Piste ciclabili a Milano: percezione della sicurezza e frustrazione collettiva

Piste ciclabili a Milano: percezione della sicurezza e frustrazione collettiva

Piste ciclabili a Milano: percezione della sicurezza e frustrazione collettiva

Tra viabilità cittadina e piramide dei bisogni…

Si è parlato tanto nei giorni scorsi delle piste ciclabili tra Corso Monforte e le vie vicine, e del conseguente incrocio labirintico. Vedendo la notizia riportata su più pagine Instagram mi sono incuriosita e oltre che leggere i vari post e articoli a riguardo, sono andata a sbirciare la sezione commenti, cosa che faccio assai raramente, sempre un po’ intimorita da ciò che potrei trovare. E infatti i miei timori erano più che fondati. La quantità di rabbia, aggressività e odio contenuti in quei commenti a un primo sguardo è assolutamente sproporzionato al tema trattato. Si sta disquisendo di semplice urbanistica, di viabilità cittadina, come può un argomento del genere, quasi burocratico, infiammare così tanto le folle? Come può creare fazioni e schieramenti così opposti e nemici? Evidentemente la percezione da parte dei cittadini non è così semplice, evidentemente la questione solleva e richiama qualcosa di molto più profondo.

Ci tengo a iniziare il discorso con una premessa per me importante: ritengo che la costruzione di una città sicura per chiunque la percorra, su qualsiasi tipologia di mezzo, sia un requisito fondamentale per garantire una qualità della vita adeguata. Credo fortemente perciò che a Milano sia necessaria e obbligata la costruzione di una rete più uniforme e lineare di piste ciclabili, questo perché nonostante tutte le motivazioni ideologiche o prese di posizione delle varie parti coinvolte, penso che tutelare una minoranza sia sempre un atto dovuto, indipendentemente dalla forma di questa tutela.

Detto questo, mi sono interrogata tanto sul tema, che è sicuramente complesso, articolato e non privo di contraddizioni. Il motivo principale per il quale sui social troviamo polemiche così accese è a mio parere legato ai bisogni percepiti e non soddisfatti dei cittadini. Se parliamo dell’essere umano distaccato da un preciso contesto fisico, grazie agli studi di Maslow sappiamo molto bene quali sono i suoi bisogni, abbiamo uno schema piramidale a spiegarci chiaramente le motivazioni che spingono le persone ad agire attraverso determinate azioni. Abbiamo una scala di priorità, sappiamo cosa è più impellente e necessario, come ad esempio i bisogni fisiologici, e cosa invece in caso di emergenza diventa superfluo, come ad esempio il bisogno di stima o di autorealizzazione. Non abbiamo uno schema così preciso se si considerano i bisogni specifici di un cittadino metropolitano. Un essere che smette di essere “astratto” ma diventa concreto nel contesto in cui abita. Ponendo la questione viabilità in un contesto di pensiero come questo tutto acquisisce più senso. La frustrazione delle persone nasce da due fattori: c’è una discrepanza tra i bisogni percepiti come necessari dalla maggioranza di persone e i bisogni su cui si sta effettivamente lavorando.

​il Comune in questi mesi sta promuovendo, finanziando e avviando progetti e campagne per rendere la città sempre più green ed ecosostenibile. Fin qui non ci sarebbe assolutamente nulla di sbagliato, in un’epoca in cui la crisi climatica è tema centrale e assolutamente urgente, ci sarebbe da essere felici e sollevati che la propria città agisca seriamente a riguardo, e invece queste iniziative stanno portando solamente malcontento. Questo perché purtroppo a Milano c’è un’altra tematica importante e urgente, la sicurezza. Basti guardare la quantità di video denuncia che circolano sul web riguardanti borseggi, risse, aggressioni. I cittadini milanesi non si sentono al sicuro, e soprattutto non si sentono ascoltati, richiamano più volte il Comune e il sindaco a porre attenzione e azione su tali questioni, ma la risposta è sempre respingente e svalutante. Ha senso quindi che i cittadini si ribellino a un focus così stringente su una questione rispetto che a un’altra. È come per la piramide di Maslow, se un bisogno fisiologico non viene per prima soddisfatto io mi sentirò frustato e arrabbiato se qualcuno mi propone la soluzione per un bisogno di realizzazione, questo non vuol dire che io non senta entrambi i bisogni, ma non sono interscambiabili, per soddisfare il secondo deve per forza essere soddisfatto il primo, altrimenti la mia frustrazione rimarrà invariata. Questo non comporta neanche un giudizio di valore rispetto a uno o l’altro bisogno, non è che i cittadini si interessano di più alla sicurezza perché è più giusto rispetto alla viabilità ecosostenibile, ma solamente perché lo sentono come il bisogno più urgente e necessario.

