Sindrome di Stendhal: l’arte può essere fatale?

Sindrome di Stendhal: l’arte può essere fatale?

Sindrome di Stendhal: l’arte può essere fatale?

Hai mai percepito una profonda estasi di fronte un’opera d’arte? Un’ammirazione e connessione con il suo autore tanto penetrante da farti vacillare i sensi? Allora hai avuto un assaggio di ciò che provoca la Sindrome di Stendhal.

La convivenza forzata con il coronavirus ci ha tolto tanto: la serenità, lo svago, la libertà, nei casi peggiori il benessere economico, gli affetti più cari e il lavoro. Un avversario spietato e imperdonabile, che in cambio ci ha lasciato solo un’ipocondria permanente. Ci ha resi ansiosi, ossessionati da qualunque sintomatologia potesse presentare il nostro corpo, dipendenti dai gel igienizzanti. Ma un sospiro di sollievo possiamo tirarlo, perché ora che i viaggi di piacere sono vietati e i musei e le mostre chiusi, perlomeno non avremo modo di incorrere nel noto malessere che si manifesta al cospetto dell’arte: la sindrome di Stendhal.

Per cercare di comprendere come la sindrome percuota il nostro animo e corpo, atterrandoci letteralmente, è bene prima chiarire cosa sia una ‘sindrome’ e perché il fenomeno prenda il nome dal noto scrittore francese ‘Stendhal’.

Si definisce ‘sindrome’ un complesso di sintomi non riconducibili immediatamente e con certezza ad una precisa e singola causa, si manifesta con caratteristiche differenti tra gli individui e inoltre riguarda principalmente la sfera psichica umana. Una malattia, invece, è rappresentata dall’alterazione dello svolgimento delle normali funzioni corporee, ed è più facilmente definibile.

Nel nostro caso parliamo di sindrome, non di una qualunque, ma quella che ha colpito Stendhal in persona. Nel 1817, infatti, era in visita a Firenze e, uscito da Santa Croce, sconvolto dalle bellezze artistiche della sontuosa basilica, ha un improvviso mancamento: si erano manifestati in lui i sintomi di quella che, anni più tardi, sarà denominata dalla psicoanalista Graziella Magherini “Sindrome di Stendhal” o “Sindrome di Firenze”.

Lo scrittore, nell’opera Roma, Napoli e Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio descrive così le sensazioni provate: “Ero arrivato a quel punto d’emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere”.

La sindrome, dunque, causerebbe vertigini, nausea, palpitazioni e debolezza, nei casi peggiori un vero e proprio senso di panico e terrore. Ma come possono un affresco, la facciata di una cattedrale o una scultura affascinare al punto di annichilire i nostri sensi?

Gli artefici e i presupposti che inducono a un tale cortocircuito fisico e mentale sono principalmente quattro: la storia personale del soggetto colpito, il suo sistema di neuroni a specchio, la condizione di ‘viaggio’ e l’esposizione ad un certo manufatto artistico. L’interazione con un’opera d’arte di straordinaria bellezza e carica di significato fa riemergere antiche emozioni dell’incoscio, aspetti caratteriali o familiari che si credevano rimossi o dimenticati, tutto ciò genera un senso di sopraffazione che fa piombare l’individuo nella crisi. A livello cerebrale, sono invece i neuroni a specchio, che determinano le capacità relazionali e imitative umane, a indurre il fruitore dell’opera a ritrovarsi quasi totalmente assorbito in essa, al punto di percepire i medesimi stati emozionali che l’autore ha voluto trasmettere.

Tuttavia, la predisposizione psichica del soggetto non è sufficiente; tutti, o quasi, i casi di sindrome di Stendhal studiati colpiscono turisti. La vittima si trova generalmente in viaggio, lontana da casa e dalla propria ‘comfort zone’, già in uno stato di euforia e sensibilità, ed è Stendhal stesso a confermarlo: “Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe[…]”

Conoscere l’esistenza della sindrome di Stendhal e il suo funzionamento, non dovrebbe in alcun modo condurre a temere l’arte ma, piuttosto, fornirci l’ennesima conferma di quanto essa sia un mezzo espressivo fondamentale.

