Il primo “virtual human” made in italy per la lingua dei segni italiana

Il primo “virtual human” made in italy per la lingua dei segni italiana

Il primo “virtual human” made in italy per la lingua dei segni italiana

La LIS approda ufficialmente nella contemporanea rivoluzione tecnologica grazie ad un assistente virtuale empatico ed avveniristico utile a promuovere una reale accessibilità per tutti i cittadini.

Il linguaggio, prima di significare qualcosa, significa per qualcuno”: le parole dello psicanalista e filosofo francese Jacques Lacan mettono in risalto l’importanza di un concetto che, nella maggior parte dei casi, viene riconosciuto come un insieme di parole. In questo caso specifico, però, non sono le parole a fare la differenza, bensì i segni perché l’attenzione è totalmente focalizzata sulla LIS, ovvero la Lingua dei Segni Italiana. Quest’ultima, dopo essere stata riconosciuta ufficialmente dallo Stato il 19 maggio 2021, può aggiornare la propria storia con una nuova data. Si tratta del 17 gennaio 2023, giorno in cui la stessa LIS abbraccia ufficialmente la contemporanea rivoluzione tecnologica grazie al lancio del primo virtual human in Italia capace di produrre e comprendere i segni della lingua che, al giorno d’oggi, è conosciuta da circa 100mila persone su scala nazionale. Com’è possibile? Grazie all’intelligenza artificiale che rende l’innovazione estremamente empatica. Dietro alla realizzazione di questo assistente virtuale avveniristico c’è QuestIT, company nata come spin-off dell’Università di Siena, che per l’occasione ha stretto una partnership strategica proprio con il Santa Chiara Fab Lab dell’Ateneo toscano e con il Consiglio Nazionale delle Ricerche. “Per innovare il presente serve tanta ricerca e, soprattutto, la tecnologia giusta – afferma Ernesto Di Iorio, CEO di QuestIT – Per questo motivo abbiamo sfruttato le incredibili potenzialità dell’intelligenza artificiale per strutturare un avatar di ultima generazione che conosce alla perfezione la Lingua dei Segni Italiana. Grazie ad esso, potenziamo la «digital accessibility» e diamo l’opportunità ai cittadini sordi di accedere autonomamente ad informazioni e servizi offerti da enti e realtà del territorio come la Pubblica Amministrazione e le banche, ma i potenziali campi d’applicazione sono innumerevoli: dall’organizzazione degli appuntamenti negli ospedali alla spiegazione di mostre o eventi culturali nei musei fino al chiarimento di materie o singoli concetti nelle scuole o nelle aule universitarie”.

Attualmente il virtual assistant può essere inserito all’interno di siti web, applicazioni, sistemi proprietari e persino totem interattivi. Una volta che la persona in questione si presenta dinanzi allo schermo e inizia ad interagire a suon di segni, l’invenzione analizza le espressioni facciali del singolo, oltre ai suoi movimenti, e risponde utilizzando la LIS. In questo modo è in grado di offrire consulenze mirate ed efficaci, a seconda del contesto di riferimento, ai clienti sordi. Ma non finisce qui, infatti, sono previste a stretto giro una serie di lavorazioni utili a perfezionare lo stesso umanoide. “Stiamo già lavorando su quello che può essere l’evoluzione della tecnologia – aggiunge Di Iorio – L’obiettivo è quello di offrire un avatar capace di tradurre simultaneamente le parole in segni. Già oggi, dopo una prima fase di training, è in grado di gestire le richieste della clientela in totale autonomia e offrire così l’assistenza di cui le persone necessitano. Per l’organizzazione di questo progetto così ambizioso non potevamo che coinvolgere il Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive dell’Università di Siena oltre all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Consiglio Nazionale delle Ricerche e al Gruppo per lo studio e l’informazione della Lingua dei Segni Italiana”.

Una volta ultimate le presentazioni, QuestIT, in compagnia di IgoodI, avatar factory italiana, ha premiato anche il vincitore dell’Avacontest, anzi la vincitrice, ovvero Sarah Balestrieri. La giovane, insieme ad altri cittadini provenienti da tutta Italia, ha preso parte all’iniziativa che ha visto i singoli partecipanti tramutarsi in avatar e, oltre a vincere 2.500 euro, diventerà anche testimonial di imprese ed enti pubblici del territorio sotto forma di assistente virtuale.

Chi cerca, trova: alla scoperta di cinque proverbi italiani

Chi cerca, trova: alla scoperta di cinque proverbi italiani

Chi cerca, trova: alla scoperta di cinque proverbi italiani

I proverbi, perle di saggezza popolare, rientrano ormai nel linguaggio comune. Ma ci siamo mai chiesti come sono nati? Scopriamo l’origine di cinque di loro più da vicino!