Il discorso non è però così semplice, poiché in una realtà grande come Milano, ogni azione, per quanto benevola nei piani porta a una quantità spropositata di contraddizioni e imprevisti. È abbastanza ovvio pensare che per i ciclisti, ad esempio, le tematiche di viabilità e sicurezza vadano di pari passo: le piste ciclabili non sono solamente un discorso di comodità o di incentivo a usare mezzi non inquinanti. Per loro piste ciclabili adatte e protette sono questione di vita o di morte, per loro è questo il bisogno fondamentale, percorrere il tragitto casa lavoro in maniera sicura, senza paura di doversi buttare in mezzo alla strada perché le macchine hanno deciso di usare la pista ciclabile come parcheggio, senza avere il timore che degli scooter o delle moto usino la loro corsia come espediente veloce per superare il traffico.

È anche vero però che costruire piste ciclabili in una città che non è pensata per questo tipo di mobilità comporta una riduzione delle carreggiate, con conseguente rallentamento del traffico e quindi di inquinamento. Porta a una riduzione dei posti disponibili per i parcheggi, il che comporta che le macchine girino per più tempo nelle stesse vie e in tondo, sprecando più carburante e di conseguenza anche qui, inquinando di più. Questo porta quindi indubbiamente dei disagi, per chi magari è “costretto” a muoversi in macchina date le lunghe distanze, per chi magari lavora nelle vie del centro facendo le consegne, a privati o negozianti, e avrebbe quindi la necessità di muoversi in maniera agile e veloce per poter svolgere al meglio il proprio lavoro.

Ed è così che tutti i bisogni e le necessità vanno a scontrarsi una addosso alle altre, generando rabbia e frustrazione.

Non è certo colpa dei singoli volere cose diverse, ma dovrebbero essere le istituzioni a trovare una soluzione generale, a mettere un ordine nelle priorità e coinvolgere i propri cittadini nel processo. Perché finché i cittadini non verranno ascoltati e presi in considerazione, faranno la guerra fra loro, tentando di far prevelare i propri bisogni rispetto a quelli altrui. Se si facesse invece un lavoro di sensibilizzazione, di pari passo alle iniziative pratiche per cambiare l’assetto della città questi cambiamenti verrebbero forse accolti e rispettati più facilmente, invece di essere osteggiati e criticati così tanto. Se, oltre a costruire piste ciclabili si spiegasse anche in maniera chiara e diretta quali sono i reali benefici, se si facessero pomeriggi o giornate per invogliare le persone a percorrere queste nuove strade in sella alle proprie bici, per provarne con mano la comodità, forse le persone sarebbero incuriosite da questa nuova possibilità di città.

Di Valentina Nizza

George Harrison: tra luci e ombre di un personaggio silenzioso.

George Harrison: tra luci e ombre di un personaggio silenzioso.

George Harrison: tra luci e ombre di un personaggio silenzioso.

Il Beatle Tranquillo, così chiamavano George Harrison. Effettivamente quando si parla dei Beatles i primi nomi a venire in mente sono ben altri…

John Lennon è forse il più controverso, il più sfacciato e il più famoso. Paul McCartney è “quello bello”, il frontman, la voce. Ringo è il batterista che nessuno considera più di tanto, ma che grazie all’aspetto eccentrico e al nome strano comunque viene ricordato, se in più ci aggiungiamo una canzone italiana dedicata a lui ecco che viene riconosciuto anche dalle generazioni più giovani. George Harrison è sempre stato il membro più spirituale e riservato, di lui si ricordano poche cose, tra cui la malattia e la prematura dipartita, avvenuta proprio oggi, ventun anni fa.

Ma George era tanto altro, era forse nel suo silenzio, uno dei personaggi più complessi e contradditori della band.