L’arte stupisce, unisce, alimenta le emozioni e il senso critico nell’uomo, in qualunque sua forma è in grado di trasmettere senza l’uso del linguaggio. La sindrome di Stendhal non è un disturbo ‘cattivo’ ma è solamente il climax di una sensibilità artistica che non si dovrebbe mai perdere, nemmeno per chi, come noi italiani l’arte la respira ogni giorno e in ogni luogo.

 

Matilde Vitale

Mi chiamo Matilde e sono una laureata in Lettere moderne. Nella scrittura ho trovato la simbiosi perfetta tra le tre ‘c’ che regolano e orientano la mia vita: conoscere, creare e criticare. Sono tre c impegnative e dinamiche, proprio come la mia mente e personalità che corrono sempre troppo veloci. Se ti interessa scoprire qualcosa di me o di ciò che scrivo non ti resta che iniziare a leggere, buona lettura!

Idee regalo per disperati

Idee regalo per disperati

Idee regalo per disperati

È il 20 dicembre e sei qui a consultare articoli che suggeriscono idee regalo dell’ultimo minuto e ti definiscono ‘disperato’. Che tu lo sia davvero?

Fino ad oggi ti sei sicuramente impegnato a ignorare il proverbio “non rimandare a domani ciò che invece puoi fare oggi”. Oppure non hai afferrato le redini della ‘questione regali’ perché autoconvinto di voler aspettare l’ispirazione per il regalo perfetto. Ti sarai lasciato sedurre troppe volte dall’accoppiata Netflix-divano o, ancora, potresti essere uno dei pochi fortunati che è riuscito a persuadere amici e parenti con il comodo motto “è il pensiero che conta”. Ma tranquillo, non vogliamo addossarti ulteriori pressioni accusandoti di negligenza. Ti trovi nel regno felice dei posticipatori cronici e siamo qui per risolvere i nostri problemi insieme.

Nell’articolo Stai impazzendo alla ricerca dei regali di Natale? abbiamo spiegato da dove nasce la ‘piaga’ dello scambio dei doni. La colpa è degli antichi romani e della festività dei Saturnalia: una settimana di gioia e condivisione ma anche di sfarzo, sperperi e materialità insistita. Come accade spesso nel nostro paese, ci ritroviamo avviluppati entro le nostre stesse tradizioni ma, consapevoli di questo assioma, è ora il momento di venirne a capo.

Filosofia del regalo perfetto

Fare un regalo perfetto, soddisfando i gusti e le aspettative del destinatario, non è di certo impresa facile. L’acquisto di un dono, o la sua creazione per i più estrosi, è sempre preceduto da un momento preliminare fondamentale: l’introspezione. In questa fase imprescindibile ognuno tenta di tirare fuori il piccolo Babbo Natale che c’è in lui, interrogandosi su chi sia il ricevente, che desideri abbia e che rapporto ci lega a lui. Perciò il ‘fare i regali’ non coincide solo con il momento dell’acquisto, ma è un lungo studio psicologico dei bisogni e necessità dell’uomo. È un processo in divenire e se ‘il divenire è sostanza dell’Essere’, citando Eraclito, allora, per la proprietà commutativa, il regalo è l’essere. Ok forse stiamo avviando una speculazione sproporzionata rispetto al focus dell’articolo o stiamo nuovamente tentando di rimandare il momento della scelta dei doni. In realtà è tutto tempo investito per te. Illustrandoti la filosofia del regalo perfetto, c’è qualche chance che tu possa avere un’ispirazione autonoma, senza dover convivere con il senso di incapacità che deriva dall’aver scopiazzato idee regalo in giro sul web.

Fare un regalo non è necessariamente scegliere un prodotto oggettivamente bello, appetibile o prezioso, ma è dedicare tempo alla persona amata, condurre una ricerca per renderla felice. Inoltre, ciò che conferisce maggior valore a un regalo è la capacità di contestualizzarlo, caricarlo di valenza affettiva inserendolo in un contesto che rimandi a un episodio di vita vissuto con il ricevente o  che si addica alle sue sfumature caratteriali. Altrimenti, riprendendo Platone, possiamo sempre ripiegare su ‘è l’idea che conta’ poiché, per il filosofo, ogni cosa è imperfetta al confronto dell’idea e dunque non ci sarà mai nessun regalo materiale all’altezza dell’idea stessa di regalo.

