Quello che gli uomini non dicono

Quello che gli uomini non dicono

Quello che gli uomini non dicono

Gli uomini sono violenti, gli uomini sono i carnefici, le donne invece sono sempre le vittime. In un clima sociale di violenta, e spesso legittima, rivendicazione di quei diritti femminili a lungo negati nel corso dei secoli, c’è qualcosa che gli uomini non dicono. Anche gli uomini infatti subiscono violenza, anche le donne sono carnefici, ma di questo nessuno parla.

Violenza sugli uomini: un tabù sociale

Sempre più si grida all’uguaglianza, ai pari diritti, alla rivendicazione dell’equità di genere, ma a tante seducenti parole non corrispondono fatti. Collocati come siamo in una società sempre più indirizzata al riconoscimento dell’uguale dignità dei sessi, appare decisamente retrograda e ottusa una condotta di pensiero che non riconosca come anche gli uomini, sebbene in misura minore, subiscano violenza di vario genere da parte del sesso opposto. Un tipo di violenza di cui ancora pochi parlano.

La questione della violenza contro gli uomini è stata recentemente oggetto di dibattito da parte del Consiglio d’Europa, in rispetto alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In questa sede il fenomeno della violenza sul sesso maschile è stato definito una “violazione dei diritti umani, ma anche un ostacolo all’eguaglianza tra donne e uomini”.

Procediamo con ordine: quello della violenza sugli uomini costituisce tutt’oggi un forte tabù sociale difficile da scardinare, fondato sullo stereotipo del “sesso maschile come sesso forte”.
È la stessa ideologia femminista a perpetuare questo stereotipo, rivendicando l’esclusività della violenza di genere come un tipo di abuso esercitato solo sul genere femminile, e ribadendo come nessuna forma di violenza sugli uomini sia equiparabile a quella sul sesso opposto. Uguaglianza oppure ottusità?
Neppure le donne infatti sembrano essere esenti dall’accusa di essere “violente”. Spesso la loro violenza si esercita sì in forme diverse ma, se è vero che l’abito non fa il monaco, anche ciò che non è immediatamente visibile ha un peso. Nonostante ciò, la violenza esercitata da parte delle donne viene frequentemente banalizzata. Questo in virtù del fatto che il sesso femminile sembra costituire sempre e solo il sesso più debole, in un certo senso perpetuando in tal modo proprio quella concezione maschilista e patriarcale che fa della donna un essere sottomesso, debole, “inferiore”.

Le forme più diffuse

Quali sono dunque le forme più diffuse, ma poco conosciute, di violenza esercitata da parte delle donne (e delle società) sugli uomini?
Sicuramente al primo posto sta la violenza domestica. Nel 1996 venne pubblicato uno studio dal titolo Aggressive Behaviour avvalendosi di un campione di 1978 donne e uomini eterosessuali: del campione risultò che il 10% degli uomini e l’11% delle donne avevano commesso atti di violenza sul partener. La violenza domestica di parte femminile si esercita prevalentemente in forme di denigrazione del partner (sulle sue capacità famigliari, sessuali, economiche, genitoriali) fino all’alienazione parentale nel caso delle coppie con figli: ovvero la privazione dei figli da parte delle madri per mesi o anni. Questo non esclude che la violenza possa tuttavia essere esercitata anche in forma fisica, colpendo o infliggendo ferite con armi, pistole, coltelli, acqua bollente, acido, mazze. Le aree predilette per l’aggressione sono la faccia e la regione genitale, con non certo poche conseguenze fisiche e psicologiche sulla vita futura della vittima.

Non meno rilievo va al fenomeno della violenza sessuale sul genere maschile, perpetuata da donne e non. L’OMS ha stimato un’incidenza del 7,6% di abusi sessuali infantili nei confronti dei maschi su scala globale.
Estremamente accentuato inoltre, risulta essere il fenomeno dello stalking. Sebbene raramente lo stalking femminile degeneri nella forma della violenza fisica, esso si caratterizza per un forte livello di caparbietà e insistenza, logorando a livello psicologico la vittima.

Un tabù dunque di cui sono vittima gli uomini, spesso riluttanti a denunciare la violenza subita o a rivolgere richieste di aiuto. Questo generalmente determina due altrettanto drammatiche conseguenze: da un lato l’uomo subisce silenziosamente fino al totale logoramento, dall’altro reagisce esercitando altrettanta violenza di tipo fisico sulla donna, ingigantendo ulteriormente la problematicità di una situazione evidentemente deviata. Tutto questo non fa altro che confermare lo stereotipo degli uomini che praticano violenza (violenza che rimane non giustificata e non legittimabile) e che non possono, non hanno il diritto di denunciare e di tutelarsi.