Fin da piccola Harrison mi ha affascinata, qualcosa in lui, nella sua musica ed emotività ha da sempre risuonato in me. Fin dai miei primi ascolti dei Beatles, quando mi accingevo a diventarne una fan sfegatata, mi scoprivo ad ascoltare fino allo sfinimento proprio le canzoni scritte da lui. Prima tra tutte Here come the sun, canzone per me bellissima e carissima, di quelle che quando le ascolti per la prima volta, gli occhi ti si illuminano e il cuore ti viene trapassato da meraviglia pura. È una canzone semplice, ma dolce, delicata, di un ottimismo che non ti stanca mai, che ti fa sentire invece in pace col mondo, centrato e giusto nel tuo piccolo spazio all’interno di questo gigante universo. Ed è questo che per me Harrison ha sempre un po’ rappresentato, un modo di affrontare la vita, una dolcezza nello sguardo, e una serenità che augurerei a tutti.

Ma torniamo per un attimo alla sua sopracitata complessità. Verso la seconda metà degli anni Sessanta Harrison si avvicina sempre più al misticismo e allo spiritualismo indiano, questo lo porta a livello musicale ad ampliare gli orizzonti dei Beatles, grazie all’utilizzo di strumenti musicali come il sitar e alla sperimentazione di nuove sonorità, sempre più particolari e lontane dallo stile dei loro primi album. A livello personale invece questo mondo lo porterà a dei grandi cambiamenti, non tutti coerenti e lineari col suo effettivo modo di vivere. Fatto curioso è che dal 1968 George diventerà vegetariano, cosa che per l’epoca era già abbastanza progressista. Divenne poi sempre più legato alla figura di Dio e alla meditazione, ritrovando nella spiritualità e nel distacco dal mondo terrestre e materiale il suo fulcro. Ed è proprio su questo punto che vorrei concentrarmi per un attimo, perché la contraddizione di un personaggio è poi ciò che lo rende veramente interessante.

Come già detto più volte Harrison era un uomo spirituale, che ricercava il semplice e professava l’importanza per ognuno del proprio mondo interiore. A vederlo in alcune foto, coi capelli lunghi e la barba incolta quasi lo si potrebbe scambiare per un santone. Peccato che quel santone in particolare vivesse in una grande villa lussuosa e possedesse diverse macchine sportive. La casa non so bene come la giustificasse a sé stesso, ma per quanto riguarda le macchine Harrison si è da sempre dichiarato grande fan della velocità e della Formula 1, sua grande passione, al pari addirittura della musica. Suoi conoscenti riportano addirittura che nel guidare a velocità estreme lui si ritrovasse a provare stati emotivi molto simili a quelli meditativi, che quindi anche le belle macchine fossero in fondo un modo per risollevare l’anima a scopi più alti?

Ricordo vagamente una volta di aver sentito qualcuno dire: “Non è il possedere cose di lusso in sé, che rende un uomo materialista, è la necessità, il bisogno, di possederle a renderlo tale”. Come a dire che puoi essere ricco sfondato, ma se di quella ricchezza tu non brami neanche un centesimo puoi ancora definirti una persona povera e spirituale. Chissà, io nella vita rimango povera e basta, quindi non mi pongo questo dilemma morale, lascio a voi la riflessione.

Mi diverte sempre molto scovare idiosincrasie di questo tipo nei personaggi più famosi, me li rendono più simpatici, più reali. Perché vero è che ascoltare le parole e la musica di qualcuno che ci ispira è un’esperienza magica, ma ricordarci che è in fondo normale e umano, come noi, è sempre molto consolatorio per l’anima.

Di Valentina Nizza

Guida a “Black Panther: Wakanda Forever”: quello che vi siete persi

Guida a “Black Panther: Wakanda Forever”: quello che vi siete persi

Guida pratica a Black Panther: Wakanda Forever: che cosa vedremo?

