Trieste: quella “grazia scontrosa” cantata da Saba

Trieste: quella “grazia scontrosa” cantata da Saba

Trieste: quella “grazia scontrosa” cantata da Saba

Trieste come specchio di un’anima, percorrerne le strade, abbracciarla in un sol sguardo e ritrovare sè stessi laddove si credeva di essersi perduti. Questo fu Umberto Saba.

Trasfigurazione della condizione di Ulisse, in nessun luogo a casa se non nella propria Itaca, così Umberto Saba nella sua Trieste. Città ai margini del panorama letterario italiano primonovecentesco, scissa tra Austria e Italia, crogiolo di razze, realtà di confine, Trieste si fa musa ispiratrice del poeta Saba, un “cantuccio” riparato dalle ferite procurate dagli altri. La città come osservatorio privilegiato per il poeta gli consente un duplice movimento di immersione e distacco da una realtà percepita come contraddittoria.
La contraddittorietà dell’esistenza come motore di un’operazione di autoindagine, la psicanalisi come strumento per il raggiungimento di un’autocoscienza di sé, la scrittura come metodo di scavo della propria esistenza.
Umberto Poli, in arte Saba, nasce a Trieste nel 1883, trascorre un’infanzia segnata da fratture: il precoce abbandono del padre, il difficile rapporto con una madre anaffettiva e lo stretto legame con la balia Peppa, a cui la madre probabilmente lo sottrasse per gelosia.
Un senso di estraneità alla cultura ebraica di appartenenza, di distanza dal panorama letterario di spicco, primi tra tutti gli intellettuali de La Voce, oltre che la costante fuga dalle persecuzioni naziste grazie anche all’aiuto di intellettuali quali Montale e Vittorini, alimentano nel poeta quello che lui stesso chiama un “doloroso amore per la vita”. Tormentato da manie di persecuzione, Umberto Saba troverà nella psicanalisi un mezzo di indagine e scavo nel sé, uno strumento per la riemersione del rimosso e il risanamento delle proprie ferite.
Per mettere insieme i propri tasselli, Umberto Saba compie un’operazione che seicento anni prima, non diversamente ma scevro di cultura psicanalitica, intraprese Francesco Petrarca: stendere un Canzoniere, un corpus poetico organizzato in nuclei tematici, un tentativo di articolazione compiuta del sé, a più riprese riorganizzato internamente e revisionato linguisticamente, di cui si fa risalire la prima edizione al 1921.
Alla sezione Trieste e una donna appartiene la lirica Trieste, che meglio dipinge il senso di “triestinità” del poeta: una simbiosi fisica e spirituale, che consente a Saba di specchiarsi e di cogliere sé stesso nelle contraddizioni della città natia, attraverso un percorso tanto fisico quanto intellettuale, di identificarsi nella città stessa e trovare un “cantuccio” fatto proprio per lui dove sentirsi davvero immerso in quella che chiama “la mia vita”.

Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

(Trieste, 1910-12)

Un’occasione qualunque, una passeggiata attraverso una brulicante Trieste porta il poeta a salire un’erta. Il colle, in principio affollato, si fa sempre più deserto. Ormai dispersa la folla, si affaccia in lontananza un muricciolo.
Qui il poeta pronuncia una sorta di dichiarazione d’amore, l’interlocutrice è Trieste.
Trieste come “ragazzaccio aspro e vorace” ha occhi azzurri come il mare che ne bagna le coste e mani grandi, mani buone, per compiere atti gentili, che rivelano della città un carattere di ambivalenza, dapprima scontrosa, poi dolce e accogliente, si dimostra capace di regalare un fiore.
Dall’erta è possibile scorgere l’intera città, affollata e deserta, e ancora una volta contraddittoria. L’aria d’intorno è strana, è “aria natia”, il poeta è a casa, ed è protetto. Qui infatti ha trovato un suo cantuccio, un luogo dove potersi abbandonare alle proprie riflessioni, schivare le sofferenze procurategli dal mondo e dedicarsi alla propria vita “schiva e pensosa”, come “solo e pensoso” Francesco Petrarca percorreva deserti campi per schivare indiscreti sguardi.
La vita ora è “mia”, è sua, è del poeta, gli appartiene, il muricciolo è laddove il poeta si riappropria di sé, raccoglie i tasselli, si identifica esso stesso nella città, con uno sguardo la raccoglie tutta, così come nel cantuccio può raccogliere le proprie contraddizioni, ordinarle e per quanto possibile cercare di sanarle.

