Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Nelle inconsistenti vicende dei cinque ragazzi di provincia troviamo le paure di crescere e diventare uomini

Il film “I Vitelloni” del 1953 è il secondo girato da Federico Fellini, di cui ricorre il 31 ottobre il ventinovesimo anno della scomparsa. È una commedia a tratti divertente, a tratti triste e anche disperata, osservata con comprensione ma non senza capacità di giudizio dal protagonista Moraldo, interpretato da Franco Interlenghi.

Ambientato nella città del regista, narra le vicende di cinque uomini, giovani ma non più ventenni, alle prese con una vita di provincia monotona, ma alla quale non riescono e, in fondo, non vogliono rinunciare.

C’è Fausto, il bello e cinico donnaiolo del gruppo, che si vede costretto a sposare Sandra e a trovare un lavoro quando si scopre che aspetta un figlio da lui; Leopoldo, l’intellettuale che continua pigramente a scrivere e rimaneggiare un’opera teatrale. Alberto (un Sordi al secondo film con Fellini, dopo lo “Sceicco Bianco”) è un mammone perdigiorno che critica la sorella, unica fonte di reddito della famiglia, per la sua relazione con un uomo sposato.

C’è Riccardo e c’è appunto Moraldo, fratello di Sandra e quindi genero di Fausto. Vediamo i vitelloni che si fanno beffe della “matta” del quartiere, che stanno sul molo a guardare il mare in inverno o che prendono il sole all’esterno del loro bar. “Poca vita, sempre quella”, come avrebbe cantato Lucio Dalla in “Anna e Marco”.

La figura centrale è come detto Moraldo. Timido e ingenuo, osserva imbarazzato alcune trovate dei più esuberanti amici; li asseconda e li perdona, come quando abbassa gli occhi per non guardare il cognato Fausto corteggiare senza vergogna altre donne. Sul suo viso non si spegne mai il taglio di sorriso con cui segue i compari, ma lentamente si fa strada in lui il desiderio di voltare pagina.

Una notte, tornando a casa dopo una serata in compagnia, si ferma a parlare con Guido, ragazzino che invece sta recandosi fischiettando in stazione, dove lavora come fattorino-tuttofare. Gli chiede se è contento, e il ragazzo fa una smorfia, ma risponde: “beh, si sta bene”. Moraldo si confronta con una persona ben più giovane di lui, che già affronta la vita dura di chi si alza sempre alle tre, ma lo fa con realismo e di buon grado.

Gli toglie il berretto da lavoro e se lo mette in capo; i due ridono ed è il più grande che si incarica di dedicare un momento del loro incontro al gioco.

Da corda al cognato vanesio e lo aiuta addirittura a rubare un arredo sacro dal negozio dove lavora e da dove è stato licenziato dopo che ha insidiato la moglie del proprietario. Rassicura pateticamente Sandra sulla serietà del marito, ma quando lei scappa con il bimbo dopo l’ennesima impresa fedifraga, a Fausto che dice “se si è buttata in mare mi uccido!” risponde: “non lo farai mai, sei un vigliacco!”.

Il gruppo di amici è incapace di cambiare, ed è proprio Moraldo che realizza che, per crescere, bisogna partire. E così fa una mattina, salendo su un treno per chissà dove. Guido, il giovane fattorino, lo saluta con il volto illuminato dal sorriso, e quando il treno ha lasciato la stazione, si mette a camminare in equilibrio su una rotaia, riappropriandosi per un breve momento del suo diritto a giocare. Intanto tutti gli altri vitelloni dormono.

La carrellata dei letti con gli amici addormentati è nello stesso tempo tenera e feroce, e il gesto finalmente attivo di Moraldo avrà un’eco nel Nicola di “La meglio gioventù”, che, dopo aver osservato i propri cari vivere e smarrirsi, organizza la cattura della moglie brigatista, per impedirle di farsi e fare del male.

La bonaria ferocia di Fellini si ripropone nei forti contrasti nel momento della festa di Carnevale, dove tutti devono divertirsi e perdersi (come se alcuni già non lo fossero) in azioni frivole e ingannatorie, per poi cambiare scena al mattino successivo. Dopo i bagordi c’è solo la desolazione di un altro giorno passato e di uno nuovo da riempire di nulla. Alberto, ubriaco, fissa una testa enorme di cartapesta, decorazione ormai inutile, e forse per un attimo vede sé stesso. Ritorna faticosamente a casa, aiutato da Moraldo, e trova la sorella che scappa con il suo amore impossibile. È la tragedia: Alberto consola la madre ma in lui si fa strada la consapevolezza che dovrà trovarsi un lavoro.

E ancora contrasti nelle profonde differenze tra Fausto e il padre, persona povera ma orgogliosa e piena di dignità che, una volta che la nuora Sandra è riapparsa, accoglie il figlio a cinghiate. Alla scena è presente l’ex datore di lavoro di Fausto, che porge la mano al genitore sconsolato dalla vacuità del figlio e gli dice con rispetto: “onoratissimo!”.

“I Vitelloni” non ha avuto immediato successo; la sua fama è cresciuta nel tempo; Martin Scorsese ha detto di essersi ispirato al film per le dinamiche tra criminali di “Quei bravi ragazzi”, e Stanley Kubrick lo ha definito semplicemente il “mio film preferito”. I personaggi assurgono a tipi universali; non c’è quasi traccia di cadenze dialettali, e la pellicola, come spesso accade in Fellini, non è nemmeno girata nella sua città natale. Come in altri suoi lavori, la bugia e il sogno sono sempre in agguato, mezzi espressivi principali del Maestro per raccontare la sua verità.

Danilo Gori