Trieste: quella “grazia scontrosa” cantata da Saba

Trieste: quella “grazia scontrosa” cantata da Saba

Trieste: quella “grazia scontrosa” cantata da Saba

Trieste come specchio di un’anima, percorrerne le strade, abbracciarla in un sol sguardo e ritrovare sè stessi laddove si credeva di essersi perduti. Questo fu Umberto Saba.

Trasfigurazione della condizione di Ulisse, in nessun luogo a casa se non nella propria Itaca, così Umberto Saba nella sua Trieste. Città ai margini del panorama letterario italiano primonovecentesco, scissa tra Austria e Italia, crogiolo di razze, realtà di confine, Trieste si fa musa ispiratrice del poeta Saba, un “cantuccio” riparato dalle ferite procurate dagli altri. La città come osservatorio privilegiato per il poeta gli consente un duplice movimento di immersione e distacco da una realtà percepita come contraddittoria.
La contraddittorietà dell’esistenza come motore di un’operazione di autoindagine, la psicanalisi come strumento per il raggiungimento di un’autocoscienza di sé, la scrittura come metodo di scavo della propria esistenza.
Umberto Poli, in arte Saba, nasce a Trieste nel 1883, trascorre un’infanzia segnata da fratture: il precoce abbandono del padre, il difficile rapporto con una madre anaffettiva e lo stretto legame con la balia Peppa, a cui la madre probabilmente lo sottrasse per gelosia.
Un senso di estraneità alla cultura ebraica di appartenenza, di distanza dal panorama letterario di spicco, primi tra tutti gli intellettuali de La Voce, oltre che la costante fuga dalle persecuzioni naziste grazie anche all’aiuto di intellettuali quali Montale e Vittorini, alimentano nel poeta quello che lui stesso chiama un “doloroso amore per la vita”. Tormentato da manie di persecuzione, Umberto Saba troverà nella psicanalisi un mezzo di indagine e scavo nel sé, uno strumento per la riemersione del rimosso e il risanamento delle proprie ferite.
Per mettere insieme i propri tasselli, Umberto Saba compie un’operazione che seicento anni prima, non diversamente ma scevro di cultura psicanalitica, intraprese Francesco Petrarca: stendere un Canzoniere, un corpus poetico organizzato in nuclei tematici, un tentativo di articolazione compiuta del sé, a più riprese riorganizzato internamente e revisionato linguisticamente, di cui si fa risalire la prima edizione al 1921.
Alla sezione Trieste e una donna appartiene la lirica Trieste, che meglio dipinge il senso di “triestinità” del poeta: una simbiosi fisica e spirituale, che consente a Saba di specchiarsi e di cogliere sé stesso nelle contraddizioni della città natia, attraverso un percorso tanto fisico quanto intellettuale, di identificarsi nella città stessa e trovare un “cantuccio” fatto proprio per lui dove sentirsi davvero immerso in quella che chiama “la mia vita”.

Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

(Trieste, 1910-12)

Un’occasione qualunque, una passeggiata attraverso una brulicante Trieste porta il poeta a salire un’erta. Il colle, in principio affollato, si fa sempre più deserto. Ormai dispersa la folla, si affaccia in lontananza un muricciolo.
Qui il poeta pronuncia una sorta di dichiarazione d’amore, l’interlocutrice è Trieste.
Trieste come “ragazzaccio aspro e vorace” ha occhi azzurri come il mare che ne bagna le coste e mani grandi, mani buone, per compiere atti gentili, che rivelano della città un carattere di ambivalenza, dapprima scontrosa, poi dolce e accogliente, si dimostra capace di regalare un fiore.
Dall’erta è possibile scorgere l’intera città, affollata e deserta, e ancora una volta contraddittoria. L’aria d’intorno è strana, è “aria natia”, il poeta è a casa, ed è protetto. Qui infatti ha trovato un suo cantuccio, un luogo dove potersi abbandonare alle proprie riflessioni, schivare le sofferenze procurategli dal mondo e dedicarsi alla propria vita “schiva e pensosa”, come “solo e pensoso” Francesco Petrarca percorreva deserti campi per schivare indiscreti sguardi.
La vita ora è “mia”, è sua, è del poeta, gli appartiene, il muricciolo è laddove il poeta si riappropria di sé, raccoglie i tasselli, si identifica esso stesso nella città, con uno sguardo la raccoglie tutta, così come nel cantuccio può raccogliere le proprie contraddizioni, ordinarle e per quanto possibile cercare di sanarle.

Quella di Saba è una poesia piana, autobiografica, domestica. Il poeta è consapevole di non essere adeguatamente considerato sul panorama letterario, fa di questo senso di marginalità – la stessa marginalità posseduta da Trieste – il suo centro propulsore, e così si pronuncia in occasione del settantesimo compleanno, nel 1953:
“Comunque, il mondo io l’ho guardato da Trieste: il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro e di Trieste non fanno nemmeno il nome.
Del resto, io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria”.

(Discorso di U. Saba presso il Circolo della cultura e delle arti, 1953)

Umberto Saba muore nel 1957, lasciando una traccia, un’opera di scavo interiore volta al risanamento delle proprie ferite, capace di portare al centro, anche a distanza di anni, quella che era considerata una realtà culturale marginale, come Trieste allora, attraverso il ricorso a parole semplici ed esperienze quotidiane.
L’eco della sua voce ancora oggi si sente, riecheggiante dal “cantuccio”, presso il muricciolo.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.