Linguaggio è sinonimo di cambiamento. Non esiste, infatti, niente che possa eguagliarlo nella sua incessante attività di evoluzione: è un organismo che assorbe e si arricchisce di tutte le istanze che lo circondano.
Come qualunque liquido assume la forma del recipiente che lo contiene, così la lingua si adatta naturalmente alla propria epoca di appartenenza.
Adattarsi però significa portare dietro una parte di sé in un ambiente nuovo, custodirla e darle nuova linfa. Da qui, l’inserimento di antichi proverbi nei più disparati contesti della nostra vita quotidiana e la loro capacità di risultare perfettamente calzanti.
Interessanti spunti di riflessione, moniti severi, saggi consigli, di generazione in generazione sono sopravvissuti fino ad oggi. Nonostante tutti li conoscano e li utilizzino, pochissimi conoscono la loro origine.
Ecco, quindi, un curioso approfondimento su cinque dei proverbi italiani più famosi!

 

CAMPA CAVALLO CHE L’ERBA CRESCE!

Questo proverbio, che suona come un invito alla pazienza o, piuttosto, alla rassegnazione, deriva da una favoletta popolare. La storia narra di un tale che trascinava per le briglie il suo vecchio cavallo, ormai stanco e digiuno, lungo una strada acciottolata e priva di vegetazione. Ogni volta che l’animale sembrava sul punto di cedere e spirare, l’uomo lo spronava, pregandolo di resistere fino a che l’erba non fosse cresciuta per saziare la sua fame spietata.

CHI VA A ROMA, PERDE LA POLTRONA!

L’espressione originale di questo detto, che affonda le sue radici nella Spagna del XV secolo, risulta essere: “Quien va a Sevilla, pierde su silla!”. Si racconta che, durante il regno di Enrico IV di Castiglia, Alonso III de Fonseca fu nominato arcivescovo di Compostela, mentre suo zio, Alonso I de Fonseca, possedeva l’arcivescovado di Siviglia. A quel tempo, scoppiando numerose rivolte in Galizia, Don Alonso I decise di raggiungere il nipote per occuparsi della situazione spinosa al suo posto e lasciargli l’unico onere di amministrare la sede sivigliana in sua assenza. Tuttavia, al suo ritorno scoprì sfortunatamente che il nipote non era più disposto a restituirgli l’incarico, spingendo sia re Enrico sia papa Niccolò V a intervenire per risolvere la disputa. Quando finalmente il giovane tornò a Compostela, dovette scontare cinque anni di carcere per il reato commesso.

IL GIOCO NON VALE LA CANDELA!

Esistono tre diverse ipotesi legate a questo proverbio, che rimanda all’ambiente francese di fine ‘500. La prima, relativa al mondo religioso, vede la sostituzione del termine “gioco” con “santo” e si riferisce a coloro che, non essendo ritenuti in grado di fare grandi miracoli, non meritavano neanche l’accensione di un cero. La seconda riguarda l’usanza di ridurre il testo degli spettacoli teatrali al fine di far coincidere lo svolgimento con la durata dell’illuminazione. L’ultima, la più accreditata, ha attinenza con l’abitudine dei giocatori di carte di pagare l’oste per risarcirlo delle candele che erano state consumate nell’arco della serata. Talvolta, la posta in gioco era così irrisoria che la vincita non sopperiva alla spesa.

IL MATTINO HA L’ORO IN BOCCA!

Molti potrebbero pensare che questa massima sia frutto della consuetudine, propria dei nostri antenati, di iniziare a lavorare presto… Beh, niente di più sbagliato!  La sua provenienza risale a una vecchia tradizione siciliana. La notte precedente la festa di fidanzamento della figlia maggiore, veniva nascosto un gioiello d’oro nella bocca di uno dei “mascheroni” delle fontane del paese. La mattina successiva, le ragazze nubili della zona iniziavano una frenetica caccia al gioiello, lasciapassare per un’altrettanta rapida promessa amorosa. Ovviamente, alzarsi per prime implicava maggiori possibilità di riuscita. Insomma, tutta questione di “luccicanza”… (a buon intenditor, poche parole!).

SPOSA BAGNATA, SPOSA FORTUNATA!

Ultimo, non per importanza, ma per restare in tema amore-promesse-matrimoni, è questo proverbio che rievoca le credenze del ceto contadino, configurandosi come un augurio di prosperità e felicità. Nel mondo agricolo la donna era considerata forza creatrice, trasposizione umana della potenza generatrice della Terra. Da qui, l’idea che la sposa, proprio come il terreno, se bagnata dalla pioggia, sarebbe potuta diventare più fertile, gravida di una prole abbondante. L’arrivo del temporale il giorno del matrimonio, dunque, diventava segno inequivocabile dell’imminente ampliamento della famiglia.

 

Di Ilaria Zammarrelli