Idee regalo (PER DAVVERO)

Eccoci approdati alla parte più succulenta di questo articolo, quella in cui ti proponiamo vere e proprie idee regalo originali, intersex e potenzialmente adatte a tutti.

  1. Cominciamo dalle esperienze di coppia. Chiunque avrà regalato o ricevuto almeno una volta nella propria vita un viaggio, un buono per le terme o pacchetti di esperienze visti e rivisti. Sapevi invece che esistono nuovissime suite in alta quota? Facendo un esempio, presso la località lombarda di Chiesa in Val Malenco, un gatto delle nevi è stato reinventato e trasformato in suite per romantiche fughe d’amore tra i boschi. In tutt’Italia ci sono, inoltre, numerose proposte di glamping, una forma di campeggio più confortevole e adatta ai più schizzinosi. E invece perché non regalare alla tua dolce metà un’esperienza di degustazione vini in una cantina vinicola in Piemonte o Toscana? Perché si sa, il vino è sempre la scelta migliore. E se è astemio/a? Potresti saggiamente valutare di trascorrere l’ultimo Natale al suo fianco.
  2. Vuoi altri consigli per risparmiarti ore di fila nei centri commerciali? Puoi acquistare direttamente da Amazon interi kit low cost per coltivare hobby creativi di ogni tipo: dalla pittura ai puzzle, dalla mixologia al ricamo e tanto altro.
  3. È Natale, potresti pensare di fare del bene acquistando articoli sostenibili che derivino da materiali di riciclo, supportare una causa benefica o l’artigianato italiano o, ancora, adottare a distanza cani o gatti bisognosi in rifugi, canili e gattili. Sapevi che puoi perfino adottare a distanza una mucca? Potrai assegnarle un nome, ricevere a casa i prodotti caseari e anche recarti personalmente a trovarla in malga.
  4. Cerchi, invece, un regalo simbolico per qualche amico o affetto a cui sei fortemente legato? Potresti pensare di regalare un ‘Marimo’, un’alga giapponese di cui prendersi cura, simbolo di unione per la dolce mitologia che porta con sé.
  5. Oppure mi stai chiedendo un regalo per un uomo distinto e sofisticato? Puoi regalare dei gemelli, ne esistono di tutte le tipologie e forme.
  6. Perché, invece, non riempire di perline o pagliuzze una scatola e inserirvi diversi regali spiritosi?
  7. L’ultimo suggerimento generoso che vi doniamo rappresenta un regalo molto richiesto da ogni buon ipocrita che si rispetti. Quanti, anche quest’anno, ti avranno detto di ‘non volere niente’ mentendo anche a se stessi? Accontentali regalandogli proprio un bel ‘niente’ (vedi immagine sopra).

Se siamo riusciti a risolvere i tuoi dilemmi natalizi o perlomeno a strapparti una risata, ricondividi l’articolo con altri disperati come te!

Matilde Vitale

Mi chiamo Matilde e sono una laureata in Lettere moderne. Nella scrittura ho trovato la simbiosi perfetta tra le tre ‘c’ che regolano e orientano la mia vita: conoscere, creare e criticare. Sono tre c impegnative e dinamiche, proprio come la mia mente e personalità che corrono sempre troppo veloci. Se ti interessa scoprire qualcosa di me o di ciò che scrivo non ti resta che iniziare a leggere, buona lettura!

Leggerezza e pesantezza in Dalì e Kundera

Leggerezza e pesantezza in Dalì e Kundera

Leggerezza e pesantezza in Dalì e Kundera

Tutti, almeno una volta nella vita, siamo stati definiti ‘pesanti’. Ma è davvero un attributo negativo? Scopriamo cosa pensavano dell’opposizione leggerezza-pesantezza Salvador Dalì e lo scrittore cecoslovacco Milan Kundera.

Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa?”: questo è l’interrogativo che si è posto lo scrittore Milan Kundera, nel romanzo del 1985 L’insostenibile leggerezza dell’essere. E invece Salvador Dalì? Cosa ci raccontano i simbolici e flessuosi elefanti delle sue tele sulla coppia oppositiva leggerezza-pesantezza?

Dalì: una pachidermica leggerezza

Il 23 gennaio di 33 anni fa scompariva il pittore surrealista Salvador Dalì, ma non senza lasciarci una ricchissima eredità di tele, simboli e fertili allegorie. ‘Grandi’ protagonisti della sua arte, sono gli elefanti. Sono rappresentati dall’artista con lunghissime e sinuose zampe, che paiono tanto fragili quanto inadatte a sostenere la consistente mole dell’animale. Ma il surrealismo è proprio questo: illogicità, irrazionalità, sogno e plasticità. La corrente artistica trae i propri presupposti dalle teorie Freudiane sull’inconscio e l’emergere del medesimo attraverso i sogni. Per questo, la poetica daliniana è così straniante, costruita da figure morbide, che entrano le une nelle altre con continuità, in un tempo nullo e sospeso, in cui a dominare sono la forza e le possibilità offerte dall’immaginazione.

In copertina è raffigurata una delle opere più celebri dell’artista: La Tentazione di Sant’Antonio, anno 1946, olio su tela. Il contrasto tra leggerezza e pesantezza si fonda nelle figure dei pachidermi che, contro ogni legge fisica, si allungano leggeri verso il cielo. Tuttavia, sono schiacciati al suolo dalla pesantezza immane che le loro schiene sono costrette a sorreggere: i simboli delle grandi tentazioni e vizi dell’uomo, sessualità, potere e ricchezza.

In Dalì, dunque, pesantezza e leggerezza coesistono, la leggerezza è quell’aspetto che ci fa naturalmente protendere verso l’alto, la pesantezza è quella che ci lega indissolubilmente al vivere terreno. La stessa compresenza dei due piani si può riscontrare in Cigni che riflettono elefanti, del 1937 (vedi immagine sottostante). Qui, la sapiente illusione ottica studiata dall’artista fa in modo che il riflesso dei tre cigni corrisponda a quello di tre pesanti elefanti, rendendo le due realtà inscindibili. Tale lettura si sposa a pieno con il pensiero di Kundera, ma vediamo perché.

Leggerezza e pesantezza in Kundera: due facce della stessa medaglia

Nel romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere, Kundera rappresenta la vita di quattro protagonisti, e in particolare di due, durante la Primavera sessantottina di Praga. I personaggi si scontrano con il concetto di leggero e pesante in relazione all’amore e alle esperienze affettive e erotiche che si trovano a vivere. Da un lato c’è Tomáš, reso libero e leggero dalla propria vita sessuale, costellata da incontri con diverse amanti. Dall’altro lato troviamo Tereza, giunta sino a lui come “un bambino sospinto dalle acque di un fiume in una cesta spalmata di pece”.

Lei è fragile, apparentemente leggera e indifesa, ma non tarderà a mostrare la propria pesantezza, frutto della sua sensibilità ma anche delle diverse relazioni adulterine di Tomáš che è costretta a sopportare. Eppure, Tomáš non la tradisce mai realmente, poiché è capace di scindere sesso e amore. Lui, mai fedele con il corpo, non smette mai di esserlo con il cuore e l’anima. Ma Tereza fatica ad accettarlo e paga così il prezzo dell’ ‘insostenibile leggerezza’ di Tomáš.

Così per Kundera, tanto quanto per Dalì, leggerezza e pesantezza si rivelano due facce della stessa medaglia, coesistenti, soprattutto nell’amore. Inoltre, il paradigma si fonda anche nella dimensione onirica, nei sogni di Tereza, tormentati dai fantasmi delle donne della vita di Tomáš. Kundera riassume così la dualità leggero-pesante:

Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. […] Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.  Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza?.

