Il male di vivere e perire con gusto ovvero Leopardi a tavola

Il male di vivere e perire con gusto ovvero Leopardi a tavola

Il male di vivere e perire con gusto ovvero Leopardi a tavola

Non è certo noto per la sua allegria o la vita mondana, ma Giacomo Leopardi sembra un’altra persona quando si parla di cibo. Se davvero siamo quello che mangiamo, come inquadrare la più brillante mente filosofica dell’Italia dell’Ottocento?

Sebbene Giacomo Leopardi non fosse proprio il manifesto della felicità e dell’ottimismo, non rinunciava ai piaceri del cibo. Scrisse nello Zibaldone a proposito del mangiare: “occupazione interessantissima la quale importa che sia fata bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il benessere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo”. Frase che detta da chi ha elaborato i concetti di pessimismo storico e di pessimismo cosmico assume tutto un altro fascino.

Il suo rapporto con il cibo era di godimento e gusto. Scrisse infatti una lista di quarantanove pietanze che amava particolarmente, fra cui frittelle di riso, carciofi fritti nel burro, zucca fritta, pane dorato, cervelli fritti, ricotta fritta, pasta sfoglia, polpette, paste frolle, capellini al burro, pasticcini di maccheroni di grasso e di magro, bodin di latte, riso al burro, patate al burro, purè di fagioli, latte a bagnomaria, latte fritto. Sì, latte fritto. Che non è molto diverso dalla nostra crema fritta, o no?

La lista leopardiana serve da pretesto a Domenico Pasquariello e ad Antonio Tubelli, artista il primo e cuoco il secondo, per raccontare in un libro, seguendo il ritmo delle stagioni, le atmosfere e i sapori della Napoli del primo trentennio dell’Ottocento, in cui si collocano episodi e suggestioni relativi agli ultimi anni di vita di Giacomo. A conclusione venti ricette ispirate alla lista. Il volume, pubblicato nel 2008 e da poco ristampato, si chiama Leopardi a tavola ed è edito da Fausto Lupetti.

Non è che Leopardi mangiasse proprio sano, e avendo una salute cagionevole questo era un problema. Scorrendo l’elenco si nota che manca completamente la carne: non perché non l’amasse, ma perché l’elenco del poeta rispecchia alla perfezione quella che era la dieta dell’epoca. Un’alimentazione ricca di carboidrati, in cui le proteine derivavano principalmente dalle uova, dalle frattaglie, dai formaggi e in rari casi dal pesce.

Eravamo un popolo che consumava prevalentemente pane e vegetali, dove la carne faceva la sua comparsa (se la faceva) a domeniche alterne: nel primo decennio del Novecento il consumo di carne era di appena quindici chili pro capite all’anno, contro gli oltre duecento chili di pasta e pane. Negli anni del boom economico, improvvisamente, il consumo di proteine è salito in maniera esponenziale: la carne da un decennio all’altro – dagli anni Sessanta agli anni Ottanta – aumenta di ben venti chili pro capite.

Leopardi mangiava tantissimo gelato, tanto che sembra che non abbia voluto allontanarsi da Napoli durante il colera proprio per non rinunciare ai gelati di Vito Pinto alla Carità, famosissimo gelataio partenopeo dell’epoca. Inoltre beveva moltissimo caffè, zuccheratissimo, che amava sorseggiare ai tavoli del Caffè d’Italia in Piazza San Ferdinando. Era goloso, senza orari, capriccioso, e sembra che negli anni di Napoli sublimasse con il cibo gli altri piaceri che gli erano negati. Un po’ come noi fra marzo e maggio dell’anno scorso, quando blindati in casa senza possibilità di vedere i nostri affetti ci siamo lanciati su pacchi di patatine e barattoli di gelato.

Era malato, certo, ma Leopardi viveva una vita abbastanza disordinata, dormendo di giorno e svegliandosi solo nel tardo pomeriggio. Chiedeva che gli servissero la colazione al pomeriggio e il pranzo a un’ora variabile tra le dieci di sera e mezzanotte. Nonostante la salute, non seguiva le prescrizioni dei medici: se questi gli ordinavano di non mangiare carne, decideva immediatamente di “perire di pesci e di vegetali”. Quando invece gli prescrivono una dieta di grassi, non ne vuol più sapere di pesce e verdure, dichiarando allegramente di voler “perire” con l’abbuffarsi di lessi e col sorbire brodi densi come la panna.

