La parola ingannatrice in Dostoevskij e Gorgia
La parola ingannatrice in Dostoevskij e Gorgia
Dostoevskij, fra i massimi autori russi, fa propria l’estetica della parola di Gorgia, il celebre sofista di Lentini: adulazione e inganno, insiti nella parola, sono scevri di qualunque connotazione morale, e la parola stessa è libera di ammaliare l’ascoltatore, pur peccando di falsità.
L’atto di seduzione implica in senso proprio un “tirare da parte, condurre verso di sé”. Il fascino di un frangente o di una persona diventa un potente narcotico che attraverso il mezzo dell’adulazione incatena il buon senso, subordinato alle ragioni del corpo o dello spirito. La lode oltre misura, esagerata, quasi veemente dell’adulazione è dettata dall’istinto di compiacenza, nonché da un vivo interesse i cui scopi non sempre sono chiari.
Ne sa qualcosa la povera Elena di Sparta: secondo Gorgia, filosofo del V secolo nativo di Lentini, in Sicilia, la regina e figlia di Leda non avrebbe colpe se accettò di seguire il giovane Paride a Troia e gettare le basi di una guerra che sarebbe durata dieci anni.
Il rapimento della bella Elena sarebbe giustificato da ben tre motivi: dalla forza, per amore o per la seduzione della parola. Nel primo caso, afferma Gorgia, bisognerebbe biasimare Paride, colui che opera una violenza sul più debole, in questo caso la regina di Sparta; se invece la giovane regina fosse innamorata del principe troiano, non bisognerebbe biasimarla perché gli uomini non hanno potestà sui fatti di amore, che competono invece, come l’odio, agli dei.
Nel caso della seduzione attraverso la parola, Gorgia scrive:
(…) la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà.
Gorgia concepisce la parola come una struttura recepita dal nostro sistema sensibile e formata da una parte materiale e corporale (quando parla di corpo piccolissimo e invisibilissimo) e da una parte immateriale, cioè il suo significato.
La ricezione di una parola può essere pervertita in quanto soggetta a certe modificazioni che sono ottenute attraverso l’arte della parola (la poesia e la retorica), costruendo una nuova realtà referenziale. Queste nuove realtà, plasmate dall’arte poetica e dalla retorica, sono delle manipolazioni che non hanno nulla a che vedere con la realtà del significato veicolato dalla parola, e che quindi non corrispondono al reale. La parola poetica e quella retorica, interventi dell’arte sul reale che si percepisce, rappresentano un inganno. Per di più:
(…) gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell’anima, la potenza dell’incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell’animo e in inganni della mente. E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un finto discorso!
Se Elena di Sparta cedette al principe troiano, non fu colpa sua. Il bel parlare e l’ornato verbale del discorso (finto) ben strutturato induce in inganno un uditore dall’animo ben disposto. Secondo Gorgia la parola poetica non si differenzierebbe troppo da un farmaco: gli effetti che quest’ultimo sortisce sul corpo, dal sollievo al dolore, sarebbero gli stessi di un discorso d’arte.
La sensibilità estetica del filosofo di Lentini è presente in uno dei più importanti autori russi dell’ottocento: Dostoevskij.
Nelle tormentate pagine di Delitto e Castigo, apparso a puntate su una rivista nel 1866, l’incanto della parola diventa il mezzo del misterioso personaggio di Svidrigàjlov.
Come noto, le vicende di Delitto e Castigo si svolgono in una Pietroburgo infernale, cinica testimone dei drammi umani, polverosa e meravigliosa al contempo, severa matrigna dei destini dei suoi abitanti.
Il duplice omicidio perpetrato dal protagonista Raskòlnikov ai danni di una vecchia usuraia e, accidentalmente, di sua sorella rappresenta l’episodio chiave del romanzo attorno al quale si snoda l’ordito. La penetrazione psicologica, le accurate descrizioni, quasi maniacali nell’accentuazione dei minimi particolari, lo sguardo penetrante di un io narrante che assume una posizione titanica sui suoi personaggi e sugli eventi, sono alcuni tratti salienti che hanno concorso alla fortuna del romanzo.
I personaggi, fortemente caratterizzati, assommano diverse tendenze contrastive che pongono in luce la distruzione dell’io sotto il peso di teorie morali difficilmente applicabili nella vita di tutti i giorni. Se il superonomismo di Raskòlnikov, perfetto nella sua logica teorica, si autodistrugge nella pratica portando il protagonista ad autodenunciarsi e a scontare la sua pena in un gulag siberiano, la morale del “tutto è permesso” di Svidrigàjlov si cala in una depravazione cinica dedita alla concupiscenza che spingerà il personaggio al suicidio.
Nel celebre dialogo fra i due, nelle pagine finali del romanzo, Svidrigàjlov, già sposato, confessa a Raskòlnikov la sua passione per la sorella del protagonista, Avdotja Romànovna. L’atto di seduzione della giovane passa attraverso la finzione (“recitai la mia parte abbastanza bene”) di cui l’adulazione è il mezzo principale:
Nulla al mondo è più difficile della franchezza e nulla è più facile dell’adulazione. Se nella franchezza la centesima parte di una nota è stonata, ne deriva subito una dissonanza, e dopo di essa… uno scandalo. L’adulazione invece, anche se tutte le note sono stonate, è sempre gradevole e la si ascolta con piacere: sarà un piacere volgare, ma nondimeno è un piacere. (…) E, per quanto grossolana sia la lusinga, almeno una metà di essa somiglia alla più pura verità.
L’adulazione ben costruita aiuta a perpetrare l’inganno. La verità, in questo caso indicibile perché consiste in un adulterio, moralmente condannato dalla comunità, è celata dietro i dolci fronzoli della parola ingannevole. Il potente valore mellifluo della parola, come dice lo stesso Svidrigàjlov, potrebbe sedurre anche una vestale, vergine guardiana del fuoco di Vesta, e corrompe anche persone avvedute, appartenenti a tutte le classi sociali.
L’estetica della parola nel discorso di Svidrigàjlov è asservita alla pervertita radice della sua anima: la confessione che egli fa della passione per Avdotja non è guidata da un sentimento sincero, ma dal desiderio di profanazione e possesso. La parola adulatrice diventa mezzo della miseria morale di un personaggio che ha fatto della sua vita un teatro grottesco, precipitato dal piedistallo del titanismo e del superomismo, destinato al dissolvimento nel nulla.
Giuseppe Sorace
Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.