I Sillabari di Goffredo Parise: un’occasione imperdibile per inabissarsi nel mondo

I Sillabari di Goffredo Parise: un’occasione imperdibile per inabissarsi nel mondo

I Sillabari di Goffredo Parise: un’occasione imperdibile per inabissarsi nel mondo

Con la scrittura dei Sillabari Goffredo Parise porta alla luce un prezioso glossario di sentimenti e ne riscopre l’intima essenza.

Goffredo Parise, nato a Vicenza l’8 dicembre 1929, appartiene alla specie degli scrittori curiosi e riflessivi, che rivendicano un rapporto viscerale con l’esistenza, calandosi fortemente nelle circostanze contingenti.

Nel suo personale capolavoro, Sillabari (1972-1982), due serie di racconti – o, come preferisce chiamarle, «poesie in prosa» – in ordine alfabetico, lo scrittore vicentino annota spontaneamente le considerazioni derivanti da tutto ciò che lo circonda, lasciandosi trasportare dal flusso autentico, schietto delle sue percezioni. Non ci sono analisi cliniche o indagini psicologiche, ma una forte empatia, una sincera vicinanza umana verso chi gli capita di osservare. L’imperfezione e il disordine del mondo diventano fondamento della bellezza del quotidiano.

L’attenzione di Parise è tutta nei particolari, in quelle «scarpette di vernice nera» o in quei capelli del colore «delle carote sporche di terra» o ancora nella deliziosa colazione a base di kripferl caldi e cappuccino con «una spolveratina di cacao». Attraverso uno stile fresco e cinematografico, l’autore rianima fragili istanti, momenti fugaci, gesti inaspettati, che possono essere assaporati a piccoli bocconi, degustati pazientemente perché sono olfattivi, tattili, visivamente appaganti.

Un senso di indeterminatezza, però, impregna le pagine dei Sillabari, soprattutto per ciò che concerne la deissi temporale. I singoli testi vengono introdotti da espressioni estremamente vaghe, quali «Una domenica d’inverno», «Un giorno d’estate», «Un pomeriggio d’agosto», che proiettano il lettore verso atmosfere sognanti, in cui si mescolano dolci memorie e immagini sfumate.

Alle delicate nuances dei singoli testi fa da sostegno il tema dominante dell’intera raccolta: la solitudine – non stupisce affatto che la versione inglese dei Sillabari sia stata tradotta come Solitudes: short stories. Questa si rivela l’anello che unisce le catene di racconti, in cui l’autore, chiudendosi nella sfera strettamente personale della propria intimità, si riconosce allo specchio.

Il senso di solitudine in P. si esplicita in diverse forme: in Famiglia riaccende la scintilla della mancanza di un solido nucleo familiare; in Solitudine, scritto che, non a caso, suggella l’opera, si traveste da compagna di vita subdola, cinica, implacabile; in Estate declina verso la nostalgia di un amore passato.

Amavo soprattutto la sua solitudine. Quando lo incontravo per strada, nel vederlo venire avanti mi sembrava che la solitudine si fosse stampata sulla sua persona, non già come una condizione di sventura ma come uno strumento di conoscenza. […] Dalla sua estrema solitudine, sono nati i racconti dei «Sillabari». Ogni racconto è il disegno di una fisionomia umana in un momento di solitudine assoluta e totale, un momento in cui il mondo le appare sguarnito di tutte le idee che vi sono incrostate sopra”. (N. Ginzburg, Eravamo diversi, ma gli volevo bene)

Parise individua l’intima fragilità di un mondo che sembra fatto di cristallo e che contempla attraverso una sensibilità rara e preziosa, riposta con cura tra le pieghe del proprio animo. Il “poeta dell’addio” – così soprannominato da Geno Pampaloni – sfiora i vasti panorami dell’uomo e sospira con uno sguardo di congedo, lasciandosi cullare da quell’inconfondibile malinconia, che costituisce il tratto distintivo della sua scrittura.