Equità diseguale

Nella comune percezione sociale infatti, le ragioni del diverso peso dato al medesimo fenomeno sarebbero da attribuirsi alla maggiore forza fisica posseduta dal maschio, tendenzialmente più condannata e maggiormente oggetto di provvedimenti legali rispetto ad altre forme di violenza. Sebbene la gravità sia innegabile, non può esserle attribuito un peso diverso da qualsiasi altra forma di sopruso.
Il caso Italia conferma il diverso trattamento. Basta aprire il sito del Governo (Ministero degli Interni) e alla voce “violenza di genere” apparirà la seguente definizione:

Con l’espressione violenza di genere si indicano tutte quelle forme di violenza da quella psicologica e fisica a quella sessuale, dagli atti persecutori del cosiddetto stalking allo stupro, fino al femminicidio, che riguardano un vasto numero di persone discriminate in base al sesso.

Se per “genere” si intende l’appartenenza a un sesso, perché la violenza di genere concerne solo atti di violenza rivolti al sesso femminile? Una prima indagine sulle violenze contro il sesso maschile in Italia è stata condotta nel 2012 a opera del docente di medicina legale presso l’Università di Arezzo Pasquale Giuseppe Macrì. La prima indagine Istat inerente alle molestie sessuali sugli uomini risale invece al 2015-16. Dall’indagine è risultato che il 18,8% delle vittime di molestie sono uomini, un dato non così irrilevante corrispondendo circa a un quinto delle vittime totali.
La legge dunque non tutela e gli uomini devono tutelarsi da sé. In Italia si possono ricordare associazioni come AVU (Associazione Violenza sugli Uomini) e APS (Associazione Padri Separati). Quest’ultima in particolare, nata con l’obiettivo di tutelare tutti quegli uomini che dopo separazioni o divorzi subiscono costanti vessazioni psicologiche e legali dalle ex-partner, spropositatamente tutelate dalla legge anche a torto.

Una società che voglia andare nella direzione della parità e degli uguali riconoscimenti, non può limitarsi a tutelare solo una parte dei suoi componenti. La società odierna non è solo quella maschilistica e patriarcale che relega, o vorrebbe relegare, le donne a una misera subordinazione domestica e salariale. Che sia stato e sia tutt’ora così è innegabile, ma non è possibile fermarsi a questo. Neppure il sesso maschile è esente da violenze e discriminazioni. Di questo poco si parla e su questo tema scarse sono le tutele, ma la parità dei diritti non può passare attraverso il cieco esigere a danno dell’altro.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

I tabù duri a morire

I tabù duri a morire

I tabù duri a morire

Un viaggio tra sacro e profano. Tra personale e sociale.

In origine il tabù, dal polinesiano tapu, era la condizione di un oggetto o di una persona isolata, vietata e considerata pericolosa al solo contatto. Era un qualcosa in grado di infettare con la propria profanità. Si contrapponeva al mana, considerata invece come la parte sacra, più alta e pura. Violare un tabù significava avvicinarsi a qualcosa di ripugnante e proibito, per questo infrangere tale confine aveva come conseguenza il biasimo e il giudizio da parte dell’intera comunità di appartenenza. Tale timore era così forte da non permettere neanche di nominare l’argomento incriminato, ed è così che poi si sono evoluti i tabù fino al giorno d’oggi.

Si è passati da azioni profane ad argomenti di cui non si poteva parlare nei salotti delle persone per bene, per non violare il buon costume e la morale condivisa. Ci si sposta quindi più verso un piano comunicativo e quasi si abbandona il piano delle azioni. Il fulcro non è più non fare qualcosa, ma diventa non parlarne, non portare l’argomento sotto gli occhi di tutti. Il tabù si evolve, si trasforma, non è una questione di sacralità ma di moralità sociale, quasi come a dire può anche essere fatto, basta che non se ne parli e non venga ostentato, ma nascosto e negato.