E di cos’è morto Giacomino? Forse non di colera. Secondo uno studio del professor Cesaro, pare sia morto per aver mangiato un chilo di confetti. Inoltre, forse per attenuare gli effetti dell’indigestione, gli era stata data una tazza di brodo caldo di pollo e una limonata fredda: una miscela rivelatasi micidiale, che avrebbe provocato – in aggiunta – una congestione intestinale.

Vivere male, ma perire con gusto. In fondo, non è forse di dolciumi che avremmo tutti voluto morire da bambini?

di Gaia Rossetti

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

Matteo Saudino a Filosofarti 2022: l’eredità della scuola di Mileto

Matteo Saudino a Filosofarti 2022: l’eredità della scuola di Mileto

Matteo Saudino a Filosofarti 2022: l’eredità della scuola di Mileto

In data 23 febbraio 2022, nell’ambito di Filosofarti, il festival di filosofia della provincia di Varese, Matteo Saudino si è soffermato su alcune caratteristiche fondamentali della scuola di Mileto, pioniera del pensiero filosofico occidentale, e sull’eredità che questa può trasmette all’individuo contemporaneo.

Ancora una volta Matteo Saudino, professore di filosofia e divulgatore, con  chiarezza e disarmante passione divulgativa, riesce a offrire notevoli spunti di riflessione su questioni contemporanee. 

In un tempo in cui il nichilismo si fa faro dell’odierna civiltà pensante, nonché ripiegamento necessario alla luce dei fatti bellici che forzano l’Europa occidentale a uscire dalla sua fase post storica, l’indagine che si rivolge agli albori della filosofia occidentale potrebbe offrire nuova linfa al fine di porre nuove fondamenta per l’essere umano di domani. 

La storia del pensiero occidentale riconosce nella scuola di Mileto, senza negare il contributo del pensiero orientale,  la pietra angolare e incipit del pensiero atto all’indagine fisica e metafisica. 

Perché proprio Mileto, polis greca dell’Asia Minore (attuale Turchia), assiste alla nascita di tale cenacolo intellettuale? Come sottolinea il prof. Saudino, Mileto, nel panorama ellenico, era una città relativamente libera, i cui abitanti erano mossi dallo spirito di curiosità e dal pionierismo che li porterà ben presto ad un incontro/scontro con l’ascendente Impero persiano. 

La lettura della scuola di Mileto è antidoto alla frammentarietà dell’anima dell’individuo contemporaneo. I suoi tre principali esponenti, e cioè Talete e Anassimene, nonché lo straordinario Anassimandro, pongono le fondamenta per un’indagine guidata dalla curiosità e dalla meraviglia

La curiosità è voglia di scoperta che non contempla fini carrieristici e pratici, che guida uno spirito libero all’uso del logos nell’indagine fenomenica. A tal proposito emblematico è l’esempio di Talete il quale, secondo la tradizione, misurò l’altezza della piramide di Cheope e previde un’eclissi osservando i movimenti del sole e della luna. La filosofia che nasce a Mileto è una disciplina affrancata dalla praticità, fine a sé stessa e anarchica, la quale rende veramente liberi proprio per la sua inservibilità. 

Tale è la portata dell’esempio di Talete: in una società in cui fare senza perseguire un fine è un lusso, in cui persino la scuola si avvelena di istanze imprenditoriali atte a formare più lo spirito pratico che critico, la scuola di Mileto è foriera di libertà spirituale e intellettuale. Essere curioso, ribadisce il prof. Saudino, è un diritto, come lo è  l’indagine scevra di fine pratico. 

La curiosità ha il segno indelebile della polemica. Essa non è misera e sterile scena televisiva come quella alla quale si assiste ultimamente tra virologi supponenti e no-vax irriducibili. La polemica che nasce a Mileto è quella che abitua alla complessità del reale, è fertilizzante che fomenta la maturazione. La nostra contemporaneità è caratterizzata dalla mancanza di polemica, sia a livello politico che scientifico. Quanti sono i biologi, virologi che, in questi ultimi anni di pandemia, hanno assunto una postura paternalistica e anti divulgativa, che abituasse la popolazione ad una scienza del dubbio, aperta e accessibile, che cambia al cambiare del virus? Quanti politici sono digiuni di scienza, quasi avulsi dal reale? 