Non resta che tuffarsi nella lettura e tornare a galla con i preziosi tesori che si sono raccolti sul fondo cartaceo di questo libro immersivo e profondissimo.

 

Di Ilaria Zammarrelli

Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Cosa rende la pittura di Chagall inconfondibile? L’unico modo per scoprirlo è far parlare i suoi coloratissimi dipinti, via d’accesso a un mondo sofferto e sognante.

Lo scorso 7 luglio si sono spente le 135 candeline dalla nascita di uno dei pittori più longevi della storia dell’arte: Marc Chagall.
Nato a Lëzna nel 1887 da una famiglia di religione ebraica e condizione modesta, fin da subito mostra una vocazione insopprimibile verso la pittura, come egli stesso spiega nell’autobiografia Ma Vie, in cui racconta delle insistenti preghiere alla madre per saltare la scuola e recarsi alla bottega del maestro Yehuda Pen, il solo pittore di Vitebsk. Vedono così la luce i primi “quadretti” che anticipano la lunghissima e prolifica carriera artistica.
Quindi, lasciamo parlare i suoi inconfondibili dipinti, via d’accesso a un mondo sofferto e sognante.

FRAGOLE. BELLA E IDA AL TAVOLO, 1916

All’età di 22 anni “il ragazzo con lo sguardo di una volpe” incontra “la ragazza dalla pelle d’avorio e dai grandi occhi neri” e tra i due scoppia un sentimento che li accompagnerà per tutta la vita. Dal primo momento Bella Rosenfeld diventa musa ispiratrice delle opere dell’artista bielorusso, che sposerà nel 1915. Quel legame puro e totalizzante li solleva da terra, li porta a fluttuare in aria, tanto che Chagall si ritrae spesso in volo con lei – basti pensare a La passeggiata o Sulla città. Il loro amore però affonda le radici nella realtà semplice e autentica della Russia contadina. Lo testimonia Fragole. Bella e Ida al tavolo, che celebra la nascita della figlia e mostra uno stile pittorico decisamente diverso dal solito e più realistico.

LA DANZA, 1928

Ci sono alcuni oggetti che ricorrono nella pittura di Chagall, in particolare il ventaglio, il violino e la pendola. Il primo costituisce un ponte tra la Francia, paese di adozione, e la Russia. Molto in voga negli eleganti ambienti parigini, viene rappresentato con pizzi sofisticati per richiamare la tradizione dei merletti di Vologda. La fama della loro pregevolezza portò all’apertura di numerose fabbriche a San Pietroburgo, dove, non a caso, C. frequentò l’Accademia Russa di Belle Arti. Il secondo omaggia sia gli artisti di strada che popolavano le rues parigine sia la cultura chassidica, nella quale il violinista riveste un ruolo importante in occasione di feste e cerimonie. Il terzo, secondo la religione ebraica, è lo strumento che permette di scandire lo scorrere del tempo, partendo dal microcosmo della propria casa e arrivando poi a misurare il ritmo dell’universo.

 

BUE SCUOIATO, 1947

La drammaticità degli avvenimenti che dilaniano l’Europa negli anni del nazismo spinge Chagall a dare sfogo alle terribili immagini che ossessionano la sua mente. La tematica dell’orrore della guerra trova compiutezza nel Bue scuoiato, in cui il pittore sostituisce al Cristo crocefisso un enorme bue insanguinato e sospeso, a cui fa da sfondo lo scenario notturno di Vitebsk. L’animale rappresenta un ricordo d’infanzia – il nonno era macellaio e lo zio mercante di bestiame – e una memoria della gioventù parigina, trascorsa a La Ruche, vicino al mattatoio.

