Un altro anno di successi per DiVINO, il mercato dei vini a Bergamo

Un altro anno di successi per DiVINO, il mercato dei vini a Bergamo

Un altro anno di successi per DiVINO, il mercato dei vini a Bergamo

Supera se stesso il mercato dei vini a Bergamo DiVINO, che anche per l’edizione 2024 si conferma una kermesse paradigmatica per gli appassionati e gli esperti del settore.

Conclusione di grande successo per la seconda edizione di “DiVINO – il mercato dei vini a Bergamo” 2024: un evento per celebrare l’eccellenza del mondo vitivinicolo, con un trionfo di esperienze sensoriali, innovazione e scambi proficui.

Durante i giorni di fiera , esperti, produttori, enologi e appassionati si sono riuniti per celebrare l’arte, la cultura e la passione che circondano questo fantastico mondo. Anche quest’anno, “DiVINO – il mercato dei vini a Bergamo” ha offerto una panoramica completa della diversità vitivinicola, presentando un’ampia selezione di vigneti provenienti da tutta Italia e non solo, dalle rinomate regioni vinicole alle gemme emergenti.

I visitatori hanno avuto l’opportunità di scoprire e degustare una vasta gamma di vini, da quelli tradizionali a quelli innovativi, guidati dai produttori che hanno condiviso le loro conoscenze e la loro passione, consentendo di approfondire la comprensione e l’apprezzamento per il mondo del vino.

Il confermato successo di “DiVINO – il mercato dei vini a Bergamo” 2024 sancisce l’importanza e il fascino senza tempo del settore vitivinicolo e ringraziamo per l’entusiasmo e l’interesse dimostrato da tutti coloro che hanno reso possibile questo evento straordinario.

L’organizzazione guarda al futuro con fiducia, impegnandosi a continuare a promuovere l’eccellenza nel mondo del vino e a creare eventi unici per l’interazione e la crescita del settore.

Il male di vivere e perire con gusto ovvero Leopardi a tavola

Il male di vivere e perire con gusto ovvero Leopardi a tavola

Il male di vivere e perire con gusto ovvero Leopardi a tavola

Non è certo noto per la sua allegria o la vita mondana, ma Giacomo Leopardi sembra un’altra persona quando si parla di cibo. Se davvero siamo quello che mangiamo, come inquadrare la più brillante mente filosofica dell’Italia dell’Ottocento?

Sebbene Giacomo Leopardi non fosse proprio il manifesto della felicità e dell’ottimismo, non rinunciava ai piaceri del cibo. Scrisse nello Zibaldone a proposito del mangiare: “occupazione interessantissima la quale importa che sia fata bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il benessere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo”. Frase che detta da chi ha elaborato i concetti di pessimismo storico e di pessimismo cosmico assume tutto un altro fascino.

Il suo rapporto con il cibo era di godimento e gusto. Scrisse infatti una lista di quarantanove pietanze che amava particolarmente, fra cui frittelle di riso, carciofi fritti nel burro, zucca fritta, pane dorato, cervelli fritti, ricotta fritta, pasta sfoglia, polpette, paste frolle, capellini al burro, pasticcini di maccheroni di grasso e di magro, bodin di latte, riso al burro, patate al burro, purè di fagioli, latte a bagnomaria, latte fritto. Sì, latte fritto. Che non è molto diverso dalla nostra crema fritta, o no?

La lista leopardiana serve da pretesto a Domenico Pasquariello e ad Antonio Tubelli, artista il primo e cuoco il secondo, per raccontare in un libro, seguendo il ritmo delle stagioni, le atmosfere e i sapori della Napoli del primo trentennio dell’Ottocento, in cui si collocano episodi e suggestioni relativi agli ultimi anni di vita di Giacomo. A conclusione venti ricette ispirate alla lista. Il volume, pubblicato nel 2008 e da poco ristampato, si chiama Leopardi a tavola ed è edito da Fausto Lupetti.

Non è che Leopardi mangiasse proprio sano, e avendo una salute cagionevole questo era un problema. Scorrendo l’elenco si nota che manca completamente la carne: non perché non l’amasse, ma perché l’elenco del poeta rispecchia alla perfezione quella che era la dieta dell’epoca. Un’alimentazione ricca di carboidrati, in cui le proteine derivavano principalmente dalle uova, dalle frattaglie, dai formaggi e in rari casi dal pesce.