Ecco il riassunto che stavate aspettando prima di tornare al cinema e qualche anticipazione su quello che vedremo…

Per tutti i nerd d’Italia questa settimana inizia con trepidazione, oggi esce finalmente nelle sale il trentesimo film del Marvel Cinematic Universe: Black Panther: Wakanda Forever, film che tra le altre cose segna anche la fine della fase quattro. Ma, se anche voi come noi non riuscite sempre a stare dietro a tutte le trame e colpi di scena di questo intricato universo, eccovi un piccolo riassunto delle puntate precedenti:

IL FUMETTO

Partiamo dalle origini: il personaggio della Pantera Nera il cui vero nome è T’Challa, compare per la prima volta nei fumetti nel 1966 come storia secondaria dei Fantastic Four. Ideato e creato da Stan Lee e Jack Kirby, è anche il primo supereroe nero del mondo Marvel. Le sue caratteristiche principali sono un quoziente intellettivo così tanto sopra la media da essere considerato una delle otto persone più intelligenti della Terra, inoltre possiede capacità acrobatiche e di combattimento eccezionali grazie agli addestramenti compiuti fin da bambino. Tutte queste sue abilità vengono poi successivamente potenziate grazie all’Erba a Foglia di Cuore, che T’Challa ha ingerito nella lunga serie di prove prima di diventare sovrano del Wakanda. Tale erba oltre ad averlo messo in connessione con la Dea pantera Bast, gli ha donato forza, agilità, velocità e una capacità di guarigione soprannaturali.

I FILM

A livello cinematografico invece, Pantera Nera ha fatto la sua prima apparizione nel film di Captain America: Civil War. È questo il momento in cui, a seguito di un attacco terrorista diretto al padre re T’Chaka, suo figlio T’Challa diventa il successivo re del Wakanda e l’effettivo personaggio che inizieremo a conoscere. Successivamente vediamo Black Panther allearsi con Iron Man nella Civil War contro Captain America, poiché quest’ultimo proteggeva Soldato d’Inverno, alias di Bucky, accusato di essere il principale responsabile per l’attentato (cosa che però solo successivamente si scoprirà essere falsa). Successivamente vediamo il successo del personaggio grazie al suo film da protagonista, in Black Panther, vediamo per la prima volta il Wakanda in tutta la sua potenza e bellezza. Ma la storia principale non verte solo sulla forza del paese e sulla figura di T’Challa come sovrano. Il conflitto della storia è tra il re Killmonger, soldato addestrato dell’esercito statunitense, ma di origini wakandiane che sfiderà T’Challa e reclamerà il trono. Breve riassunto: il vero Pantera Nera apparentemente inarrestabile sembra soccombere, si crede sia morto e il trono passa al nemico, ma colpa di scena, è vivo e vegeto e con un finale da lasciare senza fiato si riprende a pieno diritto il suo regno. Ora passiamo alla parte un po’ più complicata: Black Panther è ormai entrato in pieno diritto nell’Universo Marvel e quindi lo ritroviamo nei vari prodotti cinematografici e televisivi della saga. Come ad esempio in Avengers: Infinity War, in cui il cattivo viola per eccellenza Thanos vuole dimezzare non solo la popolazione terrestre, ma tutto l’universo in modo da raggiungere il tanto agognato equilibrio, suo scopo di vita. T’Challa in questo film si dimostra nuovamente il grande leader e combattente che tutti abbiamo imparato ad ammirare. Nonostante tutti i suoi sforzi, quelli di tutto il suo esercito e degli Avengers, però purtroppo come ben sappiamo Thanos con uno schiocco di dita riesce a vincere e a raggiungere il suo obiettivo. Nella distruzione della popolazione rimarrà purtroppo coinvolta anche la nostra Pantera Nera, ma con Avengers: Endgame ecco che rivediamo gli Avengers superstiti fare un incredibile ed emozionante viaggio nel tempo, in modo da recuperare tutte le Pietre dell’Infinito e ricombattere Thanos. Qui vediamo come allo schiocco di Hulk tutti i supereroi scomparsi tornano sul campo di battaglia più forti e agguerriti di prima.

CHE COSA ASPETTARCI

Ora che abbiamo le idee un po’ più chiare possiamo concentrarci sul nuovo film. Dal trailer vediamo l’arrivo di un nuovo antagonista, Namor, nuovo re di Atlantide. Quindi non solo vedremo il Wakanda combattere contro il mondo in superficie per ristabilire il proprio equilibrio e la propria forza dopo la triste dipartita del re (tra un attimo ci arriviamo), ma vedremo l’esercito wakandiano scontrarsi anche con un nuovissimo e misterioso popolo sottomarino. Come detto sopra, altro punto centrale di questo nuovo film è proprio la mancanza del Pantera Nera originale, dovuta alla scomparsa prematura dell’amatissimo attore Chadwick Boseman. Dopo questa triste notizia si è deciso per rispetto della memoria e dell’eredità dell’attore di unire realtà e finzione, condannando allo stesso destino anche il personaggio cinematografico. Con questa decisione si è aperto un grandissimo quesito, chi sarebbe stato il degno erede di T’Challa? Da quanto ci mostra il trailer e da quanto sembra mormorare il web, la storia potrebbe prendere una piega interessante, mettendo a capo del regno Shuri, sorella minore del precedente regnante. Personaggio eclettico e geniale, sulla carta sembra la degna sostituta per un ruolo così importante. Ma vedremo come sceneggiatori e regista avranno gestito la scelta e se saranno in grado di soddisfare le aspettative di noi fan.