La dicotomia incarnerebbe in questo modo l’inclinazione che può volontariamente assumere ogni uomo. Leggerezza non è superficialità, ma un modo di approcciarsi alla vita. È quella capacità di distaccarsi dal terreno, per volare alto, dimenticandosi momentaneamente di avere un corpo e un peso.

Matilde Vitale

Mi chiamo Matilde e sono una laureata in Lettere moderne. Nella scrittura ho trovato la simbiosi perfetta tra le tre ‘c’ che regolano e orientano la mia vita: conoscere, creare e criticare. Sono tre c impegnative e dinamiche, proprio come la mia mente e personalità che corrono sempre troppo veloci. Se ti interessa scoprire qualcosa di me o di ciò che scrivo non ti resta che iniziare a leggere, buona lettura!

Colazione da Tiffany: la paura di mettere radici e il fascino del provvisorio

Colazione da Tiffany: la paura di mettere radici e il fascino del provvisorio

Colazione da Tiffany: la paura di mettere radici e il fascino del provvisorio

Il 20 gennaio 1993 scompariva la diva più graziosa del cinema del ‘900: Audrey Hepburn. Ricordiamola con l’iconico tubino nero Givenchy, collana di perle, cappuccino e brioche, rapita dalla seducente vetrina Tiffany di New York.

Si apre così Colazione da Tiffany, film del 1961 del regista Blake Edwards ispirato all’omonimo romanzo del 1958 di Truman Capote. Regina indiscussa della scena è la Hepburn che nel film riveste il ruolo di Holly Golightly. Bastano pochi secondi per essere catapultati nel suo mondo: siamo nella New York degli ultimi anni Cinquanta, alle prime luci dell’alba, un taxi si ferma davanti a Tiffany, scende la protagonista di ritorno da una festa e, raffinata ed elegantissima,con inaspettata disinvoltura, tira fuori da un cartoccio la sua colazione (click qui per la scena). Holly è così. Affascinante ma sbarazzina, dolce ma imprevedibile e goffa. Il suo modo di approcciarsi alla vita è leggero e impulsivo, proprio come il cognome, ‘go lightly’, conferma. È la tipica donna che sa indossare una collana di perle e con la medesima verve fischiare con le dita per chiamare un taxi.

Certamente una figura e uno spirito brioso, di quelli che attraggono, travolgono e diffondono energia positiva attorno a sé. Eppure nemmeno Holly è perfetta. Vive in ristrettezze economiche e si mantiene facendo la prostituta d’alto rango,offrendo sorrisi (e qualcosa di più) ai distinti e attempati frequentatori dei party di Manhattan. Svolgerà indubbiamente una professione disdicevole, ma alla grazia molto si perdona, specialmente quando dietro batte un cuore che sa rimanere puro e genuino.

La protagonista però, oltre a dover sopportare il peso di quel difficile mondo, deve convivere ogni giorno con la sua paura più grande: quella di legarsi per sempre a qualcuno e ‘mettere radici’ in un luogo. Sì perché benchè lei viva a New York da ormai un anno, non ha ancora arredato la casa, né svuotato del tutto le valigie, né dato un nome al gatto che chiama semplicemente ‘Gatto’. Tutto nella vita di Holly è ‘provvisorio’ e forse possiamo capirla: fare programmi significa costruirsi delle aspettative e, spesso, rimanere disillusi da queste. Preferisce vivere libera, come un animale randagio, sola, indipendente e al sicuro nel suo vacillante universo di incertezze.

Anche l’amore la spaventa. Per Holly amare e farsi amare significa ‘appartenere’ a qualcuno, cadere in trappola. Ma il suo è un meccanismo difensivo o solo un modo usato per celare poco coraggio e tanta paura? Paul, lo scrittore nuovo vicino di casa di Holly e poi l’unico a cui lei avrà l’ardire di legarsi davvero, ha le idee chiarissime in merito: “Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di coraggio [] Tu ti consideri uno spirito libero, un essere selvaggio e temi che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa.”.