 

 

 

DOMENICA, 1954

Nel 1910 Chagall si trasferisce a Parigi per entrare in contatto con le personalità più influenti dell’epoca, Picasso e Matisse, e lasciarsi influenzare dalle correnti artistiche d’avanguardia, il Fauvismo e il Cubismo, da cui rispettivamente erediterà l’uso di un colore anti-naturalistico e la tendenza a sovrapporre piani e figure. La città, che consacrerà la sua notorietà, si trasforma in materia onirica, viene dipinta a tinte vivide e brillanti per esaltarne la magia e l’atmosfera fiabesca.

Nessuna Accademia avrebbe potuto darmi tutto quello che ho scoperto divorando le esposizioni di Parigi, le sue vetrine, i suoi musei […]. Come una pianta ha bisogno di acqua, così la mia arte aveva bisogno di Parigi”. (M. Chagall, Ma Vie)

 

L’OROLOGIO, 1956

Le tele di Chagall, traendo ispirazione dalla tradizione folkloristica russa e attingendo all’iconografia ebraica, si popolano di una gran quantità di animali che, spesso, sovrastano i tetti dei villaggi sovietici – lo stesso C. vi saliva per contemplare la sua città dall’alto in solitudine. Tra gli animali più ricorrenti troviamo il gallo, simbolo di potenza e rinascita, ma anche vittima sacrificale alla vigilia dello Yom Kippur, e la capra, allegoria della condizione protetta e intima del focolare domestico. Ne L’orologio il colore supera i limiti della razionalità e diventa veicolo di intense emozioni, che tingono di una sfumatura profondamente malinconica e nostalgica l’intera composizione.

 

Di Ilaria Zammarrelli

Chi cerca, trova: alla scoperta di cinque proverbi italiani

Chi cerca, trova: alla scoperta di cinque proverbi italiani

Chi cerca, trova: alla scoperta di cinque proverbi italiani

I proverbi, perle di saggezza popolare, rientrano ormai nel linguaggio comune. Ma ci siamo mai chiesti come sono nati? Scopriamo l’origine di cinque di loro più da vicino!

Linguaggio è sinonimo di cambiamento. Non esiste, infatti, niente che possa eguagliarlo nella sua incessante attività di evoluzione: è un organismo che assorbe e si arricchisce di tutte le istanze che lo circondano.
Come qualunque liquido assume la forma del recipiente che lo contiene, così la lingua si adatta naturalmente alla propria epoca di appartenenza.
Adattarsi però significa portare dietro una parte di sé in un ambiente nuovo, custodirla e darle nuova linfa. Da qui, l’inserimento di antichi proverbi nei più disparati contesti della nostra vita quotidiana e la loro capacità di risultare perfettamente calzanti.
Interessanti spunti di riflessione, moniti severi, saggi consigli, di generazione in generazione sono sopravvissuti fino ad oggi. Nonostante tutti li conoscano e li utilizzino, pochissimi conoscono la loro origine.
Ecco, quindi, un curioso approfondimento su cinque dei proverbi italiani più famosi!

 

CAMPA CAVALLO CHE L’ERBA CRESCE!

Questo proverbio, che suona come un invito alla pazienza o, piuttosto, alla rassegnazione, deriva da una favoletta popolare. La storia narra di un tale che trascinava per le briglie il suo vecchio cavallo, ormai stanco e digiuno, lungo una strada acciottolata e priva di vegetazione. Ogni volta che l’animale sembrava sul punto di cedere e spirare, l’uomo lo spronava, pregandolo di resistere fino a che l’erba non fosse cresciuta per saziare la sua fame spietata.

CHI VA A ROMA, PERDE LA POLTRONA!

L’espressione originale di questo detto, che affonda le sue radici nella Spagna del XV secolo, risulta essere: “Quien va a Sevilla, pierde su silla!”. Si racconta che, durante il regno di Enrico IV di Castiglia, Alonso III de Fonseca fu nominato arcivescovo di Compostela, mentre suo zio, Alonso I de Fonseca, possedeva l’arcivescovado di Siviglia. A quel tempo, scoppiando numerose rivolte in Galizia, Don Alonso I decise di raggiungere il nipote per occuparsi della situazione spinosa al suo posto e lasciargli l’unico onere di amministrare la sede sivigliana in sua assenza. Tuttavia, al suo ritorno scoprì sfortunatamente che il nipote non era più disposto a restituirgli l’incarico, spingendo sia re Enrico sia papa Niccolò V a intervenire per risolvere la disputa. Quando finalmente il giovane tornò a Compostela, dovette scontare cinque anni di carcere per il reato commesso.

