti avranno la possibilità di sorseggiare cocktails a base di gin (e non solo) lasciandosi trasportare dalla musica coinvolgente proposta dai nostri Djs.

Ginnaio offre inoltre la possibilità di acquistare le bottiglie di gin e distillati direttamente dal produttore mantenendo alto il rapporto qualità-prezzo, con il vantaggio di conoscere di persona la filiera del bene acquistato.
Per gli amanti del cibo di strada saranno presenti food trucks, vere e proprie cucine su ruote, che soddisferanno anche i palati più esigenti con le loro golose proposte culinarie.
Per la gioia di grandi e piccini, come in tutti gli eventi firmati VALe20 – Eventi e Comunicazione, nella giornata di sabato 28 gennaio dalle 17 alle 22, sarà presente il mini club gratuito dove poter lasciare i bambini in tutta serenità mentre gli adulti si godono il giro in fiera.
Con questa grande proposta, Ginnaio vuole sia posizionarsi come un evento di alto livello con produttori pluripremiati, ma allo stesso tempo vuole essere un evento dedicato a tutti e soprattutto alla portata di tutti.