A che cosa serve la letteratura

A che cosa serve la letteratura

A che cosa serve la letteratura

La letteratura, in ogni sua forma, è specchio della mutovolezza nella quale l’esistenza si srotola. Se Tasso e Manzoni avevano come fine l’utile che pone in essere le contraddizioni del reale, Walter Siti si scaglia contro un’idea conformista e perbenista di letteratura che attanaglia l’industria editoriale degli ultimi anni.

Se non fosse che la realtà e il vero siano mutevoli e pedanti, non si capirebbe come la letteratura, nella sua più ampia accezione e concezione, ne sia lo specchio precipuo. 

Di tale convinzione, sembra farsi carico Cesare Pavese, il quale nel dialogo Le muse, l’ultimo della sua formidabile opera Dialoghi con Leucò, scrive:

MNEMÒSINE: “Ma anche tu, caro (a Esiodo, n.d.a.), esisti, e per te l’esistenza vuol dire fastidio e scontento.”

(…) ESIODO: “Ascoltandoti, certo. Ma la vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e in un
letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze. È un fastidio alla fine, Melete.
C’è una burrasca che rinnova le campagne — né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma la fatica interminabile, lo
sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate —
quest’è il vivere che taglia le gambe, Melete.”

(…) MNEMÒSINE: “Prova a dire ai mortali queste cose che sai.”

Esiodo, come è noto, è il poeta più antico della Grecia continentale. A colloquio con la madre delle nove muse, Mnemosine, nel dialogo pavesiano egli incarna perfettamente lo slancio tedioso dell’individuo contemporaneo; uno slancio che la letteratura, nella sua qualità più performante, pone in essere in un clima culturale tendente al conformismo e all’egocentrismo.

Retrogradando lo sguardo di qualche secolo, Pietro Bembo compone le Prose della volgar lingua nella prima metà del XVI secolo e istituisce un criterio letterario per “valutare” le lingue. Il suo obiettivo non è certamente quello di svilire gli altri volgari della penisola, come il veneziano: al contrario, pochi hanno scritto in veneziano, molti in un certo fiorentino; il fiorentino, quindi, appare come lingua adatta alla pratica letteraria. Perché? 

La letteratura come filtro del reale

La letteratura, a ben vedere, è filtrazione della realtà attraverso una forma. Che sia prosa o poesia, romanzo o trattato, l’esercizio della parola scritta pone le basi per un diverso approccio al reale nel quale si è immersi. 

Tale fatto al Bembo non può essere sfuggito: il fiorentino trecentesco, nelle personalità imitabili del Petrarca e del Boccaccio, simboli di un’epoca giunta agli sgoccioli, seppe esprimere un disagio esistenziale, il senso di qualcosa che finisce, una nostalgia vacua e inesorabile, nonché irrimediabile. La letteratura del Trecento, oltre ad essere il filone aureo dal quale attingere per poter scrivere bene, è anche custode di inquietudine filtrata dalla forma

Da Torquato Tasso ad Alessandro Manzoni

Già alcuni fra i letterati più rappresentativi della letteratura italiana si sono interrogati sul significato e fine della letteratura. 

Torquato Tasso, autore della Gerusalemme Liberata (1575), afferma nei Discorsi del poema eroico (1594) che la letteratura, pur traendo la propria materia dal mutevole reale, debba perseguire l’utile, quindi essere edificante moralmente e rifuggire il mero diletto, come aveva fatto Ariosto attardandosi sulle lascivie di Alcina e Ruggero. Tasso solleva una questione spinosa e a tratti imbarazzante: può l’artista abbandonarsi esclusivamente alla piacevolezza, al dilettevole, al “vendibile”, e abdicare al proprio ruolo civile e educativo?

Tale questione venne ripresa qualche secolo dopo da Alessandro Manzoni il quale, come è noto, afferma che lo scopo della letteratura sia l’utile. L’artificio poetico assolve a una ben precisa funzione educativa, civile, e morale occupandosi degli oppressi e donando loro una voce altrimenti inascoltata, e deve necessariamente rifuggire il banale diletto, pena il ripiego della letteratura stessa a decoro e fronzolo del reale, totalmente avulso da qualsivoglia contesto.  

Walter Siti e la tendenza contemporanea

Contrariamente alla recentissima tendenza di una letteratura pseudo progressista e palliativa, Walter Siti, in Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli, 2021), si fa campione di un nuovo modo di intendere il significato della letteratura. Se recentemente la nuova interconnessione fomentata dalle reti social (Facebook, Instagram, TikTok, ecc…) ha reso sempre più pedante la retorica sul bene, coadiuvata da un’inarrestabile ondata di egocentrismo, la letteratura, dalla prosa alla poesia, nonché tutte le discipline artistiche, sembra essersi adeguata ai nuovi parametri di fruibilità.

La letteratura non deve essere terapeutica

In parole povere, Walter Siti accusa la letteratura odierna di perseguire ostinatamente il bene a tutti i costi: i romanzi devono far stare bene i lettori e le lettrici, intervengono per lenire le ferite interiori, curano; ma può la letteratura essere terapeutica? Walter Siti risponde, giustamente, che la letteratura dovrebbe rifuggire tali istanze da salotto, e che può benissimo complicare le cose, far ammalare poiché incapace di assorbire i traumi, se mai esasperarli. A fronte dell’egocentrismo stentoreo di alcuni autori evanescenti quali D’Avenia, Baricco, Saviano, che incarnano ideali monotonali e facilmente cavalcabili dal commercio di libri e idee, la letteratura, infine, dovrebbe favorire la contraddizione, la pluralità di idee e la provocazione, nonché l’esasperazione, proprio perché il reale non è o bianco o nero, ma labirintico e intricato. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.