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Di Valentina Nizza.

Corri, Forrest, corri!

Corri, Forrest, corri!

Corri, Forrest, corri!

Storia di corse improvvisate e consapevolezze arrivate.

Forrest Gump, film degli anni Novanta con protagonista il celeberrimo Tom Hanks che narra le avventure straordinarie e al limite dell’inverosimile di un ragazzo dell’Alabama. Serve davvero aggiungere altro? Serve effettivamente un ulteriore articolo che parli di questo cult del cinema? Probabilmente no. Ma appena ho messo gli occhi su questo titolo qualcosa in me ha risuonato, qualcosa mi ha urlato a gran voce di scrivere questo pezzo.

Potrebbe essere che tutto ciò sia utile solo alla mia persona, ma sono convinta che quello che mi ha risuonato dentro possa essere un filo conduttore tra di noi, una sensazione e un bisogno condiviso anche in chi sta leggendo queste righe.Il fil rouge di tutto il film è sicuramente la corsa, dalla famosa scena in cui il piccolo Forrest corre per la prima volta, nonostante i tutori alle gambe lo rallentino, fino alla corsa per tutti gli Stati Uniti perché semplicemente si sentiva di correre e non fermarsi più.

Ma cos’è che spinge il protagonista a correre sempre e comunque? Inizialmente si percepisce come la corsa sia per lui una liberazione, sia un talento, un dono che gli permette di liberarsi dai tutori per le gambe, distruggendoli in mille pezzi durante il primo scatto. Da questo primo momento non si fermerà più, in qualsiasi posto andrà ci andrà correndo. Diventerà poi una possibilità di salvezza, Forrest grazie alla sua abilità di correre veloce riuscirà a scappare più volte dai bulli, riuscirà ad entrare al college come giocatore di football e successivamente si salverà dai bombardamenti in Vietnam.

Tutto questo però acquisisce una svolta, un nuovo significato quando, dopo molti se non troppi eventi dolorosi e difficili Forrest inizia a correre, a suo dire “senza una ragione in particolare”, inizia a correre e correre, fino alla fine della strada, della città, della contea e dello Stato, fino poi a raggiungere l’oceano. In questo momento Forrest non corre più perché c’è qualcuno a dirgli “Corri, Forrest, corri”, corre perché è rimasto da solo, corre perché gli sono accadute troppe cose e ha bisogno di pensare, di elaborare, e l’unico modo che gli è naturale è la corsa. È la necessità di allontanarsi, di muoversi per rientrare in contatto con sé stessi per ascoltarsi e capirsi.

Io dal canto mio invece ho passato tutta la mia vita a odiare la corsa, la trovavo inutile, noiosa, sfiancante. Qualsiasi torto mi si potesse fare non sarebbe mai stato così tragico e tagliente come l’obbligarmi a correre. Al contrario, per mio padre la corsa è da sempre stata ossigeno puro, è sempre stato il suo modo per sentirsi forte, invincibile, proprio come per Forrest. Una delle sue frasi preferite era infatti “io da giovane non camminavo mai, correvo”. Ed era vero, andava a fare la spesa per mia nonna e dal fruttivendolo ci arrivava a furia di staffette. Invece di aspettare il tram come i comuni mortali, lui ci gareggiava, solo per il gusto di poter correre veloce. Ovviamente non ho mai capito il senso di tutto ciò, io che come filosofia di vita invece di camminare, passeggiavo. Come non capivo lui, non capivo neanche tutti quei pazzoidi che a marzo, a inizio lockdown si son scoperti appassionati di jogging come mai prima in vita loro. Li vedevo, mentre passeggiavo verso il parco, nei loro completini iper-tecnici, con le tute coordinate e le scarpe scintillanti, li vedevo correre su e giù per il quartiere come deficienti, e più li guardavo e più me ne chiedevo il senso. Onestamente ero anche infastidita da questa ricerca di libertà fittizia, che un criceto sulla ruota in confronto sembrava un viaggiatore di mondo. Li osservavo e non capivo, tornavo a casa, ci pensavo e ancora non capivo.

