Giorgio Manganelli: quando la parola diventa feticcio

In Manganelli la parola diventa lo strumento attraverso cui la letteratura si esprime, emblema del suo carattere marcatamente menzognero.

Giorgio Manganelli, autore funambolico, caleidoscopico e dalla penna inconfondibile, si staglia sulla scena letteraria con una certa autonomia nella seconda metà del ‘900, esordendo alla tardiva età di quarantadue anni con il volumetto oscuro Hilarotragoedia. Inevitabilmente assorbe, quindi, le idee avanguardistiche e rivoluzionarie propugnate dal Gruppo ‘63, attorno al quale però – va detto – si limita unicamente a orbitare.

Uno dei topoi letterari della sua produzione è senza dubbio la centralità della parola. L’arte è dialettica, è la forma della contraddizione, della coesistenza di valori inconciliabili. L’arte è linguaggio e con il linguaggio si può creare qualsiasi realtà. Gli infiniti mondi danno vita a infiniti libri. La feroce immaginazione di Manganelli si rivela il motore per impressionanti acrobazie intellettuali, che conducono la narrazione a farsi opulenta, trimalcionica, delirante. Di conseguenza, la lingua si fa incalzante, provocatoria e la prosa si caratterizza per un’instancabile e puntigliosa ironia.

A tal proposito, nonostante sia un termine rischioso da maneggiare, “feticcio”, accostato a “parola”, risulta particolarmente calzante per la doppia accezione che abbraccia nell’universo manganelliano. Il “Manga” – così amava essere soprannominato dai più – considera il processo scrittorio come una sorta di rituale, un cerimoniale vero e proprio, durante il quale lo scrittore deve necessariamente eclissarsi, sparire, per lasciare il posto al fool, al saltimbanco, colui che parla e straparla, fabula e affabula fino a esaurire l’intensa attività creativa in fatuo esibizionismo, ampolloso vaniloquio, illogica pantomima.

La parola rètore […] era sacra a Manganelli. E poi, ‘il rètore è un fantasma’, assimilabile al mago e all’alchimista, al negromante e al giocoliere, e soprattutto al fool, al buffone, e ‘si consuma tutto nelle sue frasi’”. (E. Sanguineti, Il linguaggio di Manganelli)

Se da una parte la parola rappresenta un vero e proprio oggetto di culto da venerare durante la cerimonia della scrittura, dall’altra è dalla parola che il fool trae piacere; un piacere esclusivo, da cui dipende, intende dipendere e che insegue attraverso un ossessivo accumulo di termini, parole, lessemi, tanto da metamorfizzarsi in un “dizionario impazzito” che non ha la pretesa o l’intenzione di comunicare un messaggio preciso.

Una parola può parlare soltanto di sé. Semplicemente, non c’è nient’altro di cui potrebbe parlare. E poiché parlare significa usare parole, significa anche muoversi nella realtà, l’unica realtà possibile, ossia il linguaggio. […] L’idea che un’opera letteraria comunichi, per me, è pura follia. Che cosa mai dovrebbe comunicare? Semmai crea uno spazio linguistico, nasce un conglomerato, una sorta di proliferazione verbale”. (G. Manganelli, La ditta Manganelli)

La scrivania si trasforma nello spazio in cui si condensano le idee più assurde e geniali, il luogo in cui il “Manga”, nella sua “tenuta da lavoro” di fool non descrive, ma inventa, non conosce il vero, anzi lo disprezza. Pertanto, le pagine che verranno consegnate al lettore saranno totalmente disancorate dalla necessità di una narrazione coerente, lineare, realistica.

La parola diventa lo strumento attraverso cui la letteratura si esprime, emblema del suo carattere marcatamente menzognero. La letteratura è menzogna non esattamente perché inganna il lettore, piuttosto perché è altro da ciò che socialmente si è persuasi a vivere come reale.

La parola menzogna fu considerata irritante. A me pare, tuttavia, che noi siamo irreparabilmente esclusi dalla coazione della verità dall’irreparabile adescamento del linguaggio. Esclusi dunque dal discorso onesto sulla verità, noi siamo nobilitati alla cerimonia disonesta della menzogna, che ci è consentita e imposta, e il cui esito definitivo è la letteratura”. (G. Manganelli, La critica? Una menzogna di secondo grado)

 

Di Ilaria Zammarrelli

 

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