Eravamo un popolo che consumava prevalentemente pane e vegetali, dove la carne faceva la sua comparsa (se la faceva) a domeniche alterne: nel primo decennio del Novecento il consumo di carne era di appena quindici chili pro capite all’anno, contro gli oltre duecento chili di pasta e pane. Negli anni del boom economico, improvvisamente, il consumo di proteine è salito in maniera esponenziale: la carne da un decennio all’altro – dagli anni Sessanta agli anni Ottanta – aumenta di ben venti chili pro capite.

Leopardi mangiava tantissimo gelato, tanto che sembra che non abbia voluto allontanarsi da Napoli durante il colera proprio per non rinunciare ai gelati di Vito Pinto alla Carità, famosissimo gelataio partenopeo dell’epoca. Inoltre beveva moltissimo caffè, zuccheratissimo, che amava sorseggiare ai tavoli del Caffè d’Italia in Piazza San Ferdinando. Era goloso, senza orari, capriccioso, e sembra che negli anni di Napoli sublimasse con il cibo gli altri piaceri che gli erano negati. Un po’ come noi fra marzo e maggio dell’anno scorso, quando blindati in casa senza possibilità di vedere i nostri affetti ci siamo lanciati su pacchi di patatine e barattoli di gelato.

Era malato, certo, ma Leopardi viveva una vita abbastanza disordinata, dormendo di giorno e svegliandosi solo nel tardo pomeriggio. Chiedeva che gli servissero la colazione al pomeriggio e il pranzo a un’ora variabile tra le dieci di sera e mezzanotte. Nonostante la salute, non seguiva le prescrizioni dei medici: se questi gli ordinavano di non mangiare carne, decideva immediatamente di “perire di pesci e di vegetali”. Quando invece gli prescrivono una dieta di grassi, non ne vuol più sapere di pesce e verdure, dichiarando allegramente di voler “perire” con l’abbuffarsi di lessi e col sorbire brodi densi come la panna.

E di cos’è morto Giacomino? Forse non di colera. Secondo uno studio del professor Cesaro, pare sia morto per aver mangiato un chilo di confetti. Inoltre, forse per attenuare gli effetti dell’indigestione, gli era stata data una tazza di brodo caldo di pollo e una limonata fredda: una miscela rivelatasi micidiale, che avrebbe provocato – in aggiunta – una congestione intestinale.

Vivere male, ma perire con gusto. In fondo, non è forse di dolciumi che avremmo tutti voluto morire da bambini?

di Gaia Rossetti

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

Perché studiare l’antropologia in 10 libri

Perché studiare l’antropologia in 10 libri

Perché studiare l’antropologia in 10 libri

A cosa serve l’antropologia? Cosa fa l’antropologo? Ha ancora senso parlare di antropologia oggi? Un percorso fra 10 classici della disciplina per dare una risposta a questi quesiti.

Disciplina fondamentale, ma insegnata ormai solamente nei licei delle scienze umane, l’antropologia ha molto da dirci sul nostro passato, ma altrettanto sul nostro presente. Nasce nell’evoluzionismo darwiniano, cresce come strumento nelle mani del fascismo, si risveglia negli anni Cinquanta come disciplina imprescindibile per comprendere il mondo e, per dirla come la direbbe un antropologo, “il nativo che sta cambiando”.

Perché il termine stesso, “nativo”, negli anni ha assunto i significati più diversi. Da qualcosa di naturalistico in confronto all’artificiosità dell’età vittoriana a testimone di una cultura che si stava perdendo per sempre, passando per le sfumature negative a esso attribuite dall’età coloniale. In un mondo sempre più in evoluzione, e a volte anche in regressione, lo “studio dell’uomo” diviene fondamentale per capire cosa siamo stati, ma soprattutto cosa abbiamo pensato. E come il nostro modo di vedere la realtà ha influenzato ciò che invece siamo ora.

Perché studiare, quindi, l’antropologia? Ecco 10 libri, 10 classici della disciplina per capirla e apprezzarla, oggi più che mai.

