Le voyage, un invito all’abbandono
Le voyage, un invito all’abbandono
L’oppressione del tempo, la finitezza del mondo, l’incolmabile tensione inappagata verso un altrove che non possiede né un quando né un dove. Quando l’anima tende all’infinito gravata dall’insuperabile limitatezza dell’umano, il viaggio verso l’ignoto che alla morte si accompagna appare il più seducente approdo.
Les Fleurs du mal
Pubblicata in prima edizione nel 1857, la raccolta di componimenti I fiori del male costituisce un vero e proprio invito alla dissolutezza, a infrangere il limiti della morale condivisa in nome del perseguimento di un più alto Assoluto. L’opera si impernia intorno a quelli che sono i temi più ricorrenti del suo autore, Charles Baudelaire, quali peccato, satanismo, tensione all’inconnu, amore carnale e morte.
Charles Baudelaire fu da sempre etichettato come autore immorale, il depravato poeta dedito all’alcol, al sesso e al culto di una deviata religione ruotante intorno a un Assoluto non cristiano. L’etichetta di infrazione della morale costituisce tuttavia un parziale limite, seppure veritiero, all’interpretazione dell’opera baudleriana.
Quella del poeta che conduce la sua flanerie tra le vie di Parigi, è un’acutezza di spirito che lo porta a tentare di oltrepassare i limiti dell’umano per pervenire a segrete corrispondenze tra le cose del mondo che conferiscano un significato superiore, profondo, inconoscibile ai più, sui profondi legami che nella realtà si celano. Le corrispondenze baudleriane stanno ad esprimere significati più alti, difficili da cogliere, che richiedono un oltrepassamento della materialità terrena e che al contempo impongono al poeta che le insegue un profondo senso di inadeguatezza nel mondo. Lo spleen non è altro che il malessere derivante dalla costante incompiutezza che caratterizza la vita del poeta, circondato da uomini incapaci di innalzare il proprio spirito a più reconditi significati.
Le voyage
I fiori del male si sviluppa dunque come la messa in pratica di svariati tentativi di evasione da una condizione che imprigiona e limita l’uomo dotato di una sensibilità superiore. L’unico definitivo approdo cui il poeta può pervenire per cercare di toccare con mano l’inconoscibile di cui nessun mortale ha mai potuto narrare è il viaggio verso la morte. Così si intitola dunque l’ultimo testo della raccolta, Le voyage: “il viaggio”. La poesia è dedicata all’amico Maxime du Camp e costituisce una sorta di implosione del desiderio di esplorazione dell’inconnu, il malessere dell’esistere portato alle sue estreme conseguenze che assume la forma di un completo abbandono alla morte e all’ignoto. Le voyage è dunque il viaggio verso la morte vissuta come unico appiglio nella speranza di trovare oltre la vita qualcosa che colmi un sentimento esistenziale di tensione inappagata.
L’estremo transito non è concepito come eterno riposo, ma come movimento, mezzo di evasione, un condottiero che guidi a nuovi lidi. Ecco dunque che la morte all’interno della poesia viene personificata in un vecchio Capitano, interlocutore di Baudelaire:
O Morte, vecchio capitano, è tempo! Leviamo l’ancora!
Questo paese ci annoia, o Morte! Salpiamo!
Se cielo e mare sono neri come inchiostro,
I nostri cuori che tu conosci sono colmi di luce!
Versaci il tuo veleno affinché ci riconforti!
Noi vogliamo, tanto questo fuoco ci brucia il cervello,
Tuffarci giù nel gorgo profondo, sia l’Inferno o il Cielo, che importa?
Giù nell’Ignoto per trovare del nuovo!
L’approdo finale
Il poeta in costante equilibrio tra spleen et ideal deve annegare nelle acque dell’inconnu per ritrovare l’originario Assoluto cui la sua vita ha sempre teso. Il testo di Le voyage è il più lungo della raccolta e ogni strofa incalza nuovamente l’invito all’abbandono. L’esortazione è quella di lasciarsi andare al ritmo delle onde cullando il nostro infinito sull’infinito dei mari, l’infinito cui l’animo dell’uomo dotato di sensibilità tende, l’infinito anelato che non può neppure essere sfiorato fin tanto che l’individuo percorre le comuni strade dei mortali.
L’anima stessa è chiamata veliero, quasi la sua tensione naturale fosse la navigazione e non la stasi cui la vita la costringe. La nave ormeggiata in un porto privo di flutti si trova relegata in una condizione contraria alla sua natura e alla sua funzione. Così l’animo umano vuole navigare senza vapore e senza vele, abbandonarsi al movimento delle acque e lasciare che sia una sorte non controllabile a indicare la meta. Il viaggio senza una meta fissata distrae il poeta dalle proprie prigioni, lo libera progressivamente dallo spleen e gli permette di acquisire una condizione degna e appropriata al suo essere. Il mondo è chiamato monotono e meschino, l’animo dal cuore giovane sarà felice di viaggiare solo una volta imbarcatosi sul mare delle Tenebre. Sarà il Capitano a guidare il veliero, non conta la meta, conta l’appagamento, un appagamento amorfo, assoluto, inconsistente al pensiero ma anelato lungo l’arco di una vita intera.
Il voyage fu per Baudelaire non l’infrazione di una norma sociale, bensì il tentativo di oltrepassamento di una prigione intima e personale, seppur umanamente condivisibile.
Martina Tamengo
U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.
Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.
Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.