Gabriele D’Annunzio e l’odi et amo per il cibo

Gabriele D’Annunzio e l’odi et amo per il cibo

Gabriele D’Annunzio e l’odi et amo per il cibo

Digiuni mistici, ma anche grandi abbuffate di dolciumi. Il rapporto di D’Annunzio con il cibo era conflittuale, ma decisamente sui generis.

Nato a Pescara, in Abruzzo, Gabriele D’Annunzio era molto affezionato alla cucina della sua terra. Non era particolarmente ingordo, però aveva il pensiero che nutrirsi fosse un atto meschino e grossolano che gli suscitava repulsione. Infatti, nel cibo ricercava un coinvolgimento emotivo. Essendo un esteta, ciò che gli premeva era che il cibo fosse bello da vedere e che i colori regalassero armonia al piatto.

Mi sembra più bestiale riempire il triste sacco, rifocillarmi, che abbandonarmi all’orgia più sfrenata e più ingegnosa – G. D’Annunzio

Pare, però, che uno dei motivi per cui a D’Annunzio faceva ribrezzo mangiare fosse che aveva i denti rovinatissimi e neri, che non si era mai voluto curare. Per questo si imbarazzava a masticare davanti ad altre persone. Inoltre, si annoiava a stare seduto a lungo a tavola, così dovette inventare uno stratagemma per convincere gli ospiti a mangiare poco: un giorno, la marchesa Luisa Casati Stampa gli regalò una gigantesca tartaruga africana, che D’Annunzio chiamò Cheli. Cheli però morì per indigestione di tuberose e D’Annunzio ne fece fare una riproduzione identica dallo scultore Renato Brozzi, così da poterla sistemare con il guscio vero a capotavola della sua sala da pranzo detta, appunto, “Stanza della Cheli”. La tartaruga fissava gli ospiti e serviva per ricordare loro di non mangiare troppo, o avrebbero fatto la stessa fine.

Aveva una bellissima cantina ben rifornita, nonostante fosse astemio, una ghiacciaia – cosa rarissima all’epoca – e una cucina grandissima, ma soprattutto una cuoca. Nulla di strano per ora, eppure è qui che arriva il bello: la sua cuoca è forse l’unica donna al mondo con cui lui abbia avuto a che fare senza portarla a letto.

Chi è costei? Albina Lucarelli Becevello. O Cuoca Pingue. O Suor Intingola. O Suor Indulgenza Plenaria. O Suor Ghiottizia. Tutti nomi che D’Annunzio usava per rivolgersi alla sua cuoca di origini venete che si era dimostrata disponibile per servire tutte le sue richieste stravaganti. E in termini di stravaganza, beh, nessuno batte il Vate. Le lettere che D’Annunzio lasciava a Suor Intingola sono praticamente altre opere letterarie:

Cara Albina, da otto giorni non chiavo. Inutile che tu mi mandi gli zabaioni non avendo bisogno di raddrizzare la schiena. Mandami piuttosto una mona sottile – G. D’Annunzio

E questo è solo uno dei tanti bigliettini di dubbia moralità che il poeta lasciava alla sua cuoca, raccolti per Utet da Maddalena Santeroni e Donatella Miliani nel volume La cuoca di D’Annunzio. D’Annunzio voleva che la sua cuoca abbinasse le pietanze alle amanti del momento: un giorno le ordinò una colazione per “una foresta che è capitata sotto i miei artigli”, un altro “un piatto freddo col polpettone magistrale per una donna bianca sopra un lino azzurro”. “Una sublime pasta di pomodoro per un’amica molto ghiotta” o ancora “un sublime risotto alla milanese per una vera meneghina che lo colloca fra le bonissime cose del basso mondo”.

Amava moltissimo la frutta perché riteneva avesse un carattere erotico, ma gli piacevano anche le uova (ne mangiava circa cinque al giorno) e le frittate, le costolette, il riso e tutti i tipi di pesci. E poi amava i dolci: mandorle tostate, cioccolato, marron glacé. Mangiava anche dieci gelati di seguito. Però poi faceva anche tre giorni di seguito di digiuno – un’alimentazione non proprio equilibrata, che farebbe rizzare i capelli anche al più old school dei dietologi.