Poi qualcosa dentro di me è scattato. Come Forrest mi sarei messa a correre per la via, per il quartiere, per la città e anche per tutto lo Stato se le gambe mi avessero retto. Una serie di eventi veloci, terribili e drammatici ha stravolto la mia vita. Una telefonata da parte della compagna di mio padre, appena ho risposto mi si è raggelato il sangue nelle vene “Vale, papà ha avuto un ictus, è in ambulanza”. Una videochiamata da parte di mio padre dalla stanza dell’ospedale “Pulce, fai venire qui anche la mamma, vi devo dire una cosa importante”.

Da quella prima telefonata, dalla successiva diagnosi di tumore al cervello, ho sentito solo il bisogno ancestrale di correre, correre dietro a quella maledetta ambulanza, correre attraverso tutta la città, correre per i corridoi dell’ospedale, correre tra i numeri delle stanze, correre tra le braccia di mio padre. Avevo solo bisogno di correre da lui, avevo solo bisogno di quella normalità che mi era stata brutalmente tolta d’improvviso. Nulla di tutto ciò però mi era permesso.

Quarantene forzate, reparti Covid, i contagi in aumento. Tutto il mondo stava crollando sotto il peso di una pandemia, ma io sentivo solo il bisogno di rimettere insieme i pezzi del mio microcosmo. Allora ho fatto anche io l’unica cosa che mi era permesso fare, ho tirato fuori dall’armadio le mie scarpe da corsa mai utilizzate e più scintillanti che mai, ho messo addosso una tuta non proprio tecnica e neanche troppo coordinata, sono uscita e ho iniziato a correre su e giù per il parco del quartiere. Ho corso come mai pensavo avrei fatto, con tutta l’energia e la determinazione di cui disponevo, ho corso così tanto da perdere il fiato, ho corso così a lungo da non sentire più le gambe. Mi sono distrutta, mi sono sfiancata. Eppure, alla chiamata rituale con mio padre, ormai giornaliera e sempre puntuale al minuto, ho risposto euforica “Papà! Finalmente ho capito”.

di Valentina Nizza

How I met your father e gli spin-off di (In)successo

How I met your father e gli spin-off di (In)successo

How I met your father e gli spin-off di (In)successo

Breve riflessione di un’appassionata di sit-com e serie tv romanticamente stupide.

È da poco uscito uno degli spin-off forse più attesi degli ultimi tempi, How I met your father. Serie che riprende lo schema narrativo della ben più famosa How I met your mother, sit-com dei primi anni 2000, che narra le vicende romantiche e a tratti assurde di un gruppo di amici newyorkesi. In particolar modo la storia gira intorno al racconto del protagonista, Ted Mosby che in un non troppo lontano futuro racconta ai propri figli come, per l’appunto, ha conosciuto loro madre. Si basa quindi tutto su un gigantesco flashback continuo, in cui si intrecciano moltitudini di storie, di fidanzate, e serate passate nel famigliare e sicuro pub MacLaren’s. Il nuovo spin-off targato Disney+ procede allo stesso modo e con lo stesso espediente narrativo del racconto ai figli. Noi spettatori, quindi, ci ritroviamo ad osservare e rivivere la storia di Sophie, che in una New York contemporanea si destreggia tra appuntamenti di Tinder e incontri alla “vecchia maniera”.

COSA FUNZIONA E COSA NO

Parto con una doverosa premessa, le sit-com che strizzano piacevolmente l’occhio al trash e al romanticismo più smielato sono uno dei miei guilty pleasure più grandi e imbarazzanti. Detto questo, mi deresponsabilizzo da ogni opinione discutibile e non proprio oggettiva, ho il cuore tenero, mea culpa. Partiamo ora con le considerazioni di base e a mio parere che potrebbero mettere d’accordo quasi tutti, le risate registrate e montate in sottofondo sono orribili. Non c’è altro modo per dirlo, sono vecchie e creano solo un’atmosfera cringe e a tratti quasi triste. È come un gigantesco cartello che ti impone moralmente di ridere e ti fa notare appunto che non è quello che sta accadendo. Stonano e creano una dissonanza disagiante. Proprio per questo sono rimasta molto delusa dal fatto che in HIMYF venissero utilizzate così spesso, mi sembrava sempre di più che non avessero senso.