Quella di Saba è una poesia piana, autobiografica, domestica. Il poeta è consapevole di non essere adeguatamente considerato sul panorama letterario, fa di questo senso di marginalità – la stessa marginalità posseduta da Trieste – il suo centro propulsore, e così si pronuncia in occasione del settantesimo compleanno, nel 1953:
“Comunque, il mondo io l’ho guardato da Trieste: il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro e di Trieste non fanno nemmeno il nome.
Del resto, io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria”.

(Discorso di U. Saba presso il Circolo della cultura e delle arti, 1953)

Umberto Saba muore nel 1957, lasciando una traccia, un’opera di scavo interiore volta al risanamento delle proprie ferite, capace di portare al centro, anche a distanza di anni, quella che era considerata una realtà culturale marginale, come Trieste allora, attraverso il ricorso a parole semplici ed esperienze quotidiane.
L’eco della sua voce ancora oggi si sente, riecheggiante dal “cantuccio”, presso il muricciolo.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

La Leda senza cigno: un mito viziato dalla modernità

La Leda senza cigno: un mito viziato dalla modernità

La Leda senza cigno: un mito viziato dalla modernità

Quello della Leda e il cigno è tra i miti antichi più noti, la donna violata dal dio che assume le fattezze di un cigno. Cosa accade tuttavia quando la modernità si innesta sull’antico conferendogli nuovo corso? Di cosa vuole narrarci Gabriele D’Annunzio nel suo lungo e inconsueto racconto?

La Leda, un racconto malnoto

Pubblicato a puntate su Il corriere della sera nel 1913, quello de La Leda senza cigno non è certo tra i testi più noti di Gabriele D’Annunzio. Si tratta di un racconto lungo, che infrange i canoni dell’estetismo per i quali l’autore si era sempre elevato a maggior rappresentante. A prevalere nella narrazione è una nota decadente, torbida, quasi baudleriana. Non più la ridondante raffinatezza de Il piacere, nessun perseguimento della bellezza, ma al contrario una bellezza che sfugge e si dissolve nell’ombra del suicidio. Di cosa parla dunque questo testo? Impostato nella forma del racconto a cornice, leggiamo attraverso le parole riportate di Desiderio Moriar, la vicenda di una donna senza nome che persegue l’eterno oblio fino a raggiungerlo prima del tempo designato. Il compimento di questo processo inesorabile è raggiunto solo a seguito di numerosi tentativi falliti e di una esistenza condotta alle dipendenze di un procacciante, il Pitone, che fa della protagonista uno strumento di guadagno. Non conosciamo il vero nome della donna, ma sappiamo che il narratore la definisce Leda. Una Leda, ma senza cigno, una femminilità non compiuta che si arresta nel vortice di prostituzione e morte.

Letteratura che si nutre di cronaca

Il testo, ascrivibile al genere del giallo, non costituisce un parto spontaneo della mente di D’Annunzio. L’autore attinse probabilmente a un caso di cronaca avvenuto alcuni anni prima a Venezia. Si tratta della vicenda di Maria Tarnowska. Nobildonna di origine russa, fu processata nel 1910 per aver istigato all’omicidio uno dei suoi amanti. Sposatasi giovanissima con il facoltoso Wassily Tarnowski, Maria condusse sin dai primi anni del matrimonio una vita dissoluta intrattenendo numerose relazioni extraconiugali.
Fu a Venezia che si consumò l’omicidio da parte di uno degli amanti della Tarnowska, uno studente di nome Nicholas, ai danni di un altro amante della donna, su istigazione di lei. Entrambi i complici furono arrestati, aprendosi quello che divenne noto come “l’affare russo”, poi conclusosi con la condanna di entrambi i giovani imputati.

La vicenda della Tarnowska si lega a quella di Leda alla luce del tema dell’amore torbido, opportunista e dissoluto. Anche la cosiddetta Leda infatti, nella narrazione di D’Annunzio, è costretta dal procacciante a intrattenere rapporti con numerosi amanti che diventano vittime innocenti per fini di lucro. Una volta garantitasi l’assicurazione sulla vita del proprio amante o un’ingente eredità, la Leda insieme al Pitone si rendeva infatti complice della morte della vittima designata.

