US Open: ciak si gira, il tennis e la Grande Mela

Comincia lunedì 29 l’ultima prova dello Slam, tra italiani agguerriti, assenze eccellenti, ritorni, addii e… lieti eventi

Il nostro racconto della stagione tennistica si era interrotto a Londra, con gli applausi per Djokovic e Rybakina, re e regina di Wimbledon; eccolo riprendere a New York, dove lunedì 29 ha inizio lo US Open!

Il sole piacevole, le nuvole inglesi agilissime a celarlo e mutevoli, a volte caricate a salve e a volte piene d’acqua. I riti e le liturgie dei luoghi sacri dello sport, la noblesse du tenis. Beh, dimentichiamo tutto.

Ora comanda l’afa insopportabile di fine estate della east coast, con una superficie, il cemento, che amplifica il caldo percepito dagli atleti. Il pubblico americano si muove, compra da mangiare e torna sugli spalti in ritardo; il giudice di sedia lo richiama più volte “take your seats quickly please”. Non vive nulla di sacro, vede piuttosto un grande show, uno dei tanti nella città di Broadway. Insomma, gente indisciplinata ma divertente.

Cenni di storia: il complesso di Flushing Meadows viene inaugurato nel 1978: il vecchio Forest Hills, nel cuore del Queens, ospita in due distinti periodi ben sessanta edizioni degli US Open, con in aggiunta ben dieci finali di Coppa Davis. Ma negli anni Settanta non basta più per contenere la crescita di pubblico.

Nel 1974 si gioca per l’ultima volta sull’erba, e vince Jimmy Connors; nei tre anni successivi viene scelta la terra verde, più veloce di quella rossa europea. Ma urge una nuova struttura, moderna e soprattutto più capiente. E gli americani erigono Flushing; manco a farlo apposta, vicinissimo all’aeroporto “Fiorello La Guardia”: ogni minuto si alza un aereo, con costante disturbo per la concentrazione dei tennisti. Nel 1978 si gioca sul cemento, scelta seguita fino ai giorni nostri; Adriano Panatta nei quarti apparecchia il suo tennis migliore, ma Connors, che poi vince il titolo, lo beffa sul traguardo con un passante di rovescio a una mano considerato ancora oggi uno dei colpi più belli nella storia del torneo.

Il sindaco Dave Dinkins interviene e nel 1990 ottiene il cambio delle traiettorie aeree per insonorizzare (si fa per dire) il torneo. Well done Dave, tutti i vincitori da lì in poi ti devono qualcosa!

Il Campo Centrale è dedicato ad Arthur Ashe, leggendario atleta di colore, campione nel 1975 di Wimbledon e di intelligenza contro un furioso Connors (sempre lui!); è lo stadio del tennis più grande del mondo.

 

Vicino ad esso l’arena dedicata a Louis Armstrong, omaggio al divino trombettista e alla personalità culturale che trascende l’ambito e la nazionalità. Ma, se si vuole sorridere un po’, possiamo di nuovo pensare a come gli americani approcciano lo sport. Boris Becker trionfò nel 1989, e disse: “vincere qui è incredibile. A Wimbledon è di rigore il silenzio? A New York uno potrebbe suonare il sassofono nelle prime file, e nessuno avrebbe da ridire.”. D’altronde, non è forse nato qui negli anni Settanta il World Tennis Team, una competizione a squadre, già una forzatura in uno sport individuale, dove i tennisti potevano essere sostituiti come nel calcio, e il pubblico poteva tifare – orrore – durante gli scambi?

I più grandi vincitori degli US Open sono Jimmy Connors, Pete Sampras e Roger Federer, tutti con cinque allori; tra le signore Chris Evert e Serena Williams, sei volte ciascuna a segno. Il risultato più importante di un italiano nel torneo è la semifinale raggiunta da Berrettini tre anni or sono, finita con la vittoria netta di Rafa Nadal.

Prima di lui semifinale anche per Corrado Barazzutti nel 1976; perse da Connors, e il match è rimasto famoso per un punto, un colpo di Jimbo che Corrado riteneva fosse out. Prima ancora che il giudice si avvicinasse per controllare il segno (si giocava sulla terra), l’americano passò la rete e cancellò la traccia con il piede, davanti all’attonito “barazza” . Il pubblico lo travolse con dei sonori buu e il giudice arbitro disse qualcosa come “non si fa così Mr. Connors”, in pratica perdonandolo. Avrebbe vinto comunque, però fu un tantino cafone.

Tra le donne invece c’è l’indimenticabile finale del 2015, che si trasformò in una strapugliese tra la tarantina Vinci e la brindisina Pennetta, con quest’ultima che alza la coppa.

Come è andata l’estate tennistica? Dopo Wimbledon luglio ha vissuto l’ultimo scorcio di terra rossa vacanziera, a Umag in Croazia e Gstaad in Svizzera, con i nostri portacolori sugli scudi. Berrettini finalista in Svizzera, Sinner vincitore in Croazia e Musetti ad Amburgo. In agosto il cemento americano è stato meno generoso con gli italiani e ha visto vincere a Cincinnati due giocatori risorti dopo periodi tribolati: Borna Coric e Caroline Garcia. Protagonisti in più per lo Slam newyorchese.

 

Non mi sottraggo al gioco dei favoriti: un pronostico errato in più non può compromettere oltre la mia fama di esperto (ah ah!). Tra i maschi non c’è Djokovic, la cui avversione ai vaccini continua a non piacere lontano dall’Europa (non poté entrare nemmeno in Australia); Nadal ha l’unico dubbio nell’integrità fisica, poi Medvedev, campione uscente. Alcaraz sta tornando dopo un luglio sottotono, Tsitsipas sta giocando benissimo. Italiani: Matteo Berrettini, Jannik Sinner e Lorenzo Musetti sono teste di serie, speriamo arrivino agli ottavi, e poi si vedrà. Forza ragazzi!

Tra le femminucce, Iga Swiatek dopo Parigi ha vissuto soprattutto delusioni; le più in forma sembrano Simona Halep e le americane Pegula e Gauff. Possibili sorprese? La brasiliana Haddad Maia e la russa Kasatkina.

L’edizione in avvio vivrà la commozione di un addio pesante: Serena Williams, una delle più grandi di sempre, si ritira o, come preferisce dire lei stessa, evolve. Nessuna ha vinto più di lei; la sua storia, recentemente narrata in un film con Will Smith nella parte del padre suo e della sorella Venus, si identifica con quella dello spirito a stelle e strisce, della determinazione ferrea di chi vuole arrivare contro tutti e tutto. Straordinaria ambasciatrice dello sport, giocherà l’ultima palla nello stadio dedicato ad un’altra icona black del gioco, quell’Arthur Ashe a sua volta protagonista dell’emancipazione negli anni Settanta.

Il resto è felicità: quella di Petra Kvitova, due titoli a Wimbledon, che annuncia il suo presto sposi; quella di Angelique Kerber, tre coppe Slam, che avvisa tutti: “non partecipo agli US Open, non sarebbe corretto giocare due contro uno”. Capita, quando ti accorgi di essere in dolce attesa.

I migliori auguri a loro, che per un po’ appoggiano la racchetta sul comodino. Un “buon tennis” ai colleghi che invece se la tengono ben stretta in mano, pronti ad usarla come sanno a Flushing Meadows; duecentocinquantasei protagonisti, in scena da lunedì. A chi gli Oscar? Lo sapremo alla fine della… quinzaine (deciditi: è l’Oscar o la Palma d’Oro?). Insomma: pronti, partenza, via!