Dei delitti e delle pene: una moderna lettura della giustizia penale

Dei delitti e delle pene: una moderna lettura della giustizia penale

Dei delitti e delle pene: una moderna lettura della giustizia penale.

Dei delitti e delle pene costituisce una delle opere di maggiore spicco della tradizione illuminista italiana. Stesa in un clima culturale gravido di innovazione, essa porta alla riflessione su alcuni temi salienti della giustizia penale del tempo, attraverso una revisione dei concetti di crimine e giustizia, in una più pragmatica e moderna lettura.

Dei delitti e delle pene: lineamenti generali

Dei delitti e delle pene è un trattato di marca illuminista. Steso e pubblicato da Cesare Beccaria (nonno materno di Alessandro Manzoni) nel 1764, il testo conduce una lucida analisi politico-giuridica di impianto razionalistico e pragmatista sui problemi della giustizia penale settecentesca. L’opera fu inclusa nell’indice dei libri proibiti a soli due anni dalla sua pubblicazione per via della distinzione compiuta dal suo autore tra peccato e reato: se il reato è infatti un danno alla società, istituto atto a regolare il conflittuale rapporto tra gli uomini (sulla scorta della tesi contrattualistica di J. J. Rousseau), per contro il peccato è un reato compiuto nei confronti di Dio, giudicabile soltanto da quello che l’autore chiama l’“Essere perfetto e creatore”.

È quindi la teoria contrattualistica il punto di partenza di queste riflessioni, secondo la quale la società costituirebbe una forma di contratto volto a garantire l’ordine tra gli uomini. La società in questo senso gode di un diritto di autodifesa che giustifica l’applicazione di pene e sanzioni a chi ne viola le leggi. Bisogna infatti impedire che l’individuo infranga la legge per perseguire il proprio utile; il legislatore come abile architetto deve fissare premi e sanzioni in funzione preventiva. Inoltre compito del legislatore è trascende le singole passioni che animano l’uomo e lo inducono a perseguire l’interesse immediato, il patto sociale deve essere preservato in nome della stanchezza dell’essere umano a una guerra sociale contro gli altri individui che condurrebbe all’unica inesorabile strada dell’estinzione.
Non è la tirannide tuttavia il mezzo adeguato, bensì l’adozione di un moderno regime moderato che adempia all’incarico di incivilire i popoli e impedire il deflagrare delle autodistruttive passioni umane. Passioni che tuttavia non devono essere represse e soffocate, bensì regolamentate e reindirizzate.

Principali temi

Beccaria propone quindi di dimostrare ingiustizia e inutilità di provvedimenti tirannici. In particolare prende in esame alcuni aspetti del diritto penale coevo.

  • Pena di morte: lo stato non può decidere della vita di un uomo. La pena di morte non funge da strumento intimidatorio, l’uomo teme molto di più l’ergastolo o una schiavitù perpetuata che gli renderebbero la vita un’ineluttabile sofferenza. Lo stesso assistere alla messa in atto della pena poi, genera negli spettatori un senso di compassione e non rafforza il sentimento di fiducia nelle istituzioni.
  • Tortura: viola la presunzione di innocenza, solo la sentenza del giudice può dichiarare infatti la colpevolezza. Non essendo dunque certa la colpa, il rischio è quello di torturare un innocente, inducendolo a false confessioni pur di trovare una cessazione del dolore.
  • Carcere preventivo: al pari della tortura, in una concezione garantista di giustizia, questa misura deve essere applicata solo quando ci sia una effettiva prova della pericolosità dell’imputato.
  • Sanzioni: sono individuati alcuni caratteri che le sanzioni devono possedere. Prontezza intesa come vicinanza temporale della sanzione al reato; infallibilità; proporzionalità con il reato commesso; durata adeguata al reato; pubblica esemplarità che renda la collettività consapevole dell’inconvenienza della infrazione. Si tratta di una funzione intimidatoria dunque, quella che Beccaria considera la dolcezza della pena volta a prevenire misure più violente.
  • Armi: il loro possesso rimane invece uno strumento potenzialmente deterrente al crimine.
  • Sistemi di prevenzione del delitto: la prevenzione deve partire dall’educazione e nel riconoscimento delle giuste ricompense. Sulle ricompense a compendio dell’opera di Beccaria sarà pubblicato un ulteriore saggio dal titolo Delle virtù e dei premi, a opera di Giacinto Dragonetti.

Dei delitti e delle pene: visione d’insieme

L’opera di Beccaria consiste quindi in una revisione di carattere epistemologico dello statuto del diritto penale. Il legislatore nel suo ruolo di applicatore delle leggi ha il compito non solo, e non tanto, di conoscere il diritto vigente e le passate consuetudini, bensì saper osservare l’ordine corrente delle cose per formulare nuove norme. Questa conoscenza passa da quella che Beccaria chiama la scienza dell’uomo, un approccio che porta a pensare il criminale non più come un essere deviante ma come un individuo normale. Il reato non è più concepito come eccezione ma come qualcosa di connaturato nell’essere umano che, in quanto creatura edonistica, indirizza le azioni al perseguimento dei propri obiettivi. In questo senso la legge interviene a regolamentare, non reprimere violentemente. L’interesse è infatti il motore ultimo dell’agire umano. Non è dunque possibile correggere gli uomini nella loro natura, bensì è necessario far comprendere loro come nello stesso interesse dell’individuo acquisti maggior vantaggio l’osservanza delle leggi che non il compimento del reato.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Voltaire fra Illuminismo e polemica

Voltaire fra Illuminismo e polemica

Voltaire fra Illuminismo e polemica

Voltaire muore il 30 maggio 1778. Figura più illustre dell’Illuminismo francese, la sua speculazione non mancò di attirare le critiche di alcuni illustri personaggi, come il lombardo Giuseppe Parini.

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Ne Il Giorno, e precisamente a partire dal verso 598 della sezione intitolata Il Mattino, Giuseppe Parini scrive:

O de la Francia Proteo multiforme

Voltaire troppo biasimato e troppo torto 

lodato ancor che sai con novi modi

imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo

ai semplici palati; (…)

L’apostrofe, dal tono ironico e pungente, che Giuseppe Parini indirizza al multiforme Voltaire si situa nell’ambito di una più ampia polemica culturale che l’umanista lombardo intesse contro la Francia e le mode che ne provengono, andando ad infettare la già decadente nobiltà italica. 

Come è noto, il rapporto tra Parini e l’Illuminismo francese, e in particolar modo con Voltaire, conosce vicende alterne: in generale, l’umanista lombardo fa propri gli ideali di eguaglianza illuministi; tuttavia critica proprio l’atteggiamento che gli intellettuali francesi hanno nei confronti della religione, e soprattutto il fatto che le opere illuministe, prime fra tutte proprio quelle di Voltaire, siano diventate di moda presso i salotti nobiliari, costituendo non più proficue occasioni di speculazione filosofica e crescita del pensiero, ma oggetti di consumo: Parini, con uno spiccato senso critico, stigmatizza la “cultura da salotto”, mera ostentazione di precetti e di sapere spesso appreso acriticamente. 

Voltaire, al secolo François-Marie Arouet, nacque a Parigi nel 1694 e morì il 30 maggio 1778. Formatosi presso i collegi dei Gesuiti, fin da giovane fu introdotto presso i più importanti salotti della Parigi mondana.

Trasferitosi a Londra in seguito ad un periodo passato alla Bastiglia, Voltaire rimase affascinato dalla cultura inglese incarnata dalle personalità di Bacone, Locke e Newton; e grazie a tale entusiasmo cominciò un’intensa attività di studio, traduzione e critica delle opere letterarie e filosofiche inglesi. 

Intorno al 1750 Voltaire accetta di soggiornare presso la reggia di Federico II di Prussia, a Sanssouci, continuando la fervida attività di studio e pubblicazione. 

Dopo la rottura dell’amicizia con Federico II di Prussia e varie peregrinazioni, si stabilì nel castello di Ferney intorno al 1760: sono questi gli anni durante i quali Voltaire si afferma come capo dell’Illuminismo europeo e difensore della tolleranza religiosa, nonché dei diritti dell’uomo. 

Al cuore della speculazione volteriana vi è un reale che deve necessariamente essere accettato così come si presenta: l’uomo infatti, creatura destinata alla finitudine e all’ignoranza, deve riconoscere la sua condizione nel mondo al fine di accettarla; egli non deve lamentarsi della realtà o negare il mondo stesso, ma accettare serenamente lo stato delle cose. Voltaire infatti è convinto che il male abbia, a modo suo, una sua consistenza, una sua realtà, come il bene. Ma rinuncia, in virtù delle limitate capacità umane, a indagarne le fattezze e le cause.

Ne consegue una peculiare concezione del sovrasensibile, oggetto polemico di molti pensatori e umanisti che non rinunciano a un orizzonte metafisico: Voltaire non nega chiaramente l’esistenza di Dio, ma si rifiuta di determinarne gli attributi in quanto Dio non interviene nel mondo e nelle questioni riguardanti gli individui. 

La stoccata di Parini a Voltaire non si limita alla denuncia del semplicismo volteriano, ma lambisce anche le questioni puramente letterarie

Continua infatti Parini, a partire dal verso 604:

(…) tu appresta al mio Signor leggiadri studj

con quella tua Fanciulla agli Angli infesta

che il grande Enrico tuo vince assai,

l’Enrico tuo che peranco non abbatte 

l’Italian Goffredo ardito scoglio

contro a la Senna d’ogni vanto altera. 

Parini non potrebbe essere più icastico: la fanciulla invisa agli inglesi (Angli) è per antonomasia Giovanna d’Arco, protagonista del poema eroicomico La Pucelle d’Orléans (1755), mentre con il grande Enrico si allude proprio al poema epico composto da Voltaire fra il 1723 e il 1728, l’Henriade, che celebra le gesta di Enrico IV di Francia, primo della dinastia Borbone. L’Henriade sottende, da parte di Voltaire, un temerario e costante confronto con la l’Italian Goffredo, in questo caso metonimia della Gerusalemme Liberata di Tasso: il confronto, secondo Parini, si risolve inesorabilmente a favore del poema tassiano, esempio mirabile di arte poetica insuperabile dall’alterigia francese. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.