Un mito incompiuto e un diverso D’Annunzio

La modernità nel racconto dannunziano si innesta sul mito di Leda e ne modifica gli esiti. È singolare l’immagine della donna che circondata dai levrieri di Desiderio Moriar ricorda al protagonista una Leda tra i cigni. Ma in questo caso la fecondazione non si compie del tutto e il destino della donna non è quello di dare alla luce creature umane e divine al contempo bensì di perdersi per sempre nell’oblio della morte. È un D’Annunzio diverso quello che traspare da questo racconto. La lugubre atmosfera della città di Arcachon è intrisa di sofferenza e aura funeraria per via dei malati di tisi che la popolano. Il protagonista descrive le persone e gli ambienti non più con uno slancio estetista, non è la purezza del bello nelle sue forme più elitarie a sollecitare l’attenzione dell’autore, al contrario lo sguardo è posto sulla messa in evidenza del decadente: malattia, vecchiaia inesorabile e avvilente, prassi sociali corrotte e degradate, ambienti vili e scenari barocchi dove una sovrabbondanza di elementi si mescola e dissolve.

Si tratta di un racconto insolito che mette in luce un altro D’Annunzio, attento osservatore della cronaca del suo tempo e capace di cogliere anche il polo opposto della idealizzazione del reale: la sua materica bassezza. Il richiamo al mito nel suo intrecciarsi con la modernità dimostra un’approfondita conoscenza dei significati reconditi che stanno dietro all’immagine di Leda come emblema della femminilità violata. D’Annunzio conserva la sua essenza di attento osservatore degli aspetti anche più sottili del circostante, ma questa volta sposta il focus sul polo negativo evidenziando come l’antico e il moderno possono coniugarsi e reciprocamente risemantizzarsi.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

I promessi sposi: un romanzo di attuale umanità

I promessi sposi: un romanzo di attuale umanità

I promessi sposi: un romanzo di attuale umanità

I promessi sposi è il classico romanzo che molti studenti direbbero aver preferito non leggere, additato come noioso, vecchio e troppo lungo. Eppure nell’apparente inattualità dell’opera alcuni personaggi insegnano comportamenti che hanno tanto di attuale, molto più vicini al lettore contemporaneo di quanto la scuola insegni.

Una cappa di religiosità e bigottismo spesso imprigiona il romanzo de I promessi sposi, certo il più noto di Alessandro Manzoni, in un giudizio negativo e limitato. Alcuni si chiedono perché venga ancora letto a scuola, trovandolo troppo inattuale. Altri semplicemente lo considerano noioso e, gli studenti meno avveduti, spesso neppure lo leggono.
Eppure in un romanzo apparentemente così distante nel tempo, se si considera che fu scritto nella prima metà dell’Ottocento, c’è tanto di attuale. Ovviamente andrà messo in secondo piano il discorso più strettamente religioso, che certo poteva colpire un lettore ottocentesco nella messa sulla pagina della devozione dei protagonisti, ma non un adolescente del Ventunesimo secolo. Resta il fatto che alcuni personaggi del romanzo, in particolare Lucia, Innominato e Monaca di Monza, assumono nel corso della vicenda comportamenti che li rendono ritratti di un’umanità molto più moderna di quanto possa sembrare.

Si parta da Lucia, una figura mesta e devota, spesso le sventure in cui si imbatte la portano non distante dal cedere ai propositi. Eppure Lucia non cede, mai neppure una volta, incarna una fermezza di intenzioni e una fedeltà a Renzo e alla fede in Dio che sembrano simulacri di un’umanità perduta. L’irremovibilità di Lucia risiede nella sua devozione che la porta addirittura alla rinuncia più grande: Renzo, quando farà voto di castità pur di saperlo salvo.
Nella sua fermezza, nella sua capacità di affrontare le avversità, e nella sua disponibilità a perdonare l’Innominato nonostante le malefatte commesse, c’è un insegnamento che viene lasciato anche all’uomo contemporaneo: non demordere, non lasciarsi abbattere, non abbandonare il proposito nonostante le difficoltà ma trovare una ragione che dia la forza. Lucia trova questa forza in Dio, ogni persona può trovare un affetto, un obiettivo, un fine, che faccia da lume anche nei momenti più bui, che consenta di affrontarli e arrivare a un lieto fine. Sì, perché quello di Renzo e Lucia è un lieto fine. La stregua resistenza di Lucia consentirà ai due promessi di ricongiungersi, e la sua fermezza sarà premiata con lo scioglimento del voto di castità.

