La Leda senza cigno: un mito viziato dalla modernità

La Leda senza cigno: un mito viziato dalla modernità

La Leda senza cigno: un mito viziato dalla modernità

Quello della Leda e il cigno è tra i miti antichi più noti, la donna violata dal dio che assume le fattezze di un cigno. Cosa accade tuttavia quando la modernità si innesta sull’antico conferendogli nuovo corso? Di cosa vuole narrarci Gabriele D’Annunzio nel suo lungo e inconsueto racconto?

La Leda, un racconto malnoto

Pubblicato a puntate su Il corriere della sera nel 1913, quello de La Leda senza cigno non è certo tra i testi più noti di Gabriele D’Annunzio. Si tratta di un racconto lungo, che infrange i canoni dell’estetismo per i quali l’autore si era sempre elevato a maggior rappresentante. A prevalere nella narrazione è una nota decadente, torbida, quasi baudleriana. Non più la ridondante raffinatezza de Il piacere, nessun perseguimento della bellezza, ma al contrario una bellezza che sfugge e si dissolve nell’ombra del suicidio. Di cosa parla dunque questo testo? Impostato nella forma del racconto a cornice, leggiamo attraverso le parole riportate di Desiderio Moriar, la vicenda di una donna senza nome che persegue l’eterno oblio fino a raggiungerlo prima del tempo designato. Il compimento di questo processo inesorabile è raggiunto solo a seguito di numerosi tentativi falliti e di una esistenza condotta alle dipendenze di un procacciante, il Pitone, che fa della protagonista uno strumento di guadagno. Non conosciamo il vero nome della donna, ma sappiamo che il narratore la definisce Leda. Una Leda, ma senza cigno, una femminilità non compiuta che si arresta nel vortice di prostituzione e morte.

Letteratura che si nutre di cronaca

Il testo, ascrivibile al genere del giallo, non costituisce un parto spontaneo della mente di D’Annunzio. L’autore attinse probabilmente a un caso di cronaca avvenuto alcuni anni prima a Venezia. Si tratta della vicenda di Maria Tarnowska. Nobildonna di origine russa, fu processata nel 1910 per aver istigato all’omicidio uno dei suoi amanti. Sposatasi giovanissima con il facoltoso Wassily Tarnowski, Maria condusse sin dai primi anni del matrimonio una vita dissoluta intrattenendo numerose relazioni extraconiugali.
Fu a Venezia che si consumò l’omicidio da parte di uno degli amanti della Tarnowska, uno studente di nome Nicholas, ai danni di un altro amante della donna, su istigazione di lei. Entrambi i complici furono arrestati, aprendosi quello che divenne noto come “l’affare russo”, poi conclusosi con la condanna di entrambi i giovani imputati.

La vicenda della Tarnowska si lega a quella di Leda alla luce del tema dell’amore torbido, opportunista e dissoluto. Anche la cosiddetta Leda infatti, nella narrazione di D’Annunzio, è costretta dal procacciante a intrattenere rapporti con numerosi amanti che diventano vittime innocenti per fini di lucro. Una volta garantitasi l’assicurazione sulla vita del proprio amante o un’ingente eredità, la Leda insieme al Pitone si rendeva infatti complice della morte della vittima designata.

Un mito incompiuto e un diverso D’Annunzio

La modernità nel racconto dannunziano si innesta sul mito di Leda e ne modifica gli esiti. È singolare l’immagine della donna che circondata dai levrieri di Desiderio Moriar ricorda al protagonista una Leda tra i cigni. Ma in questo caso la fecondazione non si compie del tutto e il destino della donna non è quello di dare alla luce creature umane e divine al contempo bensì di perdersi per sempre nell’oblio della morte. È un D’Annunzio diverso quello che traspare da questo racconto. La lugubre atmosfera della città di Arcachon è intrisa di sofferenza e aura funeraria per via dei malati di tisi che la popolano. Il protagonista descrive le persone e gli ambienti non più con uno slancio estetista, non è la purezza del bello nelle sue forme più elitarie a sollecitare l’attenzione dell’autore, al contrario lo sguardo è posto sulla messa in evidenza del decadente: malattia, vecchiaia inesorabile e avvilente, prassi sociali corrotte e degradate, ambienti vili e scenari barocchi dove una sovrabbondanza di elementi si mescola e dissolve.