IL GIOCO NON VALE LA CANDELA!

Esistono tre diverse ipotesi legate a questo proverbio, che rimanda all’ambiente francese di fine ‘500. La prima, relativa al mondo religioso, vede la sostituzione del termine “gioco” con “santo” e si riferisce a coloro che, non essendo ritenuti in grado di fare grandi miracoli, non meritavano neanche l’accensione di un cero. La seconda riguarda l’usanza di ridurre il testo degli spettacoli teatrali al fine di far coincidere lo svolgimento con la durata dell’illuminazione. L’ultima, la più accreditata, ha attinenza con l’abitudine dei giocatori di carte di pagare l’oste per risarcirlo delle candele che erano state consumate nell’arco della serata. Talvolta, la posta in gioco era così irrisoria che la vincita non sopperiva alla spesa.

IL MATTINO HA L’ORO IN BOCCA!

Molti potrebbero pensare che questa massima sia frutto della consuetudine, propria dei nostri antenati, di iniziare a lavorare presto… Beh, niente di più sbagliato!  La sua provenienza risale a una vecchia tradizione siciliana. La notte precedente la festa di fidanzamento della figlia maggiore, veniva nascosto un gioiello d’oro nella bocca di uno dei “mascheroni” delle fontane del paese. La mattina successiva, le ragazze nubili della zona iniziavano una frenetica caccia al gioiello, lasciapassare per un’altrettanta rapida promessa amorosa. Ovviamente, alzarsi per prime implicava maggiori possibilità di riuscita. Insomma, tutta questione di “luccicanza”… (a buon intenditor, poche parole!).

SPOSA BAGNATA, SPOSA FORTUNATA!

Ultimo, non per importanza, ma per restare in tema amore-promesse-matrimoni, è questo proverbio che rievoca le credenze del ceto contadino, configurandosi come un augurio di prosperità e felicità. Nel mondo agricolo la donna era considerata forza creatrice, trasposizione umana della potenza generatrice della Terra. Da qui, l’idea che la sposa, proprio come il terreno, se bagnata dalla pioggia, sarebbe potuta diventare più fertile, gravida di una prole abbondante. L’arrivo del temporale il giorno del matrimonio, dunque, diventava segno inequivocabile dell’imminente ampliamento della famiglia.

 

Di Ilaria Zammarrelli

Abitare i ricordi con Matteo Massagrande: l’arte di mescolare memoria e colori su tela

Abitare i ricordi con Matteo Massagrande: l’arte di mescolare memoria e colori su tela

Abitare i ricordi con Matteo Massagrande: l’arte di mescolare memoria e colori su tela

Le tele di Matteo Massagrande tornano alle origini dell’arte e aprono una finestra su un mondo magico, ma familiare, in cui ritrovare i nostri ricordi più preziosi.

I raggi del sole filtrano tra le vetrate opacizzate dal tempo, il soffitto è sostenuto da spessi rami di alberi secolari, il pavimento maiolicato si srotola come un tappeto rosso per accogliere il più curioso degli esploratori. L’aria è mite e tutt’intorno aleggia un silenzio ancestrale, rotto sporadicamente da un lieve cinguettio o, più in lontananza, dal rumore sordo delle onde del mare.
Generalmente non è facile soddisfare le aspettative di cui si alimenta la nostra immaginazione, ma quando si parla di Matteo Massagrande è tutta un’altra storia.