La polemica, infatti, implica che il sapere sia orizzontale e verticale e non calato dall’alto. A differenza della scuola di Pitagora, gerarchica e piramidale, nell’ambito della quale solo in presenza della rivelazione si era in grado di dispensare sapere, quella di Mileto è orizzontale, abituata all’esercizio collettivo del logos. A Mileto non era lesa maestà essere in disaccordo con un sapiente, sottolinea il prof. Saudino. 

Infine, l’ultimo e fondamentale carattere messo in evidenza della scuola di Mileto è il coraggio che porta all’anticonformismo. Essere anticonformista non significa livellarsi sul banalismo odierno. Si tratta invero di un atto profondo e audace, figlio del logos spregiudicato che osa andare contro l’ordine sapienziale costituito.

Un esempio di tale audacia è rappresentato dal celebre Anassimandro, padre dell’apeiron (infinito). A tal proposito il prof. Saudino afferma:

Coricarsi con al proprio fianco l’infinito può dare inquietudine; meglio coricarsi con la finitudine. 

Come può l’uomo, finito e caduco, proiettarsi sull’infinito? Anassimandro incarna proprio l’inquietudine tutta umana del senza-limite: l’infinito è l’archè che governa il mondo, la causa della natura. L’infinito causa vertigine: pensare a infiniti mondi nello spazio e nel tempo abitua il logos a scardinare dalle fondamenta gli assetti del finito comunemente accettati. Ecco l’audacia del pensiero e l’anticonformismo che si dovrebbe riscoprire e imparare, quell’audacia che scrolla l’essere umano dall’intorpidimento del totale ripiegamento in sé stessi, dal nichilismo, che ispira l’azione del logos, edificazione morale.  

L’anticonformismo di Anassimandro, aggiunge il prof. Saudino,  lo spinge ad affermare che ciò che accade è secondo ananke (necessità) e dike (giustizia), i quali guidano il divenire del mondo. Quante volte abbiamo incolpato soggetti terzi di ciò che accade? L’ananke e la dike smentiscono la colpa, poiché ciò che si verifica è giusto: la natura di per sé non conosce errore o ingiustizia.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Filosofarti torna in presenza: tutto pronto per l’edizione 2022

Filosofarti torna in presenza: tutto pronto per l’edizione 2022

Filosofarti torna in presenza: tutto pronto per l’edizione 2022

Il festival di filosofia organizzato dal Centro Culturale del Teatro delle Arti si svolgerà, in una doppia veste, fisica e digitale, dal 19 febbraio al 29 marzo

Un calendario fitto di incontri, di conferenze e di un “fare cultura” che, dopo un biennio “complicato”, finalmente torna in presenza, seppur con i dovuti punti di domanda dettati dagli sviluppi della pandemia. Dal 19 febbraio al 29 marzo si svolgerà la rassegna 2022 di Filosofarti, il festival di filosofia che in questa edizione tratterà il tema “Eredità, fare futuro”.

Un tema intenso, attuale, un ponte tra quello che è stato il passato e quello che sarà il futuro ben rappresentato dall’immagine scelta come icona dell’evento: l’Angelus Novus dell’artista svizzero Paul Klee. “Una immagine che rappresenta al meglio il tema dell’evento”, spiega Cristina Boracchi, curatrice del festival. “Un angelo che apre le ali e guarda il passato disgustato, indirizzandosi verso il futuro. È un tema importante con il quale abbiamo voluto confrontarci: ci poniamo come testimoni della contemporaneità, rifletteremo su chi siamo, su chi saremo e, soprattutto, su che cosa lasceremo. Abbiamo un patrimonio da costruire”.

Un patrimonio che verrà costruito in una doppia veste: fisica e in presenza fin dove possibile, digitale quando le condizioni lo imporranno.
Ci siamo assunti una grande responsabilità con questa nuova edizione: l’informatica, l’utilizzo di nuove tecnologie ci ha permesso di ampliare i nostri confini, di poter essere seguiti anche da spettatori in tutto il mondo – prosegue Cristina Boracchi –. In questo triennio la cultura online è stata particolarmente apprezzata, ma abbiamo sentito la necessità di fare quanto possibile per tornare in presenza, anche se ci siamo resi conto che c’è ancora un certo timore da parte del pubblico. Invitiamo comunque il nostro pubblico a consultare spesso il calendario dell’evento e seguirci per eventuali aggiornamenti o cambi di location/data”. In fondo, come sappiamo bene, basta un tampone positivo per cambiare le carte in tavola.

