Dante Alighieri: la genesi dell’esilio

Il 10 marzo 1302 Dante viene raggiunto dalla seconda e definitiva condanna all’esilio. Se fosse stato scoperto entro il territorio comunale di Firenze, sarebbe stato messo a morte. L’esilio rappresenta l’ultimo atto di una tragedia tutta politica, foriera tuttavia di gloria eterna.

Dante scrive nel primo trattato del Convivio, capitolo III:

[…] Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato – , per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade […].

La stesura del Convivio, trattato filosofico incompiuto e scritto in lingua volgare, risale molto probabilmente ai primissimi tempi che seguono la definitiva condanna all’esilio, il 10 marzo 1302. 

La longa manus della teocrazia papale di inizio Trecento era riuscita, grazie ad un sottile gioco di dissimulazioni e diplomazie fantocce, a spargere i semi della discordia in una città, Firenze, che da tempo subiva i segni infausti dell’instabilità e della malapolitica.

Ripercorrendo brevemente il corso degli eventi a partire dal mese di maggio dell’anno 1300, gli sviluppi che portarono all’esilio di Dante e al rovesciamento del governo fiorentino simpatizzante per i guelfi Bianchi, appaiono come dei presagi inascoltati e forse sottovalutati. 

Da tempo oramai la vita politica di Firenze era contrassegnata dal protagonismo dei guelfi Bianchi e Neri, i primi capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, i secondi da quella dei Donati. Le lotte fra le due fazioni raggiunge un livello altissimo di tensione da indurre il formidabile Bonifacio VIII, papa dal 1294, a inviare il cardinale Matteo d’Acquasparta in qualità di paciere. Proprio in quel periodo Dante è priore (dal 15 giugno al 15 agosto 1300), ossia membro del Priorato delle arti, collegio esecutivo del comune e espressione del tessuto imprenditoriale e artigianale di Firenze. 

Il 23 giugno, vigilia di San Giovanni, festa del santo patrono di Firenze, i priori, in processione verso il Battistero per rendere omaggio al santo, vengono aggrediti e bastonati da alcuni illustri esponenti della città appartenenti sia alla fazione dei Bianchi sia a quella dei Neri. I priori, fra i quali Dante, sdegnati per l’accaduto, condannarono al confino decine di alti esponenti di entrambe le fazioni, salvo permettere il rientro dei Bianchi in un secondo momento: un atto non del tutto imparziale che attirò non poche critiche. Nel frattempo il cardinale Acquasparta, pur mantenendo l’apparenza di paciere, garantisce un appoggio incondizionato alla fazione dei Neri e alla famiglia dei Donati. 

Il secondo atto di questa tragedia in crescendo risale al giugno dell’anno seguente, il 1301: il Consiglio dei Cento (uno dei cinque consigli della trafila decisionale del comune di Firenze) deve votare una particolare richiesta del papa Bonifacio: egli richiede l’invio di circa 100 cavalieri da impiegare in Maremma contro i conti Aldobrandeschi. Dante, che faceva parte del consiglio, disse che non si doveva inviare i cavalieri: il suo intervento causò chiaramente alcune contestazioni (come si poteva negare una richiesta esplicita del papa?), e il clima si fece teso: si decise quindi di rinviare il voto. 

Non sappiamo se Bonifacio VIII avesse già puntato l’ex priore a questa data, ma di sicuro Dante stesso sapeva di essersi esposto parecchio. 

Di lì a poco il corso degli eventi precipita: sotto la pressione dell’imminente discesa verso Napoli di Carlo di Valois, fratello del re di Francia, le riunioni dei consigli cittadini si susseguono ad un ritmo quasi frenetico, presagendo forse l’inevitabile pericolo. Nel novembre dello stesso anno, approfittando della presenza di Carlo di Valois giunto a Firenze, Corso Donati, capo dei Neri e rientrato in città impunemente, rovescia il governo comunale

Per poco meno di una settimana i Neri saccheggiarono e uccisero, torturarono e incendiarono a piacere; anche le proprietà di Dante vennero devastate.

Seguì l’allestimento di una serie di processi ai danni dei Bianchi per baratteria (corruzione), e Dante viene condannato in contumacia una prima volta il 27 gennaio 1302 a pagare una multa di 5000 lire e all’esilio per due anni. La sentenza definitiva, dato il mancato pagamento, risale al 10 marzo e prevede un esilio incondizionato: se Dante, assieme agli altri condannati, fosse caduto nelle mani del comune di Firenze, sarebbe morto sul rogo. 