Detto questo, mi sono domandata a lungo quali potessero essere i tabù contemporanei, e per ogni punto dell’elenco mi balenava in testa un “sì, ma”. Quindi la risposta che mi sono data è stata infine quella che i tabù esistono sì, ma a metà, si sono svuotati del loro significato più profondo, sono rimasti come involucri di loro stessi. Ho la percezione che nella nostra società oramai quasi nulla possa essere considerato effettivamente come tabù allo stato puro. Nel dibattito pubblico, sui social, tra gruppi di amici, si parla di qualsiasi cosa, in mille maniere diverse, bene o male, che sia per divulgazione o per protesta, per indignazione o difesa, comunque, si riesce a parlare di tutto. Quegli argomenti tradizionalmente considerati intoccabili ora più che mai vengono dibattuti in modo sdoganato. Che sia di sesso, di corpi, di argomenti queer, di soldi o di restrizioni alimentari. Tutto è dialogo o dibattito. Ma come ne parliamo effettivamente? Ne parliamo in generale, in modo sociale e con una vista di insieme, a volte superficiale. Ma forse è sul piano personale che è rimasta quella vena di giudizio, di timore e di peccato che tanto si rifà al concetto originario di tabù.

I TABÙ CONTEMPORANEI A METÀ

Partiamo dal sesso, il più classico dei tabù, come società, siamo saturi di sesso, siti pornografici, pagine di sessuologia, profili di influencer e attivisti che promuovono sex toys di tutte le forme e i colori. Ma quando se ne parla tra amici? O scenario ancora più imbarazzante, in famiglia? Non riusciamo ad essere così sfacciati, così liberi e diretti. Chiedere in maniera disinvolta quali siano le posizioni preferite di qualcuno o come proceda la vita sessuale di qualcun altro non è così semplice. E sfido chiunque a rispondere in maniera altrettanto calma e serena, senza arrossire neanche un po’ o senza mandare cordialmente a quel paese il proprio interlocutore.

Passiamo poi al denaro, altro grande classico tra gli argomenti scomodi. Essendo una società capitalista, i soldi, sono il fulcro di tutto il nostro mondo, discutiamo su come gestirli, su come aumentare il nostro patrimonio e di come il flusso monetario influisca direttamente sull’andamento di intere nazioni. Ma il punto è sempre lo stesso, in una normale conversazione saremmo a nostro agio a chiedere l’ultima busta paga di un nostro amico? Saremmo in grado di parlare senza un po’ di vergona o pudore dell’estratto conto della nostra carta di credito? Io personalmente no, alla sola idea mi imbarazzo dei miei acquisti e delle mie entrate da studentessa precaria.

Per finire vorrei soffermarmi sulla salute mentale, uno dei tabù più interessanti e complessi a mio parere. Quando si parla di questo argomento ci sono forti divisioni, soprattutto in base alla generazione d’appartenenza e al contesto sociale. Si creano quindi delle microbolle, dei diversi ecosistemi dove la discussione è estremamente variegata. Da quella che è la mia esperienza personale si passa quasi da un estremo all’altro, nella mia cerchia sociale più stretta, ad esempio, siamo tutti in terapia e ne parliamo tranquillamente e liberamente. Anzi forse a volte fin troppo, fino quasi a creare delle scene surreali alla Woody Allen. Intere conversazioni e simposi con i resoconti delle rispettive sedute, degli approcci clinici delle nostre psicologhe e viaggi psichedelici nelle profondità dei nostri inconsci. Da una semplice birra con gli amici si passa insomma a una terapia di gruppo. Non sempre leggero, ammettiamolo.

Al contrario invece mi sembra di percepire che chi non ha mai fatto esperienza di questa cosa abbia ancora addosso il pregiudizio del “dallo psicologo ci vanno solo i matti”. Perché ammettere di andare da un terapeuta vuol dire ammettere di avere un problema, e anche bello grave, secondo alcuni. Ammettere di avere bisogno di aiuto, in una società come la nostra, è considerato inaccettabile, vergognoso e imbarazzante, è come si suole dire un tabù. Questo è anche probabilmente un retaggio che ci portiamo dietro dalle generazioni passate, dove i problemi si risolvevano per forza di cose in casa, dove non c’era la consapevolezza di certi strumenti e neanche la volontà di portare alla luce certe dinamiche e problematiche, sia personali sia famigliari. Ma, come per i tabù precedenti mi sento di affermare che tutta questa chiusura ci sia a livello personale e relazionale, ma non sociale. Per fortuna negli ultimi anni di salute mentale se ne sta parlando sempre più spesso e più ampiamente, ci sono pagine di divulgazione e siti di sostegno e consulenza online. Tanti piccoli passi verso l’abbattimento di questo e spero tanti altri mezzi tabù.

di Valentina Nizza