Come abbiamo accennato all’inizio, il fitto calendario di conferenze si aprirà il 19 febbraio con la lezione magistrale dal titolo “A che punto è l’educazione familiare e scolastica?” tenuta da Umberto Galimberti al Teatro delle Arti e si concluderà il 29 marzo in Sala Consiliare a Besnate, con l’intervento di Mauro Magatti. Nel mezzo una lunga serie di eventi, tra musica, filosofia, arte, architettura e tutte la sfere di una cultura che nel corso degli anni ha continuato a evolversi.

 

Il nostro impegno è quello di mantenere viva la nostra eredità con progetti sempre nuovi”, ha dichiarato Elena Balconi, presidente del Centro Culturale del Teatro delle Arti.
Un impegno che ha visto il patrocinio e l’appoggio di diverse enti provinciali, comuni e privati. “Filosofarti è un patrimonio di tutti”, ha commentato a proposito Enzo La Forgia, professore e assessore del comune di Varese. “Eredità è un tema che dovrebbe sempre al centro dei ragionamenti, dalla filosofia alla politica e siamo contenti di poter partecipare come Comune di Varese. In questi anni la nostra provincia è sempre stata ai primi posti a livello nazionale per produttività e benessere, ma più indietro per quanto riguarda la cultura e le iniziative. Per questo siamo convinti che Filosofarti sia una buona occasione per dimostrare quanto la cultura nella provincia di Varese possa fare di più”.

Cliccando qui potrete trovare il calendario degli eventi di questa edizione di Filosofarti.

 

Voltaire fra Illuminismo e polemica

Voltaire fra Illuminismo e polemica

Voltaire fra Illuminismo e polemica

Voltaire muore il 30 maggio 1778. Figura più illustre dell’Illuminismo francese, la sua speculazione non mancò di attirare le critiche di alcuni illustri personaggi, come il lombardo Giuseppe Parini.

[post-views]

Ne Il Giorno, e precisamente a partire dal verso 598 della sezione intitolata Il Mattino, Giuseppe Parini scrive:

O de la Francia Proteo multiforme

Voltaire troppo biasimato e troppo torto 

lodato ancor che sai con novi modi

imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo

ai semplici palati; (…)

L’apostrofe, dal tono ironico e pungente, che Giuseppe Parini indirizza al multiforme Voltaire si situa nell’ambito di una più ampia polemica culturale che l’umanista lombardo intesse contro la Francia e le mode che ne provengono, andando ad infettare la già decadente nobiltà italica. 

Come è noto, il rapporto tra Parini e l’Illuminismo francese, e in particolar modo con Voltaire, conosce vicende alterne: in generale, l’umanista lombardo fa propri gli ideali di eguaglianza illuministi; tuttavia critica proprio l’atteggiamento che gli intellettuali francesi hanno nei confronti della religione, e soprattutto il fatto che le opere illuministe, prime fra tutte proprio quelle di Voltaire, siano diventate di moda presso i salotti nobiliari, costituendo non più proficue occasioni di speculazione filosofica e crescita del pensiero, ma oggetti di consumo: Parini, con uno spiccato senso critico, stigmatizza la “cultura da salotto”, mera ostentazione di precetti e di sapere spesso appreso acriticamente. 

Voltaire, al secolo François-Marie Arouet, nacque a Parigi nel 1694 e morì il 30 maggio 1778. Formatosi presso i collegi dei Gesuiti, fin da giovane fu introdotto presso i più importanti salotti della Parigi mondana.

Trasferitosi a Londra in seguito ad un periodo passato alla Bastiglia, Voltaire rimase affascinato dalla cultura inglese incarnata dalle personalità di Bacone, Locke e Newton; e grazie a tale entusiasmo cominciò un’intensa attività di studio, traduzione e critica delle opere letterarie e filosofiche inglesi. 