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L’adolescenza in Samoa, Margaret Mead, 1928
Margaret Mead è un’antropologa americana attiva nella prima metà del Novecento e a lei si deve una prima piccola rivoluzione: è la prima degli americani a svolgere ricerche al di fuori della propria patria. L’obiettivo di Mead è fare ricerca su questo momento della vita da sempre considerato molto delicato, l’adolescenza, e decide di andare a studiarlo in un contesto completamente diverso da quello della sua vita di tutti i giorni. Samoa è una minuscola isola dell’Oceano Pacifico ubicata tra la Nuova Zelanda e la Polinesia Francese e le conclusioni tratte da Mead durante il suo soggiorno saranno fondamentali per i successivi studi sull’adolescenza, ma anche sul genere. L’adolescenza a Samoa è meno traumatica che in Occidente perché in questa società semplice e omogenea mancano messaggi concorrenziali e produttivistici: l’America della Mead è impestata di proibizionismo, che spinge i giovani a commettere crimini e a seguire gli ideali sbagliati. Un primo interessante sguardo sullo studio della giovinezza e delle differenze di genere.

L’Africa fantasma, Michel Leiris, 1934
Leiris scrive questo libro dopo la spedizione Dakar-Gibuti degli anni 1931-1933, una spedizione che coinvolge una dozzina di studiosi delle discipline più disparate che attraversa l’Africa allo scopo di raccogliere materiale etnografico per riempire le teche dei neonati musei europei. Una sorta di diario in cui Leiris racconta i metodi usati dai suoi colleghi per ottenere informazioni e materiali, spesso non ortodossi. Oltre a una riflessione metodologica lucida e obiettiva, Leiris si pone per la prima volta nella storia dell’antropologia un dilemma fondamentale: il posizionamento dell’antropologo nei confronti del suo interlocutore. Per la prima volta, un ricercatore si rende conto dell’impossibilità per l’intervistatore di essere neutrale nei confronti dell’intervistato in quanto anche lui è portatore di una cultura e di aspettative.

Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Edward Evan Evans-Pritchard, 1937
Prima opera importante per questo autore che focalizzerà la sua ricerca sulle società nilotiche. Gli Azande sono una popolazione stanziata fra gli attuali Sudan e Congo ed Evans-Pritchard intraprende questo percorso per studiarne inizialmente la stregoneria, ma si ritrovò a studiare la natura stessa del pensiero zande. Per gli zande, la stregoneria è un processo psichico a cui viene attribuita la disgrazia, ma si tratta di un discorso logico: la magia provoca la morte, gli stregoni lo certificano e lo confermano e a loro volta puniscono la morte con la magia. Il pensiero zande possiede quindi un carattere coerente. Il testo di Evans-Pritchard è fondamentale perché con esso si inaugura la corrente di studi sui sistemi di pensiero e pone fine alle teorie sulla mentalità pre-razionale e pre-logica. Per la prima volta, si attribuisce al pensiero di un popolo ancora erroneamente considerato “primitivo” una logicità intrinseca.

Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict, 1946
Il crisantemo e la spada viene commissionato alla Benedict dal governo degli Stati Uniti, in pieno clima bellico. Il governo americano si è accorto di avere un nemico forte, i giapponesi, diametralmente opposto a sé, e non riesce a prevedere i suoi movimenti in guerra perché non ha gli strumenti per farlo. Benedict non può però andare in Giappone durante il conflitto, dunque intervista i giapponesi che si sono formati in patria e poi si sono trasferiti in America. È difficile scrivere un’etnografia sul proprio nemico in questo periodo, è difficile da americana non inciampare nella credenza di sentirsi superiori rispetto e lui. C’è una continua contrapposizione fra società americana e giapponese, ma alla fine sembra che questa sia servita solo a mostrare come i concetti della cultura giapponese siano assolutamente coerenti fra loro, e che la distanza fra Giappone e USA non sia così enorme come sembra. Anzi.

Dio d’acqua, Marcel Griaule, 1948
Uno dei libri di antropologia più letti di sempre. 33 capitoli per le 33 giornate trascorse dall’autore con il suo informatore privilegiato, Ogotemmeli uno sciamano della tribù dei dogon del Mali. L’obiettivo è nobile: dare dignità a un pensiero indigeno accostandolo alle cosmogonie greche e cristiane. Non è solo una descrizione cosmogonica e cosmologica, il volume illustra anche i rapporti tra il cosmo e il sistema sociale e come questi nell’intima struttura sociale quotidiana siano determinati dai miti e dalle credenze. Il sistema sociale secondo Griaule non si può comprendere senza conoscere le credenze cosmologiche e cosmogoniche. La realtà sociale e quotidiana discende dall’idea che gli uomini hanno delle proprie origini e della propria posizione nel cosmo. Griaule è consapevole del fatto che le culture indigene stanno scomparendo e se vogliamo farle conoscere c’è urgenza di fare indagini, indagini che presuppongono un osservatore smaliziato e predisposto a incalzare l’informatore.

Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss, 1955
Itinerario geografico e spirituale dell’antropologo più prolifico ed eterogeneo di sempre, racconta di luoghi come il Brasile, ma soprattutto mostra le inquietudini morali ed esistenziali di LSévi-Strauss nel loro evolversi. Mostra la maturazione delle questioni e del personaggio a livello professionale, umano, esistenziale, spirituale. Il viaggio muove le gambe e muove il cervello, ci cambia, e se non ci cambia è un viaggio fallimentare. In Tristi tropici la campagna scientifica e la spedizione interiore sono intrecciate: un volume di scoperta del conflitto tra mondi, ritratto di alcune civiltà primitive misconosciute, ma è anche lo svelamento dell’efferato operare della civiltà bianca nei confronti delle civiltà primitive. È la storia di un genocidio infinito, della razionale ferocia applicata nelle colonie, di uno sfruttamento che mira ad annientare popoli. Un libro di denuncia contro la Francia ma anche contro le élites brasiliane che vivevano nei “quartieri bene” delle città sulla costa, è un libro in qualche modo primitivista: colmo del desiderio di un’autenticità umana, di qualcosa che sia senza i fronzoli, le complicatezze, le ridondanze della società europea tra le due guerre.

Sud e magia, Ernesto de Martino, 1959
Ernesto de Martino, etnologo che vive e opera a cavallo tra le due guerre mondiali, si occupa di magismo e stregoneria nella Lucania. Lo sguardo che dalla sua Roma volge a Tricarico, paesino fra Basilicata e Puglia dove condurrà le sue ricerche, è carico di esotismo e aspettative: da oltre un secolo l’Italia è unificata, ma gli italiani ancora fanno fatica a considerarsi tali, uniti sotto il nome di un’unica bandiera. Massimo d’Azeglio disse “fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani” e questo è l’obiettivo di de Martino: far conoscere l’Italia agli italiani. In un’epoca in cui chi veniva dal Meridione era considerato “primitivo” e “ignorante”, de Martino dimostra che la magia è solo un modo come un altro per reagire alla storia. E che non c’è nulla di primordiale in tutto questo.

Giornale di un antropologo, Bronislaw Malinowski, 1967 (e non il suo cugino più famoso Argonauti del Pacifico Occidentale)
Pubblicato a venticinque anni dalla sua morte, il diario di campo di Malinowski produce un’immagine diversa dalla consueta agiografia costruita sulla sua figura e sulla sua ricerca. L’intreccio tra le prescrizioni degli Argonauti e le rivelazioni del Giornale fa trasparire con molta chiarezza la complessità della situazione di ricerca e le dinamiche connesse all’implicazione soggettiva dell’etnografo. Ne traspare l’immagine di un uomo tutt’altro che in grado “di farsi strada nel cuore del più diffidente selvaggio”, al contrario emerge l’effige di un “contorto, preoccupato e ipocondriaco narcisista”, accusato di razzismo per il frequente utilizzo del peggiorativo nigger riferito ai nativi. Il Giornale ci fa capire che l’esperienza sul campo di Malinowski fu attraversata da un profondo disagio, segnata dalle difficoltà e dalle frustrazioni del lavoro, dallo smarrimento e della depressione. L’isolamento, teorizzato come precondizione per lo svolgimento di una buona ricerca empirica, si rivela imprevedibilmente insopportabile sul piano esistenziale e l’osservazione partecipante non riesce a risolvere il delicato equilibrio tra soggettività e oggettività su cui si fonda. Il mito dell’antropologo che non sbaglia mai crolla e al suo posto emerge un uomo come tanti altri, con tutti i suoi difetti.