Tutti vorremmo un po’ essere Holly, provare a realizzare il proposito di vivere sempre leggeri e forti da soli, senza bisogno di niente e nessuno. O forse ci serve solamente trovare il nostro luogo com’è Tiffany per Holly, un luogo in cui sentirsi al sicuro e protetti, lontani dalle più malinconiche ‘paturnie’.

Matilde Vitale

Mi chiamo Matilde e sono una laureata in Lettere moderne. Nella scrittura ho trovato la simbiosi perfetta tra le tre ‘c’ che regolano e orientano la mia vita: conoscere, creare e criticare. Sono tre c impegnative e dinamiche, proprio come la mia mente e personalità che corrono sempre troppo veloci. Se ti interessa scoprire qualcosa di me o di ciò che scrivo non ti resta che iniziare a leggere, buona lettura!

House of Gucci: una tragicomica lotta al potere

House of Gucci: una tragicomica lotta al potere

House of Gucci: una tragicomica lotta al potere

House of Gucci è il nuovo film di Ridley Scott uscito nelle sale italiane il 16 dicembre. Tanto atteso per il cast d’eccezione e la promessa di svelare i retroscena della casa Gucci, si è rivelato un prodotto cinematografico complessivamente deludente, ma vediamo perché.

 

Ridley Scott decide di raccontare la seconda e terza generazione dei Gucci, famiglia la cui ascesa ha inizio nel 1921, quando Guccio Gucci fonda un’azienda di pelletteria a Firenze, nucleo originario della casa di moda Gucci. Fino agli anni Settanta sono Aldo e Rodolfo Gucci a detenere le redini dell’azienda paterna, ma, nel 1983, la scomparsa di Rodolfo apre la strada a intrighi e conflitti familiari, veri protagonisti del film. La spartizione delle quote dell’impresa genera la tracotante contrapposizione tra due fazioni senza scrupoli: Maurizio Gucci e la nuova consorte Patrizia Reggiani da un lato (Adam Driver e Lady Gaga nel film) e Aldo e il figlio Paolo Gucci dall’altro (interpretati da Al Pacino e Jared Leto).

La lotta per il potere

La pellicola inscena una lotta per il potere darwiniana, in cui solamente i più forti e avidi possono sopravvivere allo scontro. Inizialmente, Maurizio e la scalatrice sociale Patrizia sembrano i favoriti all’acquisizione dell’intero patrimonio grazie alle numerose astuzie illegali di cui si avvalgono. Falsificano firme, pubblicano documenti scomodi che costringono Aldo a un anno e un giorno di carcere e tentano di incastrare Paolo Gucci, dichiarandolo non autorizzato a usare il marchio in una sfilata suggeritagli da loro stessi. Tuttavia, la lotta non eleggerà né vinti né vincitori, la selezione delle specie farà soccombere tutti. Chi tradito e ucciso dai più cari, chi in prigione. È così che la famiglia Gucci sarà unita solamente nell’epilogo, sotto l’insegna del fallimento e della perdita collettiva, poichè Gucci cesserà per sempre di essere un marchio a conduzione familiare.

La triade potere, famiglia, lotta, e i suoi strascichi, è tematizzata visivamente in due scene. La prima in cui nell’umile dimora di Aldo Gucci sul Lago di Como, Villa Balbiano, ha luogo un violento gioco tra gli invitati. Tutti i partecipanti si accalcano gli uni sugli altri per conquistare il pallone. La lotta sportiva, apparentemente eccessiva e grottesca come molte altre del film, non è altro che il preludio degli scompigli che si verificherrano in casa Gucci: tutti si gettano nella mischia, focalizzati solo sul fine ultimo di conquistare la vittoria, il potere, noncuranti di ferire chi sta loro attorno. Inoltre, il film si addentra nelle problematiche della gestione del potere ai suoi vertici più alti, senza soffermarsi su chi si trova ai margini della piramide, ai gradini inferiori. L’alterità di queste due realtà è circoscritta a una singola scena, quando Maurizio e Patrizia si recano per il compleanno di Aldo in una delle aziende rurali in cui si conciano le pelli Gucci. Qui gli ospiti altolocati mangiano allo sfinimento e festeggiano con una torta imponente. Intorno a loro gravitano gli umili in vesti povere, in modo da rendere una fortissima e cruda contrapposizione tra le classi sociali.