Passiamo invece ora alle cose che più mi sono piaciute e che forse potreste trovare discutibili. I richiami alla serie originale gli ho trovati geniali e ben collegati, sia i più nascosti che quelli più palesi ed evidenti. Mi sono sembrati dei buoni espedienti per abbracciare i fan di lunga data e allo stesso tempo creare una buona base per far partire la storia e proiettarla su una propria strada, che richiamasse quella originale, ma non ne fosse una fotocopia sbiadita e venuta male.
I personaggi potrebbero essere meglio approfonditi, a tratti risultano stereotipati, ma penso che questo sia principalmente colpa della brevità della prima stagione, composta da soli dieci episodi, in cui di conseguenza deve succedere tutto e subito. Se si riesce però a immergersi subito nella storia, ci si affeziona anche velocemente ai personaggi, alle loro vicende assurde e ai loro modi di fare bizzarri. Ho apprezzato molto che la composizione sociale del gruppo fosse molto diversa da HIMYM, diverso il numero di personaggi, diverse le dinamiche relazionali e la composizione delle coppie. Ovviamente ci sono delle similitudini narrative col passato, ma come detto sopra, fanno breccia nel mio cuoricino tenero e smielato, e non posso quindi fare altro che adorarle.

PROBLEMI DI NOTORIETÀ

Tirando un po’ le fila dei miei ragionamenti su HIMYF credo di aver individuato dei punti cardine applicabili a tutta una serie di spin-off rimasti per lo più sconosciuti se non al peggio terribilmente criticati dagli spettatori. Perché alla fine ammettiamolo, noi come pubblico non siamo mai troppo indulgenti sulle serie figlie di quelli che consideriamo cult del piccolo schermo. Prendiamo ad esempio A casa di Raven, qualcuno di voi ne ha mai sentito parlare? Io non credo. Serie per un pubblico principalmente adolescenziale se non più piccolo che però punta troppo sull’effetto malinconia che invece potrebbe invogliare un pubblico oramai cresciuto e non più interessato. Non c’è quindi un equilibrio tra passato e presente. È stato preso un determinato format e copiato tale e quale, senza pensare invece alle richieste e al cambiamento del nuovo pubblico a cui il prodotto dovrebbe essere indirizzato.

Per citare altri spin-off sconosciuti potremmo parlare di Once upon a Time in Wonderland, dove a mio parere è stata semplicemente pessima la strategia pubblicitaria dedicata a questa serie, ovvero inesistente. Neanche molti dei fan più sfegatati della serie originale sono a conoscenza di questa piccola chicca. Stessa sorte è anche toccata a Joey, spin-off del famosissimo Friends. Non era sicuramente al pari della serie originale, ma almeno qualche possibilità in più di quelle che le hanno dato poteva meritarsela.
Passiamo poi invece alle serie tv, di cui il poco entusiasmo rimane per me un mistero. Young Sheldon e Human Resources, figlie rispettivamente di The Big Bang Theory e Big Mouth. Queste due serie tv sono dei piccoli gioielli, in modo unico e completamente diverso tra loro. Hanno un ottimo collegamento con le proprie serie madri, ma sono riuscite a prendersi il loro spazio e raccontare qualcosa che fosse nuovo rispetto alla storia originale. Hanno dei buoni tempi comici e fanno sinceramente ridere, la prima più per tenerezza, la seconda decisamente per irriverenza. Per quanto io trovi una qualità il fatto che siano storie che hanno trovato la propria strada è probabile invece che per il grande pubblico questo sia stato percepito come un difetto, poiché non ha suscitato abbastanza la loro curiosità e il loro entusiasmo. Sarebbe forse servito un po’ più di fan service?
Chiudiamo invece in bellezza, con lo spin-off che ha decisamente sbaragliato la concorrenza, Better call Saul, che è considerata dai più appassionati bella e spettacolare alla pari (se non di più) dell’originale Breaking bad, serie definibile come l’apri pista per le serie tv come le conosciamo oggi.

di Valentina Nizza