La vicenda dell’esilio di Dante è cosa nota, ma non per questo rappresenta un unicum: nel panorama dell’Italia comunale, fra XII e XIII secolo, l’esilio di politici che si opponevano a vari regimi cittadini non era un fatto raro, come d’altronde non lo era il loro rientro. 

Non sappiamo se l’imputazione del reato di baratteria a Dante avesse delle solide basi fattuali comprovate da documenti e testimonianze: la baratteria era una vera piaga nel Medioevo (Dante stesso condanna i barattieri all’Inferno, nella quinta bolgia dell’VIII cerchio), assai diffusa a tutti i livelli della pratica politica. Dante, a tal proposito, si è sempre dichiarato innocente, sia nelle sue epistole che nella Commedia

E proprio di questo impetuoso ribadimento si ammanta il mito di Dante: la progressiva risalita dalla selva oscura fino alla rosa dei beati, passando per il sacro monte e l’Eden, è costellata da continue profezie, segni nefasti e presagi, reiterati da personaggi di differente estrazione storica nonché intellettuale. Il meraviglioso viaggio di Dante, guidato dalle fiammelle ardenti di Beatrice, quella stessa Beatrice che lo guarderà sorridendo assisa fra i beati dell’Empireo, non è solo rivelazione di Amore, ma maturazione e consapevolezza circa i colpi della Fortuna. 

Dopo l’esilio Dante soggiorna, fra i tanti, presso Scarpetta Oderlaffi, signore di Forlì, poi presso Bartolomeo e Cangrande della Scala a Verona, quindi Treviso, e Ravenna: 

“Tu lascerai ogni cosa diletta

più caramente; e questo è quello strale

che l’arco dello esilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale 

lo pane altrui, e come è duro calle

lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.”

Le parole di Cacciaguida qui riportate dal canto XVII del Paradiso risuonano come l’ultima grande profezia che viene consegnata al pellegrino Dante. Lo aspetta la prova più difficile di tutte: resistere all’impatto di una saetta scaturita dalla mala pianta dei fiorentini, dall’invidia. Il tempo incalza, lo sprona:

“Ben veggio, padre mio, sì come sprona

lo tempo verso me, per colpo darmi

tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;

per che di provedenza è buon ch’io m’armi […]”

La necessità del dire, della parola non più contingente dell’arte poetica, unita alla drammaticità di uno dei passi chiave di tutto il poema dantesco, è segnalato da un marcato utilizzo di rotture del verso; come spezzata appare l’esistenza del poeta dopo l’esilio, condannato a peregrinare e a separarsi da tutto ciò che gli era più caro.

Ci potremmo domandare cosa sarebbe la Commedia senza l’esilio, Dante senza la condanna del 10 marzo 1302. A tal proposito scrive Alessandro Barbero nel suo recente studio, Dante:

“[…] le decisioni che lui e gli altri dovettero prendere (durante il priorato, ndr) furono abbastanza drammatiche da giustificare l’amaro commento di Dante, in una delle lettere viste da Leonardo Bruni, secondo cui “tutti li mali e gli inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio”.”

Sembra che tutta la tragedia politica di Dante abbia un ruolo determinante nel traviamento iniziale del poeta, persosi nella selva, e anche nell’intera genesi del poema dantesco. Non solo la retta via d’amore persa, la sbandata della “donna dello schermo” che la stessa Beatrice gli rimprovera nel XXX canto del Purgatorio; ma anche la politica, e soprattutto l’estrema esperienza dell’esilio, intessono una trama tematica formidabile che contribuisce a riunire i pezzi di una vita e di una moralità in frantumi. 

Come è noto, Dante non rientrò più a Firenze. Passò gli ultimi anni della sua vita a Ravenna, dove si spense dopo aver contratto la malaria nelle valli di Comacchio in seguito ad una ambasceria a Venezia. A Ravenna, ancora oggi riposa il poeta esiliato e fermo sulle sue decisioni: il suo sepolcro, umile e raccolto, accanto alla basilica di San Francesco, riflette per antitesi la grandezza di un individuo che non smette di sorprendere, e che seppe tramutare una disgrazia in una promessa di eternità.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.