Si tratta di un racconto insolito che mette in luce un altro D’Annunzio, attento osservatore della cronaca del suo tempo e capace di cogliere anche il polo opposto della idealizzazione del reale: la sua materica bassezza. Il richiamo al mito nel suo intrecciarsi con la modernità dimostra un’approfondita conoscenza dei significati reconditi che stanno dietro all’immagine di Leda come emblema della femminilità violata. D’Annunzio conserva la sua essenza di attento osservatore degli aspetti anche più sottili del circostante, ma questa volta sposta il focus sul polo negativo evidenziando come l’antico e il moderno possono coniugarsi e reciprocamente risemantizzarsi.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Il nome della rosa: verità capovolte e intersezioni letterarie

Il nome della rosa: verità capovolte e intersezioni letterarie

Il nome della rosa: verità capovolte e intersezioni letterarie

“Il nome della rosa” è certo tra i romanzi gialli più letti dell’ultimo ventennio del Ventesimo secolo, incalzante, avvincente, misterioso. Un capolavoro di scrittura, cultura letteraria e riflessione filosofica.

Pubblicato nel 1980, Il nome della rosa è certamente il romanzo più celebre scritto da Umberto Eco, scrittore, semiologo, traduttore e medievista italiano, intellettuale di spicco della scena letteraria italiana novecentesca. Nota è la trama dell’opera, giallo storico ambientato tra i cupi ambienti di un’abbazia benedettina sull’Appennino toscano. Il suo protagonista è il frate Guglielmo da Baskerville, che insieme all’allievo Adso da Melk, si reca presso il monastero per discutere presso un congresso di francescani in merito alle proprie posizioni pauperistiche. La vicenda si svolge nel pieno clima medievale, nel 1327, tra inquisitori, congressi papali e scontri tra le correnti interne alla Chiesa.

È durante la permanenza di Guglielmo presso l’abbazia che si verifica una serie apparentemente inspiegabile di omicidi di confratelli. Omicidi probabilmente giustificati dalle lotte di potere intestine all’abbazia, e la cui soluzione sembra risiedere in un libro nascosto tra gli anfratti della biblioteca del monastero. Ma la biblioteca è un intricato labirinto dalla forma ottagonale, la cui organizzazione planimetrica è nota solo al bibliotecario e al suo aiutante Berengario. Le indagini si interrompono all’arrivo della delegazione papale, mentre le morti si accrescono misteriosamente giorno dopo giorno.

Il misterioso libro si scopre essere un manoscritto su commedia e riso, la Poetica di Aristotele, cosparso di una velenosa sostanza che provoca la morte immediata al contatto per impedirne la lettura e la divulgazione. È il monaco Jorge a custodirlo gelosamente, il quale nella fuga da Guglielmo per precludergli l’accesso al libro, rovescia un lume provocando un incendio che divampa nella biblioteca. I due protagonisti, Guglielmo e Adso, riescono a scampare, lasciando l’abbazia presso la quale frate Guglielmo farà ritorno solo molti anni dopo.

L’opera è un romanzo storico che sfrutta l’espediente del manoscritto ritrovato. Alcuni interessanti aspetti della sua stesura sono il fatto che le descrizioni dei personaggi della vicenda siano un omaggio ad Arthur Conan Doyle e al suo celebre personaggio: Sherlock Holmes, che Guglielmo a tratti ricalca nelle vesti di un acuto investigatore. Allo stesso tempo Adso sembra ricordare Watson, desideroso di apprendere l’arguzia del maestro, ma distratto e poco perspicace.
Anche nei luoghi di ambientazione si possono cogliere alcuni rimandi. Lo scriptorium del monastero fa diretto riferimento all’abbazia di San Colombano presso Bobbio, e la biblioteca richiama a tratti quella situata nei pressi dell’abbazia di San Gallo in Svizzera, entrambi poli di rilievo nella cultura bibliotecaria e manoscritta medievale. Un aspetto curioso riguarda il misterioso manoscritto responabile di intrighi e morti: la Poetica aristotelica, infatti l’opera andò perduta secoli addietro, come poteva dunque trovarsi presso la biblioteca? La menzione ad Aristotele è voluta e si lega alla figura di Dante Alighieri e all’impianto tolemaico-aristotelico nel quale lo scrittore fiorentino articola la sua Commedia, infatti di commedia parlava proprio l’opera di Aristotele. Il poema dantesco fa da riferimento per via dei suoi quattro livelli di lettura (letterale, allegorico, morale, anagogico), livelli attraverso i quali può essere letta la stessa opera di Eco; livelli che si adattano ad ogni tipo di lettore e che rendono possibile un superficiale contatto con l’opera fino alla penetrazione nei suoi più profondi significati.