Intorno al 1750 Voltaire accetta di soggiornare presso la reggia di Federico II di Prussia, a Sanssouci, continuando la fervida attività di studio e pubblicazione. 

Dopo la rottura dell’amicizia con Federico II di Prussia e varie peregrinazioni, si stabilì nel castello di Ferney intorno al 1760: sono questi gli anni durante i quali Voltaire si afferma come capo dell’Illuminismo europeo e difensore della tolleranza religiosa, nonché dei diritti dell’uomo. 

Al cuore della speculazione volteriana vi è un reale che deve necessariamente essere accettato così come si presenta: l’uomo infatti, creatura destinata alla finitudine e all’ignoranza, deve riconoscere la sua condizione nel mondo al fine di accettarla; egli non deve lamentarsi della realtà o negare il mondo stesso, ma accettare serenamente lo stato delle cose. Voltaire infatti è convinto che il male abbia, a modo suo, una sua consistenza, una sua realtà, come il bene. Ma rinuncia, in virtù delle limitate capacità umane, a indagarne le fattezze e le cause.

Ne consegue una peculiare concezione del sovrasensibile, oggetto polemico di molti pensatori e umanisti che non rinunciano a un orizzonte metafisico: Voltaire non nega chiaramente l’esistenza di Dio, ma si rifiuta di determinarne gli attributi in quanto Dio non interviene nel mondo e nelle questioni riguardanti gli individui. 

La stoccata di Parini a Voltaire non si limita alla denuncia del semplicismo volteriano, ma lambisce anche le questioni puramente letterarie

Continua infatti Parini, a partire dal verso 604:

(…) tu appresta al mio Signor leggiadri studj

con quella tua Fanciulla agli Angli infesta

che il grande Enrico tuo vince assai,

l’Enrico tuo che peranco non abbatte 

l’Italian Goffredo ardito scoglio

contro a la Senna d’ogni vanto altera. 

Parini non potrebbe essere più icastico: la fanciulla invisa agli inglesi (Angli) è per antonomasia Giovanna d’Arco, protagonista del poema eroicomico La Pucelle d’Orléans (1755), mentre con il grande Enrico si allude proprio al poema epico composto da Voltaire fra il 1723 e il 1728, l’Henriade, che celebra le gesta di Enrico IV di Francia, primo della dinastia Borbone. L’Henriade sottende, da parte di Voltaire, un temerario e costante confronto con la l’Italian Goffredo, in questo caso metonimia della Gerusalemme Liberata di Tasso: il confronto, secondo Parini, si risolve inesorabilmente a favore del poema tassiano, esempio mirabile di arte poetica insuperabile dall’alterigia francese. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Perdere la marmellata: quello che fa male di una storia andata storta

Perdere la marmellata: quello che fa male di una storia andata storta

La marmellata e la perdita della routine: i dolori del giovane Cremonini

Che cosa ci fa soffrire in una relazione finita? La mancanza di una persona e la perdite di una lunga serie di abitudini…

Nella vita ci sono quattro certezze: un partito di sinistra neoformato ha vita più breve di una farfalla (ciao Leu, ti perdoniamo per averci provato); il ritardo del treno è direttamente proporzionale alla tua fretta (Ritardo = Stanchezza*Fretta); se tifi Inter vivi tra due poli opposti fatto di gioie immense (poche) e domande esistenziali che ti tormentano e ti fanno svegliare nel cuore della notte come “perché abbiamo comprato Schelotto?”. La quarta certezza della vita è che l’amore fa male, come non trovare più la marmellata di Cremonini.

Si, l’amore fa male, come se ne sono resi conto cantanti, poeti, autori e tutti gli altri. Dalla sofferenza di Dante per Beatrice, passando per la tormentata passione di Leopardi per Silvia, l’amore elegante tra Checco Zalone e la sua Angela, fino ad Ariete e le sue malinconiche canzoni. Nessuno può sfuggire al dolore da rottura.