Il pittore padovano nasce nel 1959 e a soli quattordici anni inizia a esporre in tutta Italia, collezionando una lunga serie di prestigiosi riconoscimenti. Il colore gli scorre nelle vene; i pennelli sembrano prolungamenti dei suoi arti; la pittura per Massagrande è connaturata, naturale e… naturalistica!

Nei suoi dipinti, infatti, la presenza umana è assente, inquilina fantasma di dimore in attesa di una rinascita. Sulla scena resta la natura che abbraccia interni abbandonati, privi di arredi, testimoni di una vita declinata al passato.  Le “stanze emotive” conservano nei muri scrostati, negli infissi consumati e fatiscenti l’impronta di una delicata intimità.

Sono spazi evocativi in cui si mescolano ricordi sbiaditi, intense suggestioni, nostalgie di momenti mai vissuti. M. ci invita a entrare in punta di piedi per ascoltare voci dimenticate, recuperare odori perduti e lasciarci ipnotizzare dai raffinatissimi giochi di luce, vera protagonista delle sue tavole. Pallida, vivida, pulviscolare, si insinua tra le fessure delle abitazioni per spogliarle della dura carica iperrealistica e rivestirle di una morbida patina onirica.

Il ‘perché’ delle mie composizioni nasce da un assoluto bisogno, da un’assoluta ricerca di equilibrio; quella che io chiamo una grande armonia cosmica… Un’armonia segreta che io ho necessità di trasformare in disegno”. (Matteo Massagrande intervistato da Guido Del Turco)

È proprio a causa di tale “armonia segreta” che i trompe-l’œil si concedono alcune licenze prospettiche. Curvature anomale, sprofondamenti dissonanti, rammentano allo spettatore di trovarsi davanti a un’opera pittorica, non certo a una fotografia. Massagrande vaga in cerca dei luoghi da cui farsi sedurre, ne osserva e studia ogni particolare. Senza alcun appiglio fotografico, sceglie e ricostruisce le atmosfere, attingendo dalla propria memoria.

La fotografia è un aiuto molto importante per gli artisti di oggi, ma è sempre molto pericoloso usarla, perché è troppo potente per non incatenare la fantasia del pittore. Può servire per osservare i dettagli, o come promemoria, ma non per dipingere. Una volta visto o individuato un luogo, quasi mai mi accontento di com’è, quindi lo modifico, perché riesca ad emanare quella sensazione che ho provato io nel vederlo, che deve essere più vera del reale”. (Matteo Massagrande intervistato da Luisa Negri)

Inoltre, da cultore e amante della materia, M. si inserisce perfettamente nel solco della tradizione della rappresentazione figurativa. Dalla concezione prospettica rinascimentale a quella danese dell’Ottocento (Vilhem Hammershoi), passando per la scuola pittorica olandese del Seicento (Pieter de Hooch), Massagrande non perde occasione per trarre spunto e lasciarsi ispirare dai grandi del passato.

Ad oggi, l’artista divide la sua attività tra lo studio di Padova e quello di Hajòs, Ungheria. Le sue tele tornano alle origini dell’arte, aprono una finestra su un mondo magico e al contempo familiare, sospeso e immanente. Divertirsi a combinare le sue stanze dipinte ci regala la possibilità di creare interni familiari e personalissimi, capaci di riaccendere i nostri ricordi più preziosi.

 

Di Ilaria Zammarrelli

 

Photo credit: https://www.instagram.com/matteo.massagrande/

A lezione da Luigi Malerba: l'(in)utilità come cura per l’anima

A lezione da Luigi Malerba: l'(in)utilità come cura per l’anima

A lezione da Luigi Malerba: l'(in)utilità come cura per l’anima

Malerba ci insegna a seguire l’ “ideologia del superfluo” per guardare la realtà dalla sua prospettiva (in)utile e rivalutare la scala delle nostre priorità.

