Perché i bocconi di sushi sono così piccoli secondo Ruth Benedict 

La risposta al perché i pezzi di sushi sono così piccoli ci arriva direttamente dall’antropologia applicata, nell’immediato secondo dopoguerra. E a parlarne è una donna, Ruth Benedict.

Cibo, sesso e piaceri fisici: no, non sono alcuni dei sette vizi capitali, ma tre ambiti in cui la cultura giapponese ha avuto una diretta influenza, connotando fortemente il modo in cui gli appartenenti a questa società fruiscono di questi elementi. La “società della vergogna” è analizzata e raccontata dall’antropologa e poetessa statunitense Ruth Benedict che, nel 1946, pubblica l’opera Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese.

La spada: il “casus libri”

Il crisantemo e la spada è il miglior esempio di antropologia applicata – branca degli studi sull’uomo che si occupa di applicare i principi della disciplina all’economia, alla politica, alla società, ecc. – della prima metà del Novecento perché non si tratta di una ricerca organizzata autonomamente dalla Benedict, ma di un testo commissionato dagli Stati Uniti d’America in pieno clima bellico. Il governo americano si è reso conto di avere un nemico diametralmente opposto a sé e non riesce a prevederne i movimenti in guerra perché non ha gli strumenti per farlo. Viene così interpellata Ruth Benedict, fra le principali esponenti della scuola antropologica americana dell’epoca, affinché possa studiare la società giapponese e crearne un vantaggio per l’esercito americano.

Il conflitto in corso e la forte opposizione fra Stati Uniti e Giappone impedisce all’antropologa di recarsi in Giappone, dunque Benedict decide di intervistare i giapponesi che si sono formati e hanno studiato in patria e solo successivamente si sono trasferiti in America. Un proposito che sembra essere ben organizzato e conseguibile, ma che presenta per la studiosa non poche difficoltà.

Ruth Benedict è americana e il momento storico non le rende semplice osservare il suo oggetto di studio. Non può attraversare il globo, non può vivere la cultura nipponica sulla sua pelle: è quasi impossibile scrivere un’etnografia sul proprio nemico durante la guerra, mentre si combatte contro di lui. La convinzione degli americani, in questo momento storico, è quella di essere superiori a tutto e tutti sia a livello di armamenti, che di ideologie. Una posizione scomoda da cui intraprendere lo studio di una civiltà, per cui è difficile per Benedict, da americana, non inciampare nell’errore di sentirsi superiore rispetto al nemico.

Il dilemma della virtù e la società della vergogna

Il tema chiave del testo è il concetto di guerra per il Giappone, come i suoi abitanti interpretano e vivono il conflitto in corso. A metà del testo, però, si indaga un elemento cardine della cultura nipponica, il dilemma della virtù. Secondo la popolazione giapponese, gli uomini e le donne tendono per loro natura al bene e per questo agiscono nel bene. Ciò significa agire secondo un giudizio settoriale del comportamento, l’on: on è un obbligo che le persone portano addosso in quanto tali, per il solo fatto di esistere e di calpestare il suolo. È un desiderio di riconoscenza, un obbligo di mostrarsi capaci di comprendere che la propria esistenza non è data per scontata, ma abbia vere e proprie necessità di essere riconosciuta. On è un concetto ampio composto da diverse sfaccettature: chu è l’on verso l’imperatore, ko è la riconoscenza verso i propri genitori, jin significa letteralmente “essere riconoscenti e misericordiosi” verso il prossimo… ma è giri l’aspetto dell’on più rilevante per i giapponesi. Giri è riconoscenza nei confronti del proprio nome o del proprio mondo. Per i giapponesi, quando qualcuno non si comporta bene è perché tutte queste sfere collidono fra loro e l’individuo si trova a dover scegliere a quale sfera essere più fedele.

