Alla fine dell’edizione del festival immagino si cominci subito a preparare quella successiva. Vista l’importanza delle relazioni interpersonali per la creazione del festival, quanto tempo passi in India a cercare contatti?
“Conoscere così tante persone, anche grazie ai contatti presentati da Uma, siamo riusciti a proiettare film e avere grandi ospiti: il feeling tra le persone è stato fondamentale. Io di solito passo in primavera un mese in India a conoscere e interagire per preparare il festival successivo. E gli Indiani amano creare un legame speciale con le persone”.
Come si trova una fiorentina a relazionarsi con l’India?
“In realtà tre cose fondamentali noi italiani le abbiamo in comune con loro: l’amore per il cibo, per la famiglia e quello per il cinema. La cosa che distingue gli indiani da tutto il resto del mondo è la concezione del tempo. Lo si vede anche nella lunghezza dei film, per esempio. Il “qui e ora” non è mai qui e ora, tutto è più dilatato sia nel pubblico che nel privato. Bisogna armarsi di pazienza con loro oppure organizzarsi al meglio. C’è una parola in hindi che riassume tutto perfettamente, kal, che significa “sia ieri sia domani”: la lingua su questo concetto del tempo è chiara, ed esplicita perfettamente quale sia la loro concezione del tempo.
Mi è successo di partecipare a proiezioni cinematografiche fissate per le 19:30 e di trovarmi alle 22 ancora ad aspettare che iniziasse la proiezione. È difficile, per esempio, prendere un appuntamento con loro tra due settimane, devi fare tutto all’ultimo e mi è successo di partire con un’azienda italiana di product placement per l’India senza aver nessun appuntamento ma organizzare tutto una volta lì. Questa è una grande differenza nella visione del tempo”.
Come mai secondo te il cinema indiano non ha attecchito in Italia come invece ha fatto in altri paesi europei (Inghilterra o Francia)?
“Perché qui il cinema indiano è percepito ancora come qualcosa di esotico e molto distante da no e dalla nostra culturai. C’è, su questo, ancora molto pregiudizio; non viene vista come una vera cinematografia. E poi c’è tutto il problema della lingua e del doppiaggio: nel resto del mondo è sdoganato il fatto di guardare i film in lingua originale coi sottotitoli, in Italia invece la lingua originale è percepita ancora come un ostacolo”.
Le protagoniste dei film che hai selezionato si sono interfacciate con la dicotomia fra oriente e occidente: quanto è percepito e quanto è influente – se lo è – il modello occidentale nel mondo indiano?
“Il loro modello di riferimento è fondamentalmente quello americano; i film che escono in India al cinema infatti sono praticamente solo americani. Loro sono però molto legati alle proprie origini: cibo, festività, ritualità familiari ecc. sono molto radicate e sentite, poi comunque si aprono anche all’occidente. Resta però il fatto che anche le persone più moderne, aperte mentalmente e culturalmente che ho conosciuto sono talmente legate alle loro tradizioni da risultare contraddittorie. La fissità di certe tradizioni indiane entra in contrasto spesso con l’apertura verso il resto del mondo, ma, secondo me, è proprio questo il bello della cultura indiana.
Per esempio, ho conosciuto una coppia fantastica, estremamente aperta e che ha girato il mondo e quando mi hanno raccontato il loro amore è frutto di un matrimonio combinato non potevo crederci. Eppure, lì, quello che da noi può sembrare fuori dal mondo, è consuetudine.
Ma per esempio anche prima delle proiezioni dei film si fa la puja, un atto di adorazione verso una divinità che prevede un’offerta o un rito: è così in tutti gli ambiti della vita e che avvengono anche nei luoghi più contemporanei e aperti verso il mondo.
Sicuramente ho visto tante situazioni particolari, soprattutto per quanto riguarda le abitudini alimentari: vedere un indiano ordinare è pazzesco, perché spesso hanno il loro guru, una sorta di guida che spesso aiuta anche a decidere cosa e come mangiare”.