“Servire a”, “fare per”, “ricavare da” sono i phrasal verbs imperanti di questo tempo. Ogni giorno veniamo sommersi da una valanga irrefrenabile di pareri non richiesti, dalla smania di rendere qualsiasi cosa efficace, proficua, funzionante. Da qui, allora, come un gesto sovversivo, parte la riscoperta dell’inutilità, di ciò che – stando a quanto dice il dizionario – non dà vantaggio, ma resta inconcludente, infruttuoso. Da qui, ancora, quel libriccino postumo che supera di poco le centoquaranta pagine e che, con acuta lungimiranza, già nell’aprile 2008, Luigi Malerba sistemava e riordinava prima di darlo in pasto alle stampe: Consigli Inutili.

A quattordici anni dalla sua scomparsa (8 maggio 2008), lo scrittore emiliano continua a stupire e a dimostrarsi più attuale che mai.

Luigi Malerba, all’anagrafe Luigi Bonardi, nasce nel 1927 a Pietramogolana, in provincia di Parma, ma, alla giovane età di ventitré anni, si trasferisce a Roma per seguire la naturale passione per la cinematografia. È proprio la Capitale, ricca di stimoli e ribollente di opportunità, a ispirargli l’esordio letterario, La scoperta dell’alfabeto, inevitabilmente “contaminato” dalla costituzione del Gruppo ’63. Dai principi propugnati dal movimento letterario neoavanguardistico, Malerba recupera il culto per i testi anarchici, “senza capo né coda”, che non trovano posto in nessuna categorizzazione o standardizzazione.

All’impresa pretenziosa del romanzo realistico che obbliga alla verosimiglianza, M. risponde con la decostruzione del canone attraverso forme di scrittura marginali, “inutili”, come i racconti brevi, gli pseudo-trattati, le biografie immaginarie.
Come si lascia la giacca all’ingresso, così è opportuno far sostare in limine libris trame complicate e storie ingarbugliate perché fin da subito emerge a chiare lettere la voglia di sfuggire ai condizionamenti inquinanti della logica.

Pare che sia venuta l’ora di rinunciare alle cause efficienti e agli effetti coerenti […]. Si tratta della utilizzazione del superfluo, programmata allo scopo di dare un significato diverso alle cose e di goderne le qualità finora trascurate e in qualche caso segrete”. (L. Malerba, Prefazione a Consigli Inutili)

Le “storielle” divertenti scorrono piacevolmente e non seguono uno schema fisso, piuttosto restano sospese tra la leggerezza dei contenuti e la giocosità del tono impiegato. Realtà e finzione si mescolano fino a diventare inscindibili; il lettore viene preso per mano e accompagnato, durante l’intera lettura, a guardare con occhi curiosi, ascoltare con orecchie tese e a liberare una fantasia ormai assopita.

Lunatici, matti, ‘animi sensibili’ sono allo stesso tempo gli ispiratori e i destinatari di questo tipo di letteratura, adatta a chi pensa che forse, davvero, ‘non ci sono regole, c’è solo l’intuito, la sensibilità dell’homo faber’. Se il lettore è ‘dotato di pazienza’ come il ‘coltivatore di querce’, può dedicarsi alla lettura, altrimenti ‘se ha fretta che coltivi i carciofi’. Perché ‘anche al buio chi ha sensibilità e sentimento si accorge’ della presenza dell’Amica ombra e potrà evitare ‘lo sgomento della solitudine’, senza dimenticare che ‘al tramonto anche gli uomini piccoli e depressi fanno le ombre lunghe’”. (V. Cuccaroni su ARGO)

Probabilmente, concederne appena un assaggio è il modo migliore per presentare un libro tutto da gustare e per nulla da spiegare. Consigli Inutili è, forse, un biglietto da visita azzardato e bizzarro per far conoscere un grande sperimentatore del linguaggio come Malerba, ma il richiamo dell’“ideologia del superfluo” e del “culto dell’inutilità” insegnano più di quanto si possa pensare, avvertendosi come una profonda urgenza in un mondo in cui tutto non smette mai di essere capitalizzato.

 

Di Ilaria Zammarrelli

 

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