L’opera ripropone infatti a più riprese il complesso tema della costante e onnisciente presenza di Dio nel mondo. Concezione che porta ad una messa in dubbio dell’idea stessa di verità e le sicurezze ad essa legate. Guglielmo affronta una profonda crisi intellettuale nell’interrogarsi su quanto sia determinato e determinabile dalla ragione umana, prima tra tutte la sua, e quanto da Dio, scardinando l’idea stessa di verità. Un apparente sovvertimento d’ordine che si fa metafora degli anni immediatamente precedenti a quelli della stesura del romanzo, i moti sessantottini e la concitata situazione politica degli anni ’70, quasi a fare della riflessione teologica uno strumento di indagine delle dinamiche socio-politiche contemporanee a Eco. Di qui Il nome della rosa, nei tempi degli omicidi della “Rosa Rossa”, come quello di Moro.

In una struttura di rimessa in riesame di tutto il reale, la citazione interna al testo dal De contemptu mundi: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus assume un il valore di chiave di lettura dell’opera. Non restano che nomi, significanti che perdurano nel tempo opponendosi a una transitorietà delle cose che è connaturata nel loro stesso esistere.

Il romanzo, fatto di rimandi interni ed esterni che spaziano dalla tradizione letteraria alla società contemporanea, è un intricato labirinto dove ogni supposizione sembra inspiegabilmente fallace, tutto può capovolgersi. Tra le pagine il lettore è catturato da un giallo che non sembra avere soluzione, si perde tra i labirinti fisici dell’abbazia e psicologici dell’indagine. Fino alle ultime pagine è lasciato con il fiato sospeso, in un senso di precarietà, intento a ripercorrere le proprie supposizioni e chiedersi chi davvero sia l’assassino, qual è la verità, cos’è la verità.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Giallo è il colore di Milano

Giallo è il colore di Milano

Giallo è il colore di Milano

Milano non è grigia come la scighèra e lo smog. Milano è gialla, Giallo Milano.

Esiste davvero il colore “Giallo Milano” o è semplicemente uno di quegli aneddoti da blog per spingere il turismo? Il Giallo Milano è, in realtà, qualcosa di cui i milanesi vanno da sempre oltremodo fieri. Perché non è vero che i milanesi non abitano più a Milano: i milanesi abitano nei condomini giallo Milano, e guai a chi cerca di cambiare i colori delle facciate. Perché?

Non c’entrano nulla il risotto allo zafferano o il colore dei vecchi tram, anzi, semmai, è il contrario. Questa particolare tonalità di giallo prende il nome “Milano” perché si tratta del colore che venne scelto sul finire del Settecento, sotto il dominio austriaco di Maria Teresa, per dipingere le case della città. Si rovinava di meno e aveva bisogno di una sola mano, un investimento estremamente favorevole per la casata d’Austria che voleva in ogni modo nascondere l’invecchiamento dell’intonaco bianco che si degradava estremamente in fretta a causa della fuliggine dei camini.

Molti edifici mantengono tutt’ora il colore originale, ma non si tratta solo di abitazioni popolari e case di ringhiera: fino al restauro del 1999 anche il Teatro alla Scala era dipinto di giallo, così come Palazzo Reale e la Pinacoteca Ambrosiana (che lo è ancora).

All’inizio del Novecento, ogni casa popolare che si rispettasse veniva dipinta di Giallo Milano, proprio per ragioni economiche e storiche. Negli anni Trenta, invece, si usavano molto di più la pietra, i marmi e il laterizio lasciato a vista. Oggi si tenta di tornare alle facciate originali chiedendo riferimenti agli anziani del palazzo o vedendo i vari documenti dei lavori effettuati nel corso degli anni.

Si tratta di un colore così chiaro da perdere intensità nel corso del tempo, infatti esistono varie tonalità di Giallo Milano. Il Giallo Milano originale, però, è il Ral 1023 di Pantone, lo stesso giallo ripreso anche dai tram fin dal 1928.

Oggi, quel colore pastello si può trovare ancora con estrema facilità in giro per la città, basti solamente pensare alle case che si affacciano sul Naviglio Grande o sulla Martesana, dove gli edifici sono più vecchi, sebbene negli ultimi anni molti edifici abbiano cambiato il loro aspetto e sono stati tinteggiati di bianco o color tortora.

Alzate la testa, quando saremo così fortunati da poter vivere un altro Fuorisalone. Così, oltre agli spritz e alle mostre nei cortili, sarà facile ammirare un pezzo della nostra storia. Senza entrare in un museo.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.