Buongustaio, certo, ma pur sempre un poeta. Per questo, a lui si deve la creazione di molti nomi legati al mondo della gastronomia: fu lui a dare il nome “Saiwa” alla celeberrima fabbrica di biscotti, così come lo diede al dolce abruzzese “parrozzo” (una sorta di zuccotto natalizio di mandorle coperto di cioccolato) e al tramezzino, che invece il futurista Marinetti avrebbe voluto chiamare “tra i due”. Ma questa è un’altra storia.

di Gaia Rossetti

Attilio Bertolucci: fra impressionismo e memoria

Attilio Bertolucci: fra impressionismo e memoria

Attilio Bertolucci: fra impressionismo e memoria

Attilio Bertolucci, poeta emiliano, suscita col proprio stile conto, ma limpido, stupore se rapportato alla crudità del Novecento, il secolo orribile.

La voce di Attilio Bertolucci si segnala per una delicatezza disarmante che ai più, immersi nell’epoca della retorica pomposa del consumismo e del fallace eroismo, resta impercettibile, nonché scomoda. 

Esordi e poetica

Attilio Bertolucci nacque vicino a Parma il 18 novembre 1911, dopo la laurea in lettere a Bologna comincia ad insegnare storia dell’arte e a dirigere una collana di opere straniere tradotte in Italia. 

La voce poetica si manifesta assai precocemente, se si tiene conto che la prima raccolta, Sirio, venne pubblicata già nel 1929, all’età di diciotto anni. E proprio dal ‘29 occorrerebbe partire per comprendere le implicazioni della poesia di Bertolucci sul seculum horribile del Novecento: dalla crisi del ‘29 al montare dei totalitarismi fino alla Seconda guerra mondiale, lo sguardo di Bertolucci si staglia su un universo governato dall’insensatezza e dalla violenza cui il poeta stesso oppone una poesia nitida, raffinatamente semplice, dimessa, dal taglio descrittivo e che rifugge toni fastosi. 

In La rosa bianca, tratta dalla raccolta La capanna indiana (1951), Bertolucci scrive:

Coglierò per te

l’ultima rosa del giardino,

la rosa bianca che fiorisce

nelle prime nebbie.

Le avide api l’hanno visitata

sino a ieri,

ma è ancora così dolce

che fa tremare.

È un ritratto di te a trent’anni,

un po’ smemorata, come tu sarai allora.

Le nebbie della poesia rimandano al paesaggio tipico della pianura Padana cui Bertolucci fu tanto avvezzo: gli elementi naturali, dalla rosa bianca alle api avide, si saldano perfettamente nella lirica dal tono lirico e impressionistico, marcando un tratto costante della poesia di Bertolucci; a ben vedere, gli ambienti domestici, le atmosfere contadine e campagnole fanno da sfondo ad uno sguardo acuto e scrutatore alla ricerca di marche elegiache, ricollegandosi alle linee già tracciate da Pascoli e Saba.

Il secondo dopoguerra

La poetica di Bertolucci subisce, nel secondo dopoguerra, un drastico cambiamento dettato dallo scorrere della Storia cui nulla può opporsi: se in un primo momento gli ambienti dimessi possono rappresentare una protezione, un’alcova ideale di riposo dell’animo, con l’inizio dell’era consumistica, che raggiunge il suo apice fra anni Sessanta e Settanta, la semplicità e primigenia essenza del mondo rurale padano si dissolve di fronte alla mesta sensazione di disgregazione

Nella descrizione impressionistica della natura fa capolino un certo sentore di negatività che acuisce lacerazioni latenti, già esacerbate dal suo trasferimento a Roma, città avvertita estranea alla propria intima essenza di poeta: 

Non posso più scrivere né vivere

se quest’anno la neve che si scioglie

non mi avrà testimone impaziente

di sentire nell’aria prime viole.

Nella prima strofa di Pensieri di casa, tratta dalla raccolta In un tempo incerto (1955), la condizione esistenziale è strettamente connessa all’attività della scrittura. E la scrittura di Bertolucci trae la propria ispirazione proprio da quelle nevi periture annunciatrici della primavera: è chiaro il rimando al paesaggio padano, avvertito tuttavia lontano, sia geograficamente in quanto negli anni ‘50 Bertolucci si trasferì a Roma, sia sentimentalmente: una sensazione di finitudine inevitabile aleggia sulla poetica del poeta emiliano, il quale si rifugia oramai nella memoria, ultima spiaggia di una morte figurata presagita:

 

Come se fossi morto mi ricordo

la nostra primavera (…).