Who’s afraid of Virginia Woolf? Ma della scrittrice nemmeno l’ombra!

Who’s afraid of Virginia Woolf? Ma della scrittrice nemmeno l’ombra!

Who’s afraid of Virginia Woolf? Ma della scrittrice nemmeno l’ombra!

Una pièce teatrale, nata a Broadway, che inquadra senza pietà la forza distruttrice dell’ipocrisia negli equilibri di coppia.

Who’s afraid of Virginia Woolf, “Chi ha paura di Virginia Woolf” è un dramma teatrale, giunto alla ribalta nel 1962 nella strabiliante cornice di Broadway e uscito dalla penna dal pluripremiato drammaturgo Edwuard Albee.

Se non si deve giudicare un libro dalla copertina, a maggior ragione non si deve commettere lo stesso errore con il titolo di un dramma.

Infatti, non si parlerà della meravigliosa scrittrice Virginia Woolf, la quale sosteneva che “un buon pranzo giova molto alla conversazione. Non si può pensare bene, né amare bene, se non si è pranzato bene”.

Ma si tratterà di storie d’amore intricate e di non detti che condurranno a scene tra il grottesco e il pietoso.

È curioso come a volte la verità mostri la propria faccia nuda e cruda in un unico istante dopo un infinito silenzio ipocrita, travolgendo tutto e tutti.

Le protagoniste sono due coppie: da un lato Martha e George, coniugi di mezza età, dall’altro Nick e Honey, giovani sposi.

Una sera George invita il collega Nick a casa propria, con la sua dolce metà.

Si direbbe una cena come tante altre. Forse…

Invece tale occasione sociale si trasforma nel banco di prova in cui i padroni di casa si fronteggeranno, pagando lo scotto di lunghi anni di ipocrisia.

I fumi dell’alcol sono i fili di un burattinaio che si chiama Verità.

Così, ebbri di vino, i personaggi danno inizio a un teatrino grottesco. Martha accusa George di avere avuto successo unicamente grazie all’aiuto lavorativo del di lei padre. Dal canto suo George dipinge la consorte come una viziata buona a nulla.

Marta e George si beccano come i famigerati capponi di Renzo, gustando l’agrodolce sapore dello stupore dei novelli sposi. Nick e Honey, ancora giovani e ingenui, fuggono da quel ginepraio di insulti, lasciando soli i due contendenti.

L’acme del dramma si consuma in un finale ai limiti del nonsense, condito da crescente cupezza: Martha e George, ormai soli, piangono il cadavere di un figlio immaginario.

L’umorismo del finale potrebbe generare un nuovo equilibrio nella coppia. Forse.

Lo sconcerto davanti a una pièce così rocambolesca impedisce di chiedersi quale ruolo abbia il nome di Virginia Woolf nel titolo.

Fonte immagine.

Come si è detto la scrittrice non vede spazio per sé nella rappresentazione. Si tratta di un gioco di parole tratto da un motivetto popolare: Who’s Afraid of the Big Bad Wolf, “Chi ha paura del lupo cattivo?”.

Infatti, George e Martha riprendono la canzoncina di quando in quando durante la pièce.

Da un lato il “lupo cattivo” presente nelle loro vite, segnate da una profonda ipocrisia e adagiamento a un mellifluo “lasciarsi vivere”; dall’altro lo squilibrio che porta alla pazzia, dato dalla mancata armonia del loro matrimonio.

La scrittrice quindi viene solamente evocata, in una rappresentazione davvero poco lusinghiera, che ne cita solamente la tendenza autodistruttrice e, purtroppo, suicida.

La coppia giovane, a tratti, pare infatti null’altro che una mera proiezione in potenza di Martha e George.

Le tragedie del quotidiano vengono covate nel silenzio, per lungo e logorante tempo. Ma i fili rossi delle esistenze individuali vengono tesi, arrotolati, sciolti. Quando gli intrecci non creano ricami, ma nodi intricati, allora recidere brutalmente può essere l’unica soluzione.

Il lupo cattivo che dilania e sbrana può liberare, e perché no, magari creare un nuovo inizio.

Chi ha detto dopotutto che il lupo cattivo sia malvagio?

Fonte immagine in Evidenza.

Maria Baronchelli

Sono Maria Baronchelli, studio Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano. La lettura e la scrittura hanno da sempre accompagnato i miei passi. Mi nutro di regni di carta, creandone di miei con un foglio e una penna, o una tastiera. Io e i miei personaggi sognanti e sognati vi diamo il benvenuto in questo piccolo strano mondo, che speriamo possa farvi sentire a casa.

“Lo straniero” di Camus e l’ipocrisia dei rapporti umani

“Lo straniero” di Camus e l’ipocrisia dei rapporti umani

“Lo straniero” di Camus e l’ipocrisia dei rapporti umani

Il protagonista de “Lo straniero” di Camus stravolge l’ipocrisia che si cela dietro i rapporti umani.

La differenza sostanziale tra un bambino e un adulto è la seguente: il primo non nasconde i propri pensieri, celandoli dietro l’ipocrisia del buoncostume, il secondo sa che l’approvazione altrui è l’unico modo per vivere in una società, senza che gli altri lo credano pazzo.

In parole povere e poco condivisibili, non è il rispetto la base dei rapporti umani ma l’ipocrisia spacciata per educazione. Educare un bambino, spesso, significa insegnargli ad essere poco sincero e a rispettare le regole che muovono la vita sociale.

Ci si lamenta continuamente, con aforismi estrapolati ingiustamente da testi letterari, della falsità, delle “maschere” che popolano la società, delle amicizie “di convenienza”. Ma non è forse questo l’unico pilastro che regge i rapporti tra persone diverse: indossare una maschera e accettare le cerimonie, gli eventi odiati da chiunque e le frasi di circostanza? No, forse non è l’unico modo, ma uno di quelli necessari.

Ce lo insegna Albert Camus, filosofo e scrittore algerino, nel suo più celebre romanzo Lo straniero, romanzo per eccellenza che esprime l’assurdo. Il protagonista è Meursault, un impiegato che vive ad Algeri. Meursault è apatico, indifferente ed estraneo ai classici meccanismi della società, uno “straniero” appunto.

Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: «Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti». Questo non dice nulla: è stato forse ieri.

Già nell’incipit Camus stravolge un tabù: la morte. Il protagonista non sa neppure quando è morta sua madre, e la sua apatia sarà visibile anche al funerale stesso, percepita da tutti i presenti. È assente il comportamento standard, che tutti si aspettano. È assente l’espressione del suo dolore: non piange. Per Meursault le cerimonie sono inutili e stancanti, i suoi pensieri sono sinceri come quelli di un bambino: una sincerità scomoda e sconveniente, disprezzata e incomprensibile.

Il giorno dopo la sua vita procede come sempre, va addirittura a nuotare e incontra una donna, Maria. Le persone che incrocia gli danno le condoglianze, una formula di rispetto e compassione che tutti esprimono perché è cosi che bisogna fare. Egli, invece, non aderisce a tali meccanismi, il suo comportamento appare spesso imbarazzante e inopportuno. Certamente è privo di ipocrisia.

L’essere umano cerca continuamente approvazione e, spesso, assume determinati comportamenti soltanto perché “è cosi che si fa”. Ci si prende cura di sé stessi per sé stessi, ma anche e soprattutto per le persone che ci circondano. A volte si dice “Ti amo anch’io” senza pensarci, solo perché l’altro ha manifestato il proprio sentimento. Si risponde “Sì” perché i No non sono ben accetti, perché hanno un prezzo che non si ha il coraggio di pagare.

Ecco invece cosa dice Meursault quando parla con Maria, la donna che, convenzionalmente, definiremmo la sua fidanzata:

La sera Maria è venuta a prendermi e mi ha domandato se volevo sposarla. Le ho detto che la cosa mi era indifferente, e che avremmo potuto farlo se lei voleva. Allora ha voluto sapere se l’amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un’altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che ero certo di non amarla. «Perché sposarmi, allora?» mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. Del resto era lei che me lo aveva chiesto e io non avevo fatto che dirle sì. Allora lei ha osservato che il matrimonio è una cosa seria. Io ho risposto «No».

Meursault è passivo, non gli importa. L’indifferenza è dolorosa per chi la riceve, più dolorosa di un pugno nello stomaco, forse perché quando qualcuno non riconosce la nostra unicità, viene meno l’approvazione che cerchiamo. Ecco perché quando si decide di interrompere una relazione amorosa e ci si aspetta di ricevere insulti, ci si arrabbia se l’altra persona è d’accordo. Non si vuole più che quella persona faccia parte della nostra vita, ma si vorrebbe che per lei non fosse lo stesso. La sua sofferenza soddisferebbe la brama di sentirsi unici e amati.

Per il protagonista il matrimonio non ha alcun senso. Asseconda Maria, la sua proposta e il suo amore, ma non tradisce la propria sincerità, non sceglie di essere ipocrita. Non la ama, ma se lei vuole possono anche sposarsi. Se Maria accettasse di sposare un uomo che non la ama (lo scoprirete leggendo il romanzo), non agirebbe in un modo assurdo, ma come spesso si fa nella vita reale: si accetta un amore a metà, provato soltanto da uno dei due e accettato da entrambi.

L’abitudine scandisce le nostre vite, retta da regole implicite portate avanti da generazioni. L’abitudine di abitare con qualcuno, pur non sopportandone la presenza, ma riconoscendone la necessità. Proprio come fa Salamano, uno dei personaggi del romanzo, un vicino di casa di Meursault. Vive col suo cane da anni, lo tratta male e ne disprezza la costante presenza:

Allora gli ho chiesto cosa aveva fatto il cane. […] Allora, senza voltarsi, mi ha risposto con una specie di furia repressa: «È sempre qui».

Non è forse per questo che si finisce per odiare chi si ama?

L’abitudine del protagonista verrà stravolta da un evento che non sarà rivelato qui per lasciare al lettore la possibilità di scoprirlo da sé. Improvvisamente cambia il romanzo e la vita di Mearsault, ma non cambierà il suo atteggiamento. Egli conserverà la sincerità, ritenuta assurda da persone che hanno sposato fedelmente l’ipocrisia: tutti gli altri.

 

Martina Macrì

Sono Martina, ho una laurea in Lettere e studio Semiotica a Bologna. La scrittura è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Scrivo affinché gli altri, o anche solo una persona, mi leggano e si riconoscano. Su IoVoceNarrante mi occupo principalmente di letteratura.