Corri, Forrest, corri!

Storia di corse improvvisate e consapevolezze arrivate.

Forrest Gump, film degli anni Novanta con protagonista il celeberrimo Tom Hanks che narra le avventure straordinarie e al limite dell’inverosimile di un ragazzo dell’Alabama. Serve davvero aggiungere altro? Serve effettivamente un ulteriore articolo che parli di questo cult del cinema? Probabilmente no. Ma appena ho messo gli occhi su questo titolo qualcosa in me ha risuonato, qualcosa mi ha urlato a gran voce di scrivere questo pezzo.

Potrebbe essere che tutto ciò sia utile solo alla mia persona, ma sono convinta che quello che mi ha risuonato dentro possa essere un filo conduttore tra di noi, una sensazione e un bisogno condiviso anche in chi sta leggendo queste righe.Il fil rouge di tutto il film è sicuramente la corsa, dalla famosa scena in cui il piccolo Forrest corre per la prima volta, nonostante i tutori alle gambe lo rallentino, fino alla corsa per tutti gli Stati Uniti perché semplicemente si sentiva di correre e non fermarsi più.

Ma cos’è che spinge il protagonista a correre sempre e comunque? Inizialmente si percepisce come la corsa sia per lui una liberazione, sia un talento, un dono che gli permette di liberarsi dai tutori per le gambe, distruggendoli in mille pezzi durante il primo scatto. Da questo primo momento non si fermerà più, in qualsiasi posto andrà ci andrà correndo. Diventerà poi una possibilità di salvezza, Forrest grazie alla sua abilità di correre veloce riuscirà a scappare più volte dai bulli, riuscirà ad entrare al college come giocatore di football e successivamente si salverà dai bombardamenti in Vietnam.

Tutto questo però acquisisce una svolta, un nuovo significato quando, dopo molti se non troppi eventi dolorosi e difficili Forrest inizia a correre, a suo dire “senza una ragione in particolare”, inizia a correre e correre, fino alla fine della strada, della città, della contea e dello Stato, fino poi a raggiungere l’oceano. In questo momento Forrest non corre più perché c’è qualcuno a dirgli “Corri, Forrest, corri”, corre perché è rimasto da solo, corre perché gli sono accadute troppe cose e ha bisogno di pensare, di elaborare, e l’unico modo che gli è naturale è la corsa. È la necessità di allontanarsi, di muoversi per rientrare in contatto con sé stessi per ascoltarsi e capirsi.

Io dal canto mio invece ho passato tutta la mia vita a odiare la corsa, la trovavo inutile, noiosa, sfiancante. Qualsiasi torto mi si potesse fare non sarebbe mai stato così tragico e tagliente come l’obbligarmi a correre. Al contrario, per mio padre la corsa è da sempre stata ossigeno puro, è sempre stato il suo modo per sentirsi forte, invincibile, proprio come per Forrest. Una delle sue frasi preferite era infatti “io da giovane non camminavo mai, correvo”. Ed era vero, andava a fare la spesa per mia nonna e dal fruttivendolo ci arrivava a furia di staffette. Invece di aspettare il tram come i comuni mortali, lui ci gareggiava, solo per il gusto di poter correre veloce. Ovviamente non ho mai capito il senso di tutto ciò, io che come filosofia di vita invece di camminare, passeggiavo. Come non capivo lui, non capivo neanche tutti quei pazzoidi che a marzo, a inizio lockdown si son scoperti appassionati di jogging come mai prima in vita loro. Li vedevo, mentre passeggiavo verso il parco, nei loro completini iper-tecnici, con le tute coordinate e le scarpe scintillanti, li vedevo correre su e giù per il quartiere come deficienti, e più li guardavo e più me ne chiedevo il senso. Onestamente ero anche infastidita da questa ricerca di libertà fittizia, che un criceto sulla ruota in confronto sembrava un viaggiatore di mondo. Li osservavo e non capivo, tornavo a casa, ci pensavo e ancora non capivo.

Poi qualcosa dentro di me è scattato. Come Forrest mi sarei messa a correre per la via, per il quartiere, per la città e anche per tutto lo Stato se le gambe mi avessero retto. Una serie di eventi veloci, terribili e drammatici ha stravolto la mia vita. Una telefonata da parte della compagna di mio padre, appena ho risposto mi si è raggelato il sangue nelle vene “Vale, papà ha avuto un ictus, è in ambulanza”. Una videochiamata da parte di mio padre dalla stanza dell’ospedale “Pulce, fai venire qui anche la mamma, vi devo dire una cosa importante”.

Da quella prima telefonata, dalla successiva diagnosi di tumore al cervello, ho sentito solo il bisogno ancestrale di correre, correre dietro a quella maledetta ambulanza, correre attraverso tutta la città, correre per i corridoi dell’ospedale, correre tra i numeri delle stanze, correre tra le braccia di mio padre. Avevo solo bisogno di correre da lui, avevo solo bisogno di quella normalità che mi era stata brutalmente tolta d’improvviso. Nulla di tutto ciò però mi era permesso.

Quarantene forzate, reparti Covid, i contagi in aumento. Tutto il mondo stava crollando sotto il peso di una pandemia, ma io sentivo solo il bisogno di rimettere insieme i pezzi del mio microcosmo. Allora ho fatto anche io l’unica cosa che mi era permesso fare, ho tirato fuori dall’armadio le mie scarpe da corsa mai utilizzate e più scintillanti che mai, ho messo addosso una tuta non proprio tecnica e neanche troppo coordinata, sono uscita e ho iniziato a correre su e giù per il parco del quartiere. Ho corso come mai pensavo avrei fatto, con tutta l’energia e la determinazione di cui disponevo, ho corso così tanto da perdere il fiato, ho corso così a lungo da non sentire più le gambe. Mi sono distrutta, mi sono sfiancata. Eppure, alla chiamata rituale con mio padre, ormai giornaliera e sempre puntuale al minuto, ho risposto euforica “Papà! Finalmente ho capito”.

di Valentina Nizza