Ogni volta in cui ti penso mangio chili di marmellata
Quella che mi nascondevi tu
L’ho trovata

Ma che cosa ci fa soffrire nella fine di una relazione, oltre alla mancanza dell’altra persona e la sensazione che qualcosa si sia rotto irrimediabilmente? La perdita di una parte di noi stessi, i piccoli cambiamenti nella routine quotidiana. Mesi, anni di abitudini che sono andate a consolidarsi nel tempo, diventando per noi naturali come l’aria che si respira. La telefonata in pausa pranzo, le cene fuori con qualcuno che conosce te e i tuoi difetti, permettendoti di essere te stesso (un simil cinghiale con apparato digerente senza fondo che tritura talmente tanti piatti al minuto tanto da valutarne l’utilizzo in sostituzione degli inceneritori perché ecosostenibile e più efficace) anche in un AYCE.

La routine, dunque, le piccole cose certe che si realizzano spontaneamente, come se fossero ormai intrinseche nella nostra memoria emotiva, figlie di una conoscenza profonda che svaniscono in un attimo, in una notte d’estate magari, dopo ore di lacrime, parole dette, non dette e addii inespressi. Dal vivo, da lontano, in macchina. Il dolore a posteriori, quando non riconosci più quel volto come qualcosa di familiare. A volte funziona, altre no. Perché questo è la memoria emotiva: una versione interiore della memoria muscolare.

Proprio lì dove ti ho incontrata
Non ci sei più

Che cosa ci manca? La marmellata.

Che cosa ci manca, quindi? La marmellata cercata e non trovata. La marmellata, il nostro vizio proibito, un’abitudine malsana, un difetto. Si, perché quando sei in una relazione tendi a cambiare, a mutare il tuo carattere, cercando di amalgamarlo su quello dell’altra persona. Non è un cambiamento volontario, ma una reazione spontanea, l’inconscia ricerca del compromesso, la base di ogni relazione duratura.

Tu cambi per lei/lui, non metti più quel maglione a righe fucsia e viola che lui odia, cerchi di non mangiarti le unghia perché a lei dà fastidio, cominci a interessarti al calcio (fingi addirittura di comprendere come lui possa trovare guardabile “Cervia-Puzzonese”, match di metà classifica di Serie…dove i puntini di sospensione stanno per una lettera qualsiasi dell’alfabeto aramaico) mentre in realtà muori dentro, la accompagni per negozi (passando del tempo legato fuori con i mariti che ti fissano con lo sguardo di un cane in gabbia, facendoti capire come la vita sia fatta di sofferenze. E andare da Zara il sabato pomeriggio potrebbe essere paragonabile a un crimine contro l’umanità), fai la ceretta più spesso (contro i principi morali dell’inverno), ti fai la doccia anche quando “non sei sudato”. Insomma, muti anche inconsapevolmente.

Ci sono le tue carte, il tuo profumo è ancora in questa casa
E proprio lì, dove ti ho immaginata
C’eri tu!

I vizi, i difetti, le nostre abitudini che cerchiamo costantemente di eliminare, ridurre, nascondere, ma che tornano prepotentemente alla ribalta al termine, quando la fiamma, il motivo della dissimulazione, va spegnendosi. Il controllore non c’è e tu torni a mangiare schifezze, a mischiare carne e pesce, a bere birre come una pozione della buonanotte. Esci tutte le sere o resti in casa fino a quando i tuoi amici/parenti/vicini di casa non chiamano l’azienda dei rifiuti convinti che dentro ci sia una discarica abusiva.

La marmellata che ritroviamo a volte è questo: la parte peggiore di noi che torna dall’oltretomba a tormentarci, prepotente, per dirci che “chi nasce tondo non può morire quadro”.
Non sempre finisce così, altre volte, quando l’altra persona ti tocca dentro così a lungo, una parte di noi stessi cambia davvero, facciamo un passo oltre il nascondere difetti. Mettiamo da parte il nostro orgoglio e il nostro vizio inconfessabile, dopo una prima fase di ordinario squilibrio.

E allora, in questi casi, che cos’è la marmellata nascosta e poi ritrovata? È l’ultimo barlume di lei, la dimostrazione che c’è stata e mangiare la marmellata è il tributo che offri in pegno alla vostra relazione. Un ultimo addio in un cucchiaino. Dolce e dolorosa come ogni finale che si rispetti oppure senza zucchero, amara, come la vita.

Ogni volta in cui ti penso mangio chili di marmellata
Quella che mi nascondevi tu
L’ho trovata

Per Cesare Cremonini la marmellata, per altri una degustazione di birra. E per voi?