Rappresentazione grafica dell’on

E se non si riesce a “eliminare la ruggine” dalla propria esistenza? A comportarsi bene?
L’insuccesso rappresenta una vergogna per i giapponesi, e la vergogna è qualcosa di connaturato a questa cultura. Non a caso, Benedict definisce la società giapponese la “società della vergogna”. Quando i giapponesi combattono si sentono gli occhi del mondo addosso e per questo non possono permettersi di fare una brutta figura. Ogni individuo vive stando attento al giudizio degli altri. I giapponesi sanno di essere inferiori agli americani per quantità e qualità dei loro armamentari, ma affrontano il secondo conflitto mondiale convinti di vincere non perché sono migliori a combattere: vinceranno perché la loro anima è più pura.

In quest’ottica, persino il suicidio e la morte vengono rivalutati. La morte non è interpretata come una fine, il cessare dell’esistenza, ma come un momento di passaggio, un’espiazione delle colpe. Il suicidio, infatti, è solo un modo per pulirsi dall’onta di non essere stati all’altezza del proprio giri: la vergogna, per i giapponesi, è insostenibile, e l’unico modo per liberarsene è morire con lei.

Altro elemento fondamentale della cultura giapponese è la gerarchia. In Giappone c’è una strettissima gerarchia sia a livello statuale che relazionale e una forte fiducia in questa organizzazione. L’esistenza di una gerarchia permette di gestire al meglio sia i contesti più ristretti, come la famiglia o le relazioni interpersonali, che quelli più ampi, come un intero Stato. Nella famiglia giapponese, ad esempio, la donna è sottomessa all’uomo, ma lo è consapevole del fatto che questo ruolo è funzionale alla gestione della famiglia e al giusto scorrimento dei ruoli familiari. Allo stesso modo, un fratello maggiore non è e non può comportarsi come un fratello minore. Occorre, nella trattazione di un tema così delicato come quello delle questioni di genere, ricordare il periodo storico in cui sono state fatte queste analisi e questo testo è stato concepito, ovvero il 1946. Millenovecentoquarantasei. Un momento storico e politico lontano anni luce da noi, ormai.

Il piacere

Tutta questa moralità dovrebbe, a questo punto, essere applicata coerentemente al piacere, un atto fine a se stesso. L’approccio giapponese nei confronti del piacere è lo stesso che sono tenuti ad avere nei confronti dell’arte, si può apprendere un modo di provare piacere. Ma, non per questo, il piacere è culturalmente accettato. I giapponesi riescono a godersi a fondo un piacere, ma sono poi costretti a espiarlo. Per esempio, quando qualcuno si immerge nelle tipiche fonti termali giapponesi e si gode un lungo bagno caldo, come se ci fosse una legge del contrappasso la mattina dopo dovrà farsi una doccia ghiacciata.

Lo stesso vale per i due piaceri per eccellenza, il sesso e il cibo, che devono essere vissuti come esperienze sì fini a se stesse, ma alla luce del sole. Il piacere sessuale è qualcosa che va coltivato, che sia coniugale o extraconiugale. Per questo, le mogli e i mariti sono sempre consapevoli quando il coniuge sta avendo una relazione al di fuori del matrimonio: è, anche questa, una questione di onore.

E il cibo?
Vi siete mai chiesti perché i bocconi di sushi siano così piccoli? Perché tutte le pietanze giapponesi siano preparate di modo da essere formate da pezzettini che possano essere portati alla bocca senza bisogno di essere prima tagliati? Perché sulle tavole giapponesi non troviamo coltelli o nulla per tagliare, ma solo le bacchette?
Perché ogni singolo boccone che portiamo alla bocca deve essere fine a se stesso, rotondo, pieno. Un’esperienza autoconclusa: più piccola è la porzione di cibo, più ci si può dedicare completamente al momento in cui questo viene masticato, assaporato e ingoiato. Perché questo momento possa essere dilatato e chi decide di mangiare un pezzo di sushi (o di qualsiasi altro alimento) possa concentrarsi solo su quello mentre lo sta facendo. Un modo diverso, ma forse più sano e rispettoso, di concepire il cibo. I giapponesi non vedono il nutrirsi come un modo per riempire lo stomaco, ma come un vero e proprio atto esperienziale. E su questo abbiamo molto da imparare.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.