Lucia incarna al contempo la capacità di perdonare, e quale maggiore perdonato c’è nel romanzo se non l’Innominato. Criminale senza scrupoli, autore dei più efferati misfatti, alla vista di Lucia è capace di chiedere perdono, di ripensare alle proprie malefatte e provare pentimento, vergogna e desiderio di redimersi.
Pentimento e perdono vanno di pari passo e se sinceri costituiscono uno dei più grandi strumenti di cui l’uomo dispone per non farsi guerra, per non generare odio e conflitto ma concordia e fratellanza.
Il pentimento dell’Innominato sarà decisivo per portare a una svolta nella vicenda che sia risolutiva. L’Innominato ricorda al lettore che è lecito sbagliare, anche con dolo, ma che è anche possibile redimere i propri errori e fare del bene, partire dai mali commessi e volgerli a un fine benefico. La commozione che produce nel lettore la scena del pentimento del bravaccio, è carica di umanità, lascia trasparire tutto il turbamento interiore, i ritorni e ripensamenti, il terrore di una punizione, anche divina, ma al contempo la forza di riesaminarsi e chiedere scusa.

È proprio l’incapacità di chiedere perdono che fa di un altro personaggio, la monaca di Monza, forse la figura più umana della vicenda. Figlia di una nobile famiglia, ma in quanto donna destinata alla vita religiosa, Gertrude rappresenta la reazione più comprensibile di una figlia tradita dal padre. Portata in convento con la forza, allontanata dalla vita che avrebbe voluto, e potuto, condurre, per darsi ai voti e alla preghiera senza alcuna personale forma di sincera devozione.

Priva di malvagità nei confronti della famiglia e priva di ogni possibilità decisione, Gertrude reagisce alla vita religiosa cui viene costretta facendo l’opposto di ciò che si addirebbe a una monaca. intrattiene una relazione con il giovane Edigio, adottando atteggiamenti di vendetta e cattiveria con le proprie compagne e sfogando su Lucia una vendetta ingiustificata e frustrata.
In Gertrude si incarna il conflitto genitore-figlio che molti adolescenti affrontano e la ribellione che ne deriva. La monaca di Monza è una figura frustrata e inappagata dalla propria vita, come tale sfoga il proprio sadismo su chi si imbatte in lei: qui la povera Lucia. Ma nella monaca sta tutta l’umanità di una donna che se avesse potuto scegliere del proprio destino, se il padre le avesse saputo chiedere scusa per le imposizioni inflitte, sarebbe probabilmente rimasta la persona buona e altruista, disposta addirittura per affetto a sacrificare la propria felicità per il volere dei genitori. Tre personaggi, tre comportamenti più che attuali: fermezza, pentimento e frustrazione.

Nella narrazione de I promessi sposi non è messa sulla pagina solo la vicenda di un amore contrastato ma anche uno spaccato di passioni umane che hanno la medesima forza travolgente nell’uomo dell’oggi. Leggere I promessi sposi non è solo un noioso compito scolastico, ma un esercizio di messa a confronto con un’umanità lontana nel tempo ma vicina nelle affezioni che ha ancora tanto da dire a distanza di duecento anni.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Il nome della rosa: verità capovolte e intersezioni letterarie

Il nome della rosa: verità capovolte e intersezioni letterarie

Il nome della rosa: verità capovolte e intersezioni letterarie

“Il nome della rosa” è certo tra i romanzi gialli più letti dell’ultimo ventennio del Ventesimo secolo, incalzante, avvincente, misterioso. Un capolavoro di scrittura, cultura letteraria e riflessione filosofica.

Pubblicato nel 1980, Il nome della rosa è certamente il romanzo più celebre scritto da Umberto Eco, scrittore, semiologo, traduttore e medievista italiano, intellettuale di spicco della scena letteraria italiana novecentesca. Nota è la trama dell’opera, giallo storico ambientato tra i cupi ambienti di un’abbazia benedettina sull’Appennino toscano. Il suo protagonista è il frate Guglielmo da Baskerville, che insieme all’allievo Adso da Melk, si reca presso il monastero per discutere presso un congresso di francescani in merito alle proprie posizioni pauperistiche. La vicenda si svolge nel pieno clima medievale, nel 1327, tra inquisitori, congressi papali e scontri tra le correnti interne alla Chiesa.