Buono e cattivo gusto

Un cast eccezionale, una griffe di fama internazionale e una tematica ricca e di interesse per un mondo capitalista come il nostro. Il film parte con i migliori presupposti per divenire un successo campione di incassi acclamato dalla critica. Eppure qualcosa è andato storto. Il problema di House of Gucci è essere un lungo, lunghissimo, lungometraggio di 2 ore e 38 minuti che dopotutto approfondisce ben poco, dimostrandosi, anzi, tanto carente di contenuti quanto straripante di cattivo gusto americano. Per esempio, il personaggio interpretato da Lady Gaga, la cui recitazione è uno dei pochi elementi in grado di garantire postura al film, è stato caricato di stereotipi. Ne risulta una Patrizia Reggiani che gesticola in maniera insistita e quasi fastidiosa, che si esprime adottando un accento che vuole scimmiottare la parlata italiana, ottenendo invece una cadenza russa (vedi qui). Anche Paolo Gucci, animato da un irriconoscibile Jared Leto, è una figura estremamente caricaturiale e grottesca, protagonista di scene comico-realistiche volgari che paiono stonare in un film che dovrebbe raccontare il drammatico declino dei Gucci. La stravaganza si trasforma poi in blasfemia quando la Reggiani riproduce il segno della croce pronunciando le parole “Father, Son and House of Gucci”.

Eppure in questo scenario tragicomico che lascia interdetti spettatori e critica trionfa, perlomeno, un godimento esteticoche sgorga dalle lussureggianti ambientazioni italiane e dai costumi eccezionali. Sfondo delle vicende sono principalmente, Milano (l’Università Statale, il Duomo, San Babila e Villa Necchi), Roma e Como, bellezze italiane che impreziosiscono la narrazione. Il marchio Gucci, invece, veste i personaggi e rende le scene vivide e attraenti. Oltretutto, lo stile sfoggiato da Patrizia Reggiani evolve di pari passo con il proprio personaggio. Più la donna diviene bramosa di potere e influente nella vita del marito e di casa Gucci, più i sontuosi gioielli e le ingombranti pellicce la ammantano di un’aura di fortezza e invincibilità.

Tra falsità storiche e cause legali

House of Gucci si presenta come un documentario tratto da fatti realmente accaduti, ma la storia della famiglia viene invece distorta in più punti. Non vengono rispettate né verità storiche più banali, come la falsa rappresentazione di Paolo Gucci come un fallito privo di gusto, né quelle più tortuose, come l’omicidio di Maurizio Gucci. L’intero film, infatti, sembra tendere naturalmente verso la scena decisiva, quella dell’uccisione di Maurizio Gucci nel marzo 1995, orchestrata dalla moglie con l’aiuto di un sicario. A rigor di cronaca, egli viene ucciso a Milano, in Via Palestro, sede di casa Gucci, nel film la scena è invece collocata a Roma. Inesattezza? Leggerezza? Sicuramente un ingenuo errore per un film che si investe del vanto di essere un documentario.

Questo, altri punti critici e il ritratto familiare di incompetenti, avidi e calcolatori che ne traspare, assicura al film un’azione legale dalla famiglia Gucci in persona. A conclusione della lettera i Gucci dichiarano “I membri della famiglia Gucci si riservano ogni iniziativa a tutela del nome, dell’immagine e della dignità loro e dei loro cari”. Uno sconcerto comprensibilissimo, ma che sta rapidamente per essere ripagato da un vertiginoso aumento del valore del marchio e delle vendite di Casa Gucci.

Matilde Vitale

Mi chiamo Matilde e sono una laureata in Lettere moderne. Nella scrittura ho trovato la simbiosi perfetta tra le tre ‘c’ che regolano e orientano la mia vita: conoscere, creare e criticare. Sono tre c impegnative e dinamiche, proprio come la mia mente e personalità che corrono sempre troppo veloci. Se ti interessa scoprire qualcosa di me o di ciò che scrivo non ti resta che iniziare a leggere, buona lettura!