Robert De Niro: domenica in chiesa, lunedì all’inferno

Compie 79 anni uno dei simboli più genuini dell’italianamerican, che rivela il suo talento rivoluzionario nel primo capolavoro di Martin Scorsese.

La carriera di Robert De Niro decolla all’alba degli anni Settanta. Mean Streets esce nel 1973; In Italia il titolo non viene tradotto, ma l’aggiunta del sottotitolo con i due giorni della settimana introduce la dialettica degli opposti; De Niro interpreta Johnny Boy Civello, giovane disadattato che fa esplodere per gioco le cassette della posta, rincorso dai creditori e alla ricerca di nuovi gonzi cui prendere denaro. È sospeso tra la sua inaffidabilità e la devozione per l’amico Charlie (Harvey Keitel), che cerca di difenderlo da tutti, soprattutto da sé stesso.

Johnny boy tornerà più volte, sarà il Travis Bickle di Taxi Driver, Jake La Motta di Toro Scatenato o Noodles di C’era una volta in America; eroi universali tormentati ed alienati dal contesto sociale che si evolve spietatamente, senza riguardo per gli inadatti, siano essi persone fragili o reduci di una guerra persa.

C’è qualcosa di più sullo sfondo delle sue performance: nei Seventies il contesto in cui si muove l’attore è una New York economicamente sconfitta: austerity con tagli all’energia e saccheggi metropolitani; il sindaco nel 1975 chiede a Washington il salvataggio, che Gerald Ford non concederà. Il Daily News titolerà “Crepa New York!”, riferendosi alla risposta di Mr. President.

John Naughton su GQ arriva a identificare De Niro con la sua città. L’uomo con le sue nevrosi e i suoi flussi di incoscienza è il newyorchese che ha perso i riferimenti, mentre NYC è ancora la città che non dorme mai, ma per motivi tutt’altro che nobili. Il sogno americano langue e denuncia i suoi limiti e le sue ipocrisie; all’inizio degli anni Novanta è sempre De Niro che ne mostra l’altra faccia, con la clamorosa interpretazione dell’apparentemente tranquillo Max Cady che si trasforma in sadico aguzzino del suo avvocato in Cape Fear. E John Hinckley, dopo aver attentato alla vita di Ronald Reagan nel marzo del 1981, dichiarerà di essere rimasto stregato dal film, da Jody Foster (che recita la parte di una baby prostituta) e di essersi ispirato proprio al personaggio di De Niro.

LA RECITAZIONE.

“Una volta Robby mi dice: “sai come un attore legge una sceneggiatura?”. “Come?” – rispondo io. “Adesso te lo mostro.” E inizia a camminare e a scorrere lo script dicendo: “stronzate! Stronzate! Stronzate!””.

“Harvey Keitel, Kennedy Center Honors per Robert De Niro, 2009.

Secondo i dettami della Stella Adler Academy, De Niro cerca la totale immersione nel personaggio, con un approccio che vuole favorire l’immaginazione prima ancora che le emozioni; l’attore quindi toglie, ma è incredibilmente attento ai dettagli, per essere prima ancora che interpretare. Con una stupefacente e giustamente famosa trasformazione fisica acquista 30 kg per impersonare la parte del grande campione di pugilato La Motta. lo ritrae dalla gloria del ring fino al suo imbolsimento; poi recita in siciliano nel Padrino parte II (e riceve l’Oscar), si rovina i denti e se li fa risistemare a spese sue per Cape Fear.

De Niro spinge come nessuno prima i limiti del concetto di versatilità dell’attore: prende la licenza e guida il taxi di notte per mesi nella sua città (You talkin’ to me?), impara a suonare il sassofono nel flop New York New York.  Si infuria con Mickey Rourke durante le riprese di Angel Heart, per i ritardi sul set e gli atteggiamenti da divo.

È un lavoratore instancabile e perfezionista, e quando decide di prendersi una pausa nel 1977, si imbatte nella sceneggiatura del Cacciatore. Il film parla dell’impatto della guerra nel Vietnam su una comunità di operai della Pennsylvania, e stravolge i programmi di Bob. Risultato: cinque Oscar, tra cui il miglior film. Una delle sue frasi iconiche rimarrà: “Il talento è nelle scelte”.

Stavamo girando “Quei bravi ragazzi”; nella scena in cui io accoltello ripetutamente Frank Vincent steso nel bagagliaio, ad un certo punto mi accorgo che De Niro al mio fianco mi fissa perplesso. Gli dico: “Che c’è Bob?”. “Nulla” fa lui, ma io insisto: “O parli o pugnalo te invece di Frank!”. “Stavo pensando…” – fa allora lui – “stai colpendo troppo in fretta; non si può entrare e uscire dalle costole di un uomo così velocemente. Non sei credibile Joe”.

“Joe Pesci, intervento, AFI Life Achievement per Robert De Niro, 2003”.

LA TIMIDEZZA

Una caratteristica ben nota e frustrante per i giornalisti del settore è la ritrosia del divo a rilasciare interviste. Scherzando ma non troppo Martin Scorsese, ospite del Tonight Show, saputo dal conduttore Jimmy Fallon che De Niro era stato lì poco prima, chiede “Did he speak?”. La capacità di trasformarsi e di rubare la scena sul set si è perfettamente saldata con la sua necessità di non dire. E negli anni questo aspetto del suo carattere ha portato il pubblico ad immaginare, anche al di fuori dei film, e a riempire i suoi vuoti. Solo più di recente ha aperto la bocca più spesso; ha destato stupore il suo proposito di “prendere a pugni” il presidente Donald Trump per alcuni aspetti della sua politica.

Nel nuovo millennio si è dedicato anche a ruoli più leggeri, magari autoironici come in “Un boss sotto stress” o “Ti presento i miei”, ma Robert De Niro, è diventato una star recitando spesso il ruolo dell’outsider, del cattivo o di uno dei cattivi del film. Non si è mai veramente preoccupato di opinioni degli addetti ai lavori, pur rispettandone il ruolo. Ha lasciato parlare la sua arte.

Personalmente nessuno come lui, se non il migliore Al Pacino, mi ha fatto apprezzare in un attore la volontà di cogliere in un essere umano virtù e debolezze, slanci di umanità e bassezze. Sempre con compassione, mai volendo giudicare. Tutti gli attori e le attrici devono fare i conti con la sua arte, con il suo modo sincero, senza sconti e senza preconcetti, di entrare nel mondo dell’uomo descritto nella sceneggiatura.

Voler capire da dove nasce il male nei suoi gangster, senza probabilmente considerarli tali. Non cercando né buoni né cattivi, solo persone senza etichette, attraverso le quali lanciare messaggi universali su di noi.

“Eravamo a Parigi, e in un pomeriggio stavamo sostenendo settanta interviste per la promozione di “Terapia e Pallottole”, e Bob mi voleva sempre con sé, per il semplice motivo che io parlo. Bob odia parlare nelle interviste: si limita a fare le sue smorfie, e alla fine dice “basta così, no?”

“Billy Cristal, introduzione della cerimonia, AFI Life Achievement per Robert De Niro, 2003”.