Interpretazione di culture, Clifford Geertz, 1973
L’antropologia interpretativa, la cui nascita è segnata dalla pubblicazione di quest’opera, definisce la cultura come una “negoziazione di significati”. Nell’incontro etnologico fra intervistatore e intervistato infatti si compiono degli atti che hanno un significato più profondo, e tale significato va ricercato nel loro contesto di origine. Nonostante questo, Geertz è il primo a mettere per iscritto la consapevolezza dilagante che una cultura non possa essere messa al riparo dalle influenze e terne, e gli stessi osservatore e osservatoesercitano l’uno sull’altro un’influenza reciproca. Non più una società da osservare in modo freddo e distaccato, ma una circolarità ermeneutica tra soggetti dove ciascuno è produttore di significati: non esiste più una verità unica e assoluta, ma una miriade di verità relative frutto di interpretazioni e influenze.

Nisa. La vita e le parole di una donna !kung, Marjorie Shostak, 1981
Shostak si reca con il marito – un antropologo medico ­– presso i !kung, un popolo del deserto a nord del Botswana, dove instaura un rapporto di amicizia con la donna che soprannominerà Nisa e che la aiuterà a conoscere la quotidianità della società e soprattutto delle donne di questo clan. Negli anni Settanta inizia a farsi strada l’antropologia femminista e con essa moltissimi classici della storia dell’antropologia vengono riletti e reinterpretati alla luce della neonata antropologia di genere: è in questo clima che si inserisce lo studio di Shostak sulle donne !kung, uno sguardo lucido e disinvolto sulla differenza tra uomini e donne in una società tradizionale per scoprire che, in fondo, il genere come fattore discriminatorio è un costrutto tipicamente occidentale.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

Equilibrio e tradizione: a tavola con Picasso

Equilibrio e tradizione: a tavola con Picasso

Equilibrio e tradizione: a tavola con Picasso

Se Leonardo da Vinci ci aveva rivelato tante sorprese (qui), figuriamoci cosa avrà combinato Pablo Picasso. E invece no. Serietà, rispetto e semplicità sono i termini che Picasso ha voluto accostare al suo rapporto con il cibo.

Picasso aveva con il cibo un ottimo rapporto: non ne era ossessionato, ma lo gustava con gioia convinto che fosse il cuore pulsante della casa. Cosa mangiava Picasso? Grasso e ciccia? Piatti sofisticati? No, è molto sobrio nelle sue scelte e predilige piatti ricchi di vegetali e senza eccessi. Ciò che predilige sono le tipicità territoriali cucinate in maniera semplice perché odia fare sfoggio delle sue disponibilità economiche, perciò anche a tavola si contiene.

Nel suo periodo a Barcellona, frequenta spesso il locale (ancora esistente) Els 4 Gats, dove si tenne la sua prima mostra e dove Woody Allen girò alcune scene di Vicky Cristina Barcelona. Il fotografo David Douglas Duncan, una sera a cena, lo ritrae in una foto che diventa iconica. Picasso stava mangiando una sogliola alla mugnaia mentre ripulisce una lisca di pesce: aveva sfilettato la sogliola con l’idea di immortalarne la lisca e Duncan documentò le fasi velocissime della creazione.

Picasso amava anche il vino, e parecchio. Ma anche in questo caso era molto sobrio e, nonostante amasse particolarmente condividere le sue bottiglie con gli amici, lo faceva per il piacere della convivialità e non per aprire bottiglie che sottolineassero la sua ricchezza.

Le opere di Picasso che ritraggono del cibo sono circa duecento e nel 2018 a Barcellona ci fu una mostra intitolata La cucina di Picasso, volta a celebrare proprio il legame fra l’artista e il cibo.

Una delle locandine della mostra

Una vita in cui il cibo è un elemento cardine, ma non un’ossessione. Un modo molto differente di intenderlo rispetto ad altri artisti e uomini di lettere, ma comunque non comune e interessante. Come, d’altronde, tutto ciò che racconta questo genio dell’arte.

di Gaia Rossetti

Gabriele D’Annunzio e l’odi et amo per il cibo

Gabriele D’Annunzio e l’odi et amo per il cibo

Gabriele D’Annunzio e l’odi et amo per il cibo

Digiuni mistici, ma anche grandi abbuffate di dolciumi. Il rapporto di D’Annunzio con il cibo era conflittuale, ma decisamente sui generis.