È durante la permanenza di Guglielmo presso l’abbazia che si verifica una serie apparentemente inspiegabile di omicidi di confratelli. Omicidi probabilmente giustificati dalle lotte di potere intestine all’abbazia, e la cui soluzione sembra risiedere in un libro nascosto tra gli anfratti della biblioteca del monastero. Ma la biblioteca è un intricato labirinto dalla forma ottagonale, la cui organizzazione planimetrica è nota solo al bibliotecario e al suo aiutante Berengario. Le indagini si interrompono all’arrivo della delegazione papale, mentre le morti si accrescono misteriosamente giorno dopo giorno.

Il misterioso libro si scopre essere un manoscritto su commedia e riso, la Poetica di Aristotele, cosparso di una velenosa sostanza che provoca la morte immediata al contatto per impedirne la lettura e la divulgazione. È il monaco Jorge a custodirlo gelosamente, il quale nella fuga da Guglielmo per precludergli l’accesso al libro, rovescia un lume provocando un incendio che divampa nella biblioteca. I due protagonisti, Guglielmo e Adso, riescono a scampare, lasciando l’abbazia presso la quale frate Guglielmo farà ritorno solo molti anni dopo.

L’opera è un romanzo storico che sfrutta l’espediente del manoscritto ritrovato. Alcuni interessanti aspetti della sua stesura sono il fatto che le descrizioni dei personaggi della vicenda siano un omaggio ad Arthur Conan Doyle e al suo celebre personaggio: Sherlock Holmes, che Guglielmo a tratti ricalca nelle vesti di un acuto investigatore. Allo stesso tempo Adso sembra ricordare Watson, desideroso di apprendere l’arguzia del maestro, ma distratto e poco perspicace.
Anche nei luoghi di ambientazione si possono cogliere alcuni rimandi. Lo scriptorium del monastero fa diretto riferimento all’abbazia di San Colombano presso Bobbio, e la biblioteca richiama a tratti quella situata nei pressi dell’abbazia di San Gallo in Svizzera, entrambi poli di rilievo nella cultura bibliotecaria e manoscritta medievale. Un aspetto curioso riguarda il misterioso manoscritto responabile di intrighi e morti: la Poetica aristotelica, infatti l’opera andò perduta secoli addietro, come poteva dunque trovarsi presso la biblioteca? La menzione ad Aristotele è voluta e si lega alla figura di Dante Alighieri e all’impianto tolemaico-aristotelico nel quale lo scrittore fiorentino articola la sua Commedia, infatti di commedia parlava proprio l’opera di Aristotele. Il poema dantesco fa da riferimento per via dei suoi quattro livelli di lettura (letterale, allegorico, morale, anagogico), livelli attraverso i quali può essere letta la stessa opera di Eco; livelli che si adattano ad ogni tipo di lettore e che rendono possibile un superficiale contatto con l’opera fino alla penetrazione nei suoi più profondi significati.

L’opera ripropone infatti a più riprese il complesso tema della costante e onnisciente presenza di Dio nel mondo. Concezione che porta ad una messa in dubbio dell’idea stessa di verità e le sicurezze ad essa legate. Guglielmo affronta una profonda crisi intellettuale nell’interrogarsi su quanto sia determinato e determinabile dalla ragione umana, prima tra tutte la sua, e quanto da Dio, scardinando l’idea stessa di verità. Un apparente sovvertimento d’ordine che si fa metafora degli anni immediatamente precedenti a quelli della stesura del romanzo, i moti sessantottini e la concitata situazione politica degli anni ’70, quasi a fare della riflessione teologica uno strumento di indagine delle dinamiche socio-politiche contemporanee a Eco. Di qui Il nome della rosa, nei tempi degli omicidi della “Rosa Rossa”, come quello di Moro.

In una struttura di rimessa in riesame di tutto il reale, la citazione interna al testo dal De contemptu mundi: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus assume un il valore di chiave di lettura dell’opera. Non restano che nomi, significanti che perdurano nel tempo opponendosi a una transitorietà delle cose che è connaturata nel loro stesso esistere.

Il romanzo, fatto di rimandi interni ed esterni che spaziano dalla tradizione letteraria alla società contemporanea, è un intricato labirinto dove ogni supposizione sembra inspiegabilmente fallace, tutto può capovolgersi. Tra le pagine il lettore è catturato da un giallo che non sembra avere soluzione, si perde tra i labirinti fisici dell’abbazia e psicologici dell’indagine. Fino alle ultime pagine è lasciato con il fiato sospeso, in un senso di precarietà, intento a ripercorrere le proprie supposizioni e chiedersi chi davvero sia l’assassino, qual è la verità, cos’è la verità.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Un amore, attesa che nutre e logora l’uomo

Un amore, attesa che nutre e logora l’uomo

Un amore, attesa che nutre e logora l’uomo

L’attesa come leitmotiv della prosa di Dino Buzzati, fa ora la sua comparsa in scena nelle vesti di un amore, non ricambiato, umiliante, eppure il solo capace di sorreggere l’uomo nell’oscillazione costante tra vita e senso di morte imminente.

Attesa, umiliazione e sesso, tre poli sui quali si snoda un romanzo che travolge il lettore al punto da farlo sentire partecipe in prima persona delle frustrazioni del personaggio. Una tensione che protende verso l’impossibile realizzazione di un amore, Un amore è energia e pulsione alla vita.

Guido Piovene ha parlato di Un amore di Dino Buzzati (1963) come di “un libro che affanna il lettore”, la trama dipinge i conflitti di un uomo maturo, Antonio Dorigo, attratto dalla giovinezza dell’insidiosa Laide.
Sullo sfondo la Milano degli anni ’60, città fervida di vita, città che aggroviglia nel suo dinamismo, nelle sue luci e nelle sue ombre.
Antonio è un architetto, estraneo all’amore, vive con le donne un rapporto quasi “mercenario”, dove la donna è ridotta a mero strumento di piacere, l’incontro di una notte nella casa di appuntamenti della raffinata signora Ermelina.
Ed è proprio durante uno dei suoi abituali incontri notturni che Antonio si imbatte in Laide: giovane, bella, minorenne, bambina e donna al contempo, ballerina di giorno, amante di notte. Quella per Laide si tramuta in breve tempo in un’ossessione travolgente, sconvolgente, che incatena Antonio in uno stato costante di frustrazione, in una tensione al compimento di un amore mai appagato e mai condotto oltre l’atto sessuale in sé.

Il rapporto tra i due è sorretto da un’asimmetria: Antonio dominatore, incapace di vincoli e legami con una donna, diventa il dominato, mentre è Laide, la bambina, a dettare tempi e modi della relazione. Laide mente, inganna Antonio, ma Antonio non può fare a meno di lei.

Laide assume per il protagonista quei contorni di pulsione alla vita che gli consentono di esorcizzare l’idea della morte. La morte è vuoto, Laide riempie il tempo di Antonio, che si arrovella nell’attesa di lei in uno stato perenne di incertezza e attesa. Fino alla perversione, il protagonista costruisce sulla donna irraggiungibile una concezione della propria esistenza vincolata dalla presenza di lei, continuamente attesa e mai afferrata.

Quasi un ribaltamento dell’amore stilnovista, dove a contemplazione e beatitudine si sostituiscono sesso e frustrazione. Uno Stilnovo moderno dove l’amore è rappresentato come situazione umiliante che mette in evidenza la fragilità umana. L’amore dà all’uomo la parvenza di poter colmare il vuoto della morte, ma per contro lo trascina in un baratro altrettanto struggente.

Le dinamiche della relazione tra Antonio e Laide sono descrivibili come di ciclicità e contrapposizione. Contrapposizione laddove Antonio prova per la giovane un sentimento duplice di attrazione e rigetto. Ciclicità poiché il romanzo si conclude con la notizia che Laide aspetta un figlio. Laide conferisce continuità alla vita, mentre Antonio non riesce, fino all’ultima pagina del romanzo, a risolvere a pieno il proprio tormento interiore.

Buzzati orchestra nella vicenda di Antonio una rappresentazione di quella che è la propria concezione della vita come attesa costante di una morte certa. Quello stesso senso di sospensione che aveva già caratterizzato la sua più nota opera: Il deserto dei tartari (1940). In Un amore, però, assume i toni della materia scabrosa e imbarazzante riportata sulla pagina in modo spregiudicato, senza ritegno.
Ecco che l’attesa si fa strumento per protendere al futuro, ed esorcizzare la morte. Nelle parole di Antonio:

“…c’era la speranza e le stesse lotte quotidiane, le attese i palpiti le telefonate riempivano l’esistenza era una lotta insomma una manifestazione di energia e di vita adesso non c’è più niente.”

Il senso ultimo dell’esistere si concreta così, ancora una volta nella prosa di Buzzati, come una tensione umana verso l’avvenire e una rigenerazione costante della vita.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.