I tabĂą duri a morire

I tabĂą duri a morire

I tabĂą duri a morire

Un viaggio tra sacro e profano. Tra personale e sociale.

In origine il tabù, dal polinesiano tapu, era la condizione di un oggetto o di una persona isolata, vietata e considerata pericolosa al solo contatto. Era un qualcosa in grado di infettare con la propria profanità. Si contrapponeva al mana, considerata invece come la parte sacra, più alta e pura. Violare un tabù significava avvicinarsi a qualcosa di ripugnante e proibito, per questo infrangere tale confine aveva come conseguenza il biasimo e il giudizio da parte dell’intera comunità di appartenenza. Tale timore era così forte da non permettere neanche di nominare l’argomento incriminato, ed è così che poi si sono evoluti i tabù fino al giorno d’oggi.

Si è passati da azioni profane ad argomenti di cui non si poteva parlare nei salotti delle persone per bene, per non violare il buon costume e la morale condivisa. Ci si sposta quindi più verso un piano comunicativo e quasi si abbandona il piano delle azioni. Il fulcro non è più non fare qualcosa, ma diventa non parlarne, non portare l’argomento sotto gli occhi di tutti. Il tabù si evolve, si trasforma, non è una questione di sacralità ma di moralità sociale, quasi come a dire può anche essere fatto, basta che non se ne parli e non venga ostentato, ma nascosto e negato.

Detto questo, mi sono domandata a lungo quali potessero essere i tabù contemporanei, e per ogni punto dell’elenco mi balenava in testa un “sì, ma”. Quindi la risposta che mi sono data è stata infine quella che i tabù esistono sì, ma a metà, si sono svuotati del loro significato più profondo, sono rimasti come involucri di loro stessi. Ho la percezione che nella nostra società oramai quasi nulla possa essere considerato effettivamente come tabù allo stato puro. Nel dibattito pubblico, sui social, tra gruppi di amici, si parla di qualsiasi cosa, in mille maniere diverse, bene o male, che sia per divulgazione o per protesta, per indignazione o difesa, comunque, si riesce a parlare di tutto. Quegli argomenti tradizionalmente considerati intoccabili ora più che mai vengono dibattuti in modo sdoganato. Che sia di sesso, di corpi, di argomenti queer, di soldi o di restrizioni alimentari. Tutto è dialogo o dibattito. Ma come ne parliamo effettivamente? Ne parliamo in generale, in modo sociale e con una vista di insieme, a volte superficiale. Ma forse è sul piano personale che è rimasta quella vena di giudizio, di timore e di peccato che tanto si rifà al concetto originario di tabù.

I TABĂ™ CONTEMPORANEI A METĂ€

Partiamo dal sesso, il più classico dei tabù, come società, siamo saturi di sesso, siti pornografici, pagine di sessuologia, profili di influencer e attivisti che promuovono sex toys di tutte le forme e i colori. Ma quando se ne parla tra amici? O scenario ancora più imbarazzante, in famiglia? Non riusciamo ad essere così sfacciati, così liberi e diretti. Chiedere in maniera disinvolta quali siano le posizioni preferite di qualcuno o come proceda la vita sessuale di qualcun altro non è così semplice. E sfido chiunque a rispondere in maniera altrettanto calma e serena, senza arrossire neanche un po’ o senza mandare cordialmente a quel paese il proprio interlocutore.

Passiamo poi al denaro, altro grande classico tra gli argomenti scomodi. Essendo una società capitalista, i soldi, sono il fulcro di tutto il nostro mondo, discutiamo su come gestirli, su come aumentare il nostro patrimonio e di come il flusso monetario influisca direttamente sull’andamento di intere nazioni. Ma il punto è sempre lo stesso, in una normale conversazione saremmo a nostro agio a chiedere l’ultima busta paga di un nostro amico? Saremmo in grado di parlare senza un po’ di vergona o pudore dell’estratto conto della nostra carta di credito? Io personalmente no, alla sola idea mi imbarazzo dei miei acquisti e delle mie entrate da studentessa precaria.

Per finire vorrei soffermarmi sulla salute mentale, uno dei tabù più interessanti e complessi a mio parere. Quando si parla di questo argomento ci sono forti divisioni, soprattutto in base alla generazione d’appartenenza e al contesto sociale. Si creano quindi delle microbolle, dei diversi ecosistemi dove la discussione è estremamente variegata. Da quella che è la mia esperienza personale si passa quasi da un estremo all’altro, nella mia cerchia sociale più stretta, ad esempio, siamo tutti in terapia e ne parliamo tranquillamente e liberamente. Anzi forse a volte fin troppo, fino quasi a creare delle scene surreali alla Woody Allen. Intere conversazioni e simposi con i resoconti delle rispettive sedute, degli approcci clinici delle nostre psicologhe e viaggi psichedelici nelle profondità dei nostri inconsci. Da una semplice birra con gli amici si passa insomma a una terapia di gruppo. Non sempre leggero, ammettiamolo.

Al contrario invece mi sembra di percepire che chi non ha mai fatto esperienza di questa cosa abbia ancora addosso il pregiudizio del “dallo psicologo ci vanno solo i matti”. Perché ammettere di andare da un terapeuta vuol dire ammettere di avere un problema, e anche bello grave, secondo alcuni. Ammettere di avere bisogno di aiuto, in una società come la nostra, è considerato inaccettabile, vergognoso e imbarazzante, è come si suole dire un tabù. Questo è anche probabilmente un retaggio che ci portiamo dietro dalle generazioni passate, dove i problemi si risolvevano per forza di cose in casa, dove non c’era la consapevolezza di certi strumenti e neanche la volontà di portare alla luce certe dinamiche e problematiche, sia personali sia famigliari. Ma, come per i tabù precedenti mi sento di affermare che tutta questa chiusura ci sia a livello personale e relazionale, ma non sociale. Per fortuna negli ultimi anni di salute mentale se ne sta parlando sempre più spesso e più ampiamente, ci sono pagine di divulgazione e siti di sostegno e consulenza online. Tanti piccoli passi verso l’abbattimento di questo e spero tanti altri mezzi tabù.

di Valentina Nizza