Nato a Pescara, in Abruzzo, Gabriele D’Annunzio era molto affezionato alla cucina della sua terra. Non era particolarmente ingordo, però aveva il pensiero che nutrirsi fosse un atto meschino e grossolano che gli suscitava repulsione. Infatti, nel cibo ricercava un coinvolgimento emotivo. Essendo un esteta, ciò che gli premeva era che il cibo fosse bello da vedere e che i colori regalassero armonia al piatto.

Mi sembra più bestiale riempire il triste sacco, rifocillarmi, che abbandonarmi all’orgia più sfrenata e più ingegnosa – G. D’Annunzio

Pare, però, che uno dei motivi per cui a D’Annunzio faceva ribrezzo mangiare fosse che aveva i denti rovinatissimi e neri, che non si era mai voluto curare. Per questo si imbarazzava a masticare davanti ad altre persone. Inoltre, si annoiava a stare seduto a lungo a tavola, così dovette inventare uno stratagemma per convincere gli ospiti a mangiare poco: un giorno, la marchesa Luisa Casati Stampa gli regalò una gigantesca tartaruga africana, che D’Annunzio chiamò Cheli. Cheli però morì per indigestione di tuberose e D’Annunzio ne fece fare una riproduzione identica dallo scultore Renato Brozzi, così da poterla sistemare con il guscio vero a capotavola della sua sala da pranzo detta, appunto, “Stanza della Cheli”. La tartaruga fissava gli ospiti e serviva per ricordare loro di non mangiare troppo, o avrebbero fatto la stessa fine.

Aveva una bellissima cantina ben rifornita, nonostante fosse astemio, una ghiacciaia – cosa rarissima all’epoca – e una cucina grandissima, ma soprattutto una cuoca. Nulla di strano per ora, eppure è qui che arriva il bello: la sua cuoca è forse l’unica donna al mondo con cui lui abbia avuto a che fare senza portarla a letto.

Chi è costei? Albina Lucarelli Becevello. O Cuoca Pingue. O Suor Intingola. O Suor Indulgenza Plenaria. O Suor Ghiottizia. Tutti nomi che D’Annunzio usava per rivolgersi alla sua cuoca di origini venete che si era dimostrata disponibile per servire tutte le sue richieste stravaganti. E in termini di stravaganza, beh, nessuno batte il Vate. Le lettere che D’Annunzio lasciava a Suor Intingola sono praticamente altre opere letterarie:

Cara Albina, da otto giorni non chiavo. Inutile che tu mi mandi gli zabaioni non avendo bisogno di raddrizzare la schiena. Mandami piuttosto una mona sottile – G. D’Annunzio

E questo è solo uno dei tanti bigliettini di dubbia moralità che il poeta lasciava alla sua cuoca, raccolti per Utet da Maddalena Santeroni e Donatella Miliani nel volume La cuoca di D’Annunzio. D’Annunzio voleva che la sua cuoca abbinasse le pietanze alle amanti del momento: un giorno le ordinò una colazione per “una foresta che è capitata sotto i miei artigli”, un altro “un piatto freddo col polpettone magistrale per una donna bianca sopra un lino azzurro”. “Una sublime pasta di pomodoro per un’amica molto ghiotta” o ancora “un sublime risotto alla milanese per una vera meneghina che lo colloca fra le bonissime cose del basso mondo”.

Amava moltissimo la frutta perché riteneva avesse un carattere erotico, ma gli piacevano anche le uova (ne mangiava circa cinque al giorno) e le frittate, le costolette, il riso e tutti i tipi di pesci. E poi amava i dolci: mandorle tostate, cioccolato, marron glacé. Mangiava anche dieci gelati di seguito. Però poi faceva anche tre giorni di seguito di digiuno – un’alimentazione non proprio equilibrata, che farebbe rizzare i capelli anche al più old school dei dietologi.

Buongustaio, certo, ma pur sempre un poeta. Per questo, a lui si deve la creazione di molti nomi legati al mondo della gastronomia: fu lui a dare il nome “Saiwa” alla celeberrima fabbrica di biscotti, così come lo diede al dolce abruzzese “parrozzo” (una sorta di zuccotto natalizio di mandorle coperto di cioccolato) e al tramezzino, che invece il futurista Marinetti avrebbe voluto chiamare “tra i due”. Ma questa è un’altra storia.

di Gaia Rossetti