Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Cosa rende la pittura di Chagall inconfondibile? L’unico modo per scoprirlo è far parlare i suoi coloratissimi dipinti, via d’accesso a un mondo sofferto e sognante.

Lo scorso 7 luglio si sono spente le 135 candeline dalla nascita di uno dei pittori più longevi della storia dell’arte: Marc Chagall.
Nato a Lëzna nel 1887 da una famiglia di religione ebraica e condizione modesta, fin da subito mostra una vocazione insopprimibile verso la pittura, come egli stesso spiega nell’autobiografia Ma Vie, in cui racconta delle insistenti preghiere alla madre per saltare la scuola e recarsi alla bottega del maestro Yehuda Pen, il solo pittore di Vitebsk. Vedono così la luce i primi “quadretti” che anticipano la lunghissima e prolifica carriera artistica.
Quindi, lasciamo parlare i suoi inconfondibili dipinti, via d’accesso a un mondo sofferto e sognante.

FRAGOLE. BELLA E IDA AL TAVOLO, 1916

All’età di 22 anni “il ragazzo con lo sguardo di una volpe” incontra “la ragazza dalla pelle d’avorio e dai grandi occhi neri” e tra i due scoppia un sentimento che li accompagnerà per tutta la vita. Dal primo momento Bella Rosenfeld diventa musa ispiratrice delle opere dell’artista bielorusso, che sposerà nel 1915. Quel legame puro e totalizzante li solleva da terra, li porta a fluttuare in aria, tanto che Chagall si ritrae spesso in volo con lei – basti pensare a La passeggiata o Sulla città. Il loro amore però affonda le radici nella realtà semplice e autentica della Russia contadina. Lo testimonia Fragole. Bella e Ida al tavolo, che celebra la nascita della figlia e mostra uno stile pittorico decisamente diverso dal solito e più realistico.

LA DANZA, 1928

Ci sono alcuni oggetti che ricorrono nella pittura di Chagall, in particolare il ventaglio, il violino e la pendola. Il primo costituisce un ponte tra la Francia, paese di adozione, e la Russia. Molto in voga negli eleganti ambienti parigini, viene rappresentato con pizzi sofisticati per richiamare la tradizione dei merletti di Vologda. La fama della loro pregevolezza portò all’apertura di numerose fabbriche a San Pietroburgo, dove, non a caso, C. frequentò l’Accademia Russa di Belle Arti. Il secondo omaggia sia gli artisti di strada che popolavano le rues parigine sia la cultura chassidica, nella quale il violinista riveste un ruolo importante in occasione di feste e cerimonie. Il terzo, secondo la religione ebraica, è lo strumento che permette di scandire lo scorrere del tempo, partendo dal microcosmo della propria casa e arrivando poi a misurare il ritmo dell’universo.

 

BUE SCUOIATO, 1947

La drammaticità degli avvenimenti che dilaniano l’Europa negli anni del nazismo spinge Chagall a dare sfogo alle terribili immagini che ossessionano la sua mente. La tematica dell’orrore della guerra trova compiutezza nel Bue scuoiato, in cui il pittore sostituisce al Cristo crocefisso un enorme bue insanguinato e sospeso, a cui fa da sfondo lo scenario notturno di Vitebsk. L’animale rappresenta un ricordo d’infanzia – il nonno era macellaio e lo zio mercante di bestiame – e una memoria della gioventù parigina, trascorsa a La Ruche, vicino al mattatoio.

 

 

 

DOMENICA, 1954

Nel 1910 Chagall si trasferisce a Parigi per entrare in contatto con le personalità più influenti dell’epoca, Picasso e Matisse, e lasciarsi influenzare dalle correnti artistiche d’avanguardia, il Fauvismo e il Cubismo, da cui rispettivamente erediterà l’uso di un colore anti-naturalistico e la tendenza a sovrapporre piani e figure. La città, che consacrerà la sua notorietà, si trasforma in materia onirica, viene dipinta a tinte vivide e brillanti per esaltarne la magia e l’atmosfera fiabesca.

Nessuna Accademia avrebbe potuto darmi tutto quello che ho scoperto divorando le esposizioni di Parigi, le sue vetrine, i suoi musei […]. Come una pianta ha bisogno di acqua, così la mia arte aveva bisogno di Parigi”. (M. Chagall, Ma Vie)

 

L’OROLOGIO, 1956

Le tele di Chagall, traendo ispirazione dalla tradizione folkloristica russa e attingendo all’iconografia ebraica, si popolano di una gran quantità di animali che, spesso, sovrastano i tetti dei villaggi sovietici – lo stesso C. vi saliva per contemplare la sua città dall’alto in solitudine. Tra gli animali più ricorrenti troviamo il gallo, simbolo di potenza e rinascita, ma anche vittima sacrificale alla vigilia dello Yom Kippur, e la capra, allegoria della condizione protetta e intima del focolare domestico. Ne L’orologio il colore supera i limiti della razionalità e diventa veicolo di intense emozioni, che tingono di una sfumatura profondamente malinconica e nostalgica l’intera composizione.

 

Di Ilaria Zammarrelli

Roland Garros: Rafa Nadal, la leggenda dell’uomo straordinario

Roland Garros: Rafa Nadal, la leggenda dell’uomo straordinario

Roland Garros: Rafa Nadal, la leggenda dell’uomo straordinario

Nella Parigi della Rivoluzione Rafa XIV restaura le antiche gerarchie; Djokovic battuto nei quarti in quattro set, Zverev si infortuna seriamente in semifinale. Tra le donne Iga Swiatek stravince e allunga la serie positiva a 35 incontri. Martina Trevisan splendida semifinalista.

Alla fine è andata così, come altre tredici volte in precedenza. Ha vinto Rafael Nadal; è difficile trovare nuove parole per definire le sue imprese. Quante volte ha ribaltato partite che sembravano finite, quante volte ha sostenuto la squadra di Coppa Davis per sospingerla al traguardo; quante volte ha stretto i denti per far suo l’ultimo punto di un torneo, non ascoltando i segnali delle sue ginocchia scricchiolanti. E con quale professionalità si è presentato in questi anni su ogni campo da tennis, giocasse un’esibizione o la finale di Wimbledon, dimostrando profondo rispetto per pubblico e avversari.

Forse non piace a tutti, ma a chi riesce? Forse qualcuno storce il naso davanti al suo gioco, ma chi lo definisce pallettaro è completamente fuori strada: straordinario esempio di tennis di pressione, è anche in possesso di un tocco assai delicato, e le volte in cui lo ha dimostrato ormai non si contano. Furore agonistico sì, ma anche la capacità di riconoscere con squisita sportività le qualità e, quando accade, la superiorità del suo avversario. Le rivalità con Djokovic e Federer sono già ora nella storia dello sport. Ha vinto anche su un tabellone pazzo, che lo ha costretto nei quarti ad incontrare Novak ed in semifinale Zverev. È stato fantastico, una volta di più.

Alexander Zverev © TENNIS PHOTO NETWORK

Tra le donne Iga Swiatek si impone dominando alla maniera di Steffi Graf un torneo che ha fotografato il momento del circuito femminile. Ha perso 29 game e un solo set, al tie-break, per poi vincere 60 62 la partita. Con la finale è arrivata a 35 vittorie consecutive. Non c’è al momento alcuna avversaria che possa tenerle testa; come dicevo nell’articolo sul torneo di Madrid alcune settimane orsono, il livellamento generale non permette ad alcuna giocatrice di staccarsi dal gruppo per continuità. Chi vince o si distingue per qualche settimana sembra dover pagare pegno per lo sforzo fisico e mentale, e subisce un calo dei risultati che la ricolloca nel plotone delle inseguitrici.

Quarti, semifinali e finale hanno avuto perlopiù punteggi schiaccianti, a detrimento quindi anche dell’equilibrio delle forze in campo. Insomma, gioco monotono e poche emozioni: si sapeva già chi avrebbe vinto in troppe partite. La direttrice del torneo Amelie Mauresmo, ex numero uno del mondo con due titoli Slam in bacheca, ha dichiarato alla stampa le proprie difficoltà nel selezionare incontri femminili interessanti da programmare per le sessioni serali sul Campo Centrale.

È un momento così, che però è iniziato qualche anno fa; trovare un antagonista alla polacca permetterebbe almeno di proporre una grande rivalità. Vediamo come andranno le cose sull’erba, superficie sulla quale lga non ha mai vinto nulla.

TORNEO MASCHILE

Negli ottavi ci sono tutti i migliori otto, ma due di loro cadono: il campione di Montecarlo Stefanos Tsitsipas viene prosciugato (come egli stesso dirà) dal giovanissimo (19) danese Holger Rune, mentre il numero due Daniil Medvedev vince solo sette game con il croato Marin Cilic. Nadal vince un match memorabile con Auger-Aliassime, ottenendo il break decisivo nell’ottavo gioco del quinto set.

Nei quarti Ruud ferma la bella corsa di Rune e Cilic seppellisce sotto 33 ace la testa di serie numero sette Rublev in un match che si chiude al tie-break del quinto set. Nei due quarti di finale super Zverev boccia (per ora) Alcaraz all’esame del tre su cinque: vince per 64 i primi due set servendo come un ossesso, perde il terzo con lo stesso punteggio ma nel quarto sta servendo per vincere sul 5 a 4. E cede il servizio. In un tie-break al cardiopalmo il tedesco annulla un setpoint e chiude per 9 a 7.

Nella sfida più importante Nadal batte a sorpresa Djokovic. Non è stato il migliore tra i loro incontri; il serbo non è sembrato lucido come riesce ad essere di solito, e Nadal lo ha pressato dalla prima all’ultima palla. Il match è durato oltre quattro ore e lo spagnolo è stato criticato (insieme con il giudice di sedia) per il troppo tempo intercorso tra un servizio e l’altro. Djokovic al termine ha signorilmente glissato sulla faccenda, complimentandosi con Rafa: ora lo head to head è 30 a 29 per Novak.

Novak Djokovic

In semifinale Ruud si sbarazza di Cilic, mentre Nadal e Zverev avviano una battaglia in altalena continua: il tedesco annulla tre setpoint nel decimo gioco, e nel tie-break se ne procura quattro consecutivi. Nadal li cancella, il terzo con un passante di dritto strettissimo in corsa, a mio giudizio il punto più bello dell’intera competizione. Lo spagnolo si procura altre tre palle per il set, e l’ultima è quella giusta. La qualità del gioco è incredibile, la terra rossa sembra importata dal pianeta Marte insieme con i due marziani che vi scivolano sopra.

Nel secondo salta la regola del servizio e i contendenti arrivano al tie-break con otto break su dodici giochi. Purtroppo, nell’ultimo scambio Zverev atterra malissimo sulla caviglia destra e cade urlando di dolore. Non può continuare e Nadal entra in finale risparmiando parecchie energie. Peccato per il tedesco ovviamente, ma anche per quella che sembrava essere la partita più bella del torneo.

In finale Ruud non riesce mai a fare male con il servizio, e Rafa vince 63 63 60; Parigi esulta, ha sostenuto il maiorchino dalla prima all’ultima palla. È il loro eroe, e se lo merita.

TORNEO FEMMINILE

Negli ottavi la Swiatek, unica presente tra le prime dieci favorite, perde l’unico set del suo torneo, contro la cinese Zheng, che nel corso del match chiederà anche l’assistenza del medico per la schiena. Nei quarti la statunitense Coco Gauff vince il derby coloured con la connazionale Sloane Stephens, campionessa a New York nel 2017; Iga supera Jessica Pegula, e cade così anche l’undicesima del seeding. Le semifinali sono rapide: la numero uno supera Daria Kasatkina, che aveva eliminato Camila Giorgi, e Gauff batte Martina Trevisan. Le due giocatrici sconfitte raccolgono insieme la miseria di sette game.

Iga Swiatek

In finale Gauff ne vince quattro, riuscendo a strappare comunque applausi per il suo gioco e per alcune brillanti soluzioni che lasciano trasparire un talento indiscutibile. Ma non sufficiente. Ha solo diciotto anni e a sedici ha raggiunto gli ottavi a Wimbledon; auguriamole di continuare a crescere come tecnica e continuità. Nel discorso della premiazione applausi per lei che si commuove e per la vincitrice che rivolge il pensiero finale al popolo ucraino: “stay strong”. Battimani e commozione generale.

GLI ITALIANI

Gli ottavi cominciano con il colpo di Martina Trevisan: la fiorentina supera la bielorussa Sasnovich 76 75, vincendo il game decisivo della prima frazione al quinto setpoint, dopo averne cancellato uno della sua avversaria. Il giorno dopo (lunedì) Camila Giorgi, fresca di impresa contro la Sabalenka, viene travolta dalla russa Daria Kasatkina per 62 62. Inizia male e, come non di rado le accade, non riesce (non vuole?) cercare variazioni tattiche per riaprire il match. Subito dopo la sconfitta sono tornate le critiche che la accompagnano da sempre sulla necessità di ingaggiare un coach più preparato del padre, che la segue da quando era junior. Di sicuro Camila ha i mezzi tecnici e fisici per primeggiare, ma di una campionessa non ha l’atteggiamento mentale, né la reale intenzione di migliorare: il suo gioco arrischiato, ogni volta alla ricerca del ritmo e della profondità, rimane uguale a sé stesso in ogni situazione di punteggio. In conferenza stampa dopo la scoppola subita, lo ha confermato dicendo “non ho nulla da imparare dalla mia avversaria”. Mah.

Jannik Sinner vince il primo set contro Rublev, poi perde il secondo e si ritira per un problema ad un ginocchio; dopo Roma, un altro forfait per il Nostro.

Nei quarti la Trevisan compie il proprio capolavoro: aggredisce da subito la giovane canadese Leylah Fernandez e vince 62 la prima frazione al quarto set point. Sul 5 a 4 si procura un matchpoint, che la nordamericana annulla con un dritto coraggioso. Al tie-break la spