RAMBO HA QUARANT’ANNI. MA VA FORTE COME ALLORA.
RAMBO HA QUARANT’ANNI. MA VA FORTE COME ALLORA
Nell’ottobre del 1982 esce il film che rivoluziona il genere avventuroso. Sospeso tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, grazie all’interpretazione di Sylvester Stallone diverrà un classico assoluto.
“They drew first blood, not me”, “hanno sparso loro sangue per primi, non io”. Così risponde l’ex berretto verde John Rambo al suo superiore, il colonnello Trautman, che lo accusa di aver causato alcuni danni. In “First blood” romanzo pubblicato nel 1972, l’attenzione è dunque posta su chi colpisce per primo, ossia lo Stato; la società ne utilizza la forza per controllare gli impulsi devianti, non volendo togliere il velo che copre ma non nasconde le cause di tale devianza, mentre il reduce di guerra è uno psicopatico violento, una macchina da guerra che ha perso il lavoro, ed ora è inutile e pericolosa per gli altri.
Ma il film tratto dal libro non vede la luce subito.
Sylvester Stallone è già arrivato al secondo capitolo della saga di Rocky. È ormai una star planetaria, ma non vuole ora essere identificato solamente con il ring. Si mette alla ricerca di una sceneggiatura che ne esalti la figura e lo lanci definitivamente come attore completo; inoltre ha rifiutato il ruolo del reduce dalla guerra del Vietnam in “Tornando a casa”, film che pochi anni prima aveva portato il protagonista Jon Voight (e Jane Fonda) al premio Oscar. È un errore cui deve porre rimedio.
L’ambizione di Sly incontra l’intuizione di Mario Kassar e Andrew Vajna, i boss della Carolco, casa di produzione che ha rilevato i diritti per la trasposizione cinematografica del romanzo di David Morrell. I due vogliono puntare sul tema dell’underdog, dell’escluso reietto dalla società corrotta che trionfa contro ogni previsione.
Il topic sta diventando un classico in quel periodo: del 1984 è “The Karate Kid” che ha come protagonista Daniel Larusso il ragazzo italo-americano che diventa superkarateka (e come regista John Avildsen, quello di Rocky); del 1983 è “Stayin’ alive” sequel de “La febbre del sabato sera” con Tony Manero che, da guinea in fuga dalla New York “sbagliata” nel 1977, diventa star di Broadway (e la regia è, guarda caso, del buon Sylvester).
E dunque chi meglio dell’interprete dello Stallone Italiano può ripagare lo sforzo economico della Carolco?
Eppure, dopo che il passaggio dei diritti tra diverse case di produzione, i ripetuti cambi di registi, attori principali ed antagonisti e i numerosi rimaneggiamenti della sceneggiatura abbiano fatto guadagnare al progetto una aura di film problematico, anche Sylvester Stallone rinuncia. Accetta solo quando gli viene accordata la facoltà di riscrivere la sceneggiatura.
Così, pur mantenendo il titolo del romanzo, l’attore punta tutto su Rambo.
L’opera pone le basi degli action movie del decennio: imprese sovrumane, figure iconiche e laconiche, torti da vendicare e cattivi sempre meno sfaccettati e sempre più determinati nella loro cattiveria; il vice sergente Galt in questo caso è particolarmente sadico.
Rambo invece è l’esercito di un solo uomo. Si può dire che senza l’eroe di Stallone non avremmo avuto Jean-Claude Van Damme, Dolph Lundgren e i vari Die Hard, e gli anni Ottanta non sarebbero stati ricordati, tra le altre cose, come gli anni che hanno rivoluzionato il genere.
Stallone, infatti, comincia con questo film a ritagliare, per sé e per i suoi colleghi la figura di personaggio solitario, silente e sempre meno espressivo; la sua comica umiltà del primo film del pugile di Philadelphia si squaglia, così come restano poche tracce di ironia (quando assale un mezzo dell’esercito ed espelle il pilota: “Guarda la strada, è così che accadono gli incidenti”).
Le scene della fuga nei boschi sono straordinarie e coinvolgenti, e il protagonista si mostra subito a suo agio nella guerriglia; scappa da ogni trappola e i suoi inseguitori lo credono morto. Solo Trautman capisce, non senza personale soddisfazione, che Rambo è ancora vivo.
Il contrasto tra le scene di guerriglia e quelle in cui viene pretestuosamente arrestato per vagabondaggio è però evidente. Rambo, almeno nel primo film della serie, non appare affatto come un eroe senza macchia. È fragile, terrorizzato, devastato dal suo passato, e non comprende come possano i suoi connazionali trattarlo come un appestato e contestargli l’essere un assassino di civili inermi; come possa essere un indesiderato persino dalle forze dell’ordine.
L’ex berretto verde è ancora legato all’humus culturale del decennio precedente che ci ha regalato opere come “Quel pomeriggio di un giorno da cani” con Al Pacino e John Cazale. La società si vergogna di questi reduci, e li tiene fuori dall’uscio di casa. Nella scena finale lo sguardo perso di John verso gli abitanti della cittadina da lui devastata ricorda proprio quello di Al Pacino/Sonny arrestato all’aeroporto.
In questo il personaggio di Stallone (e ovviamente non di Morrell) è ancora sospeso tra i due decenni e paga il tributo a figure come il Travis Bickle di “Taxi Driver”, o anche proprio il Bob Hyde di “Tornando a casa”.
La complessità e le lacerazioni interiori lasceranno spazio nei sequel alla totale dedizione verso la causa (la ricerca di soldati prigionieri in Vietnam e il sostegno alla guerriglia afghana); il presidente Ronald Reagan loderà i film successivi, vedendo in Rambo il simbolo del militare americano, che nel terzo capitolo si accanisce contro una delle più stereotipate edizioni del soldato sovietico. Nel terzo film della saga Rambo, pur rimanendo diversissimo, strizza l’occhio al Michael Kirby di “Berretti Verdi” del 1968, interpretato da John Wayne, mai così agghindato come uno Zio Sam ultraconservatore.
Siamo però nel 1988 e questa iconografia è ormai agli sgoccioli. Dello stesso anno è il film “Danko” dove Arnold Schwarzenegger è un poliziotto in trasferta a Chicago, discretamente robotizzato ma simpatico e ben assortito con il collega yankee Jim Belushi. Il mondo sta cambiando.
La carica profondamente umana in esso trasfusa fa di “Rambo” un film che si lega al suo periodo storico e al tempo stesso ne travalica i confini, mantenendo il suo fascino e la sua forza espressiva ancora oggi. Al di là di ogni etichetta, John Rambo è un eroe universale, la sua lotta per la sopravvivenza lo ha portato fino a noi intatto nel carisma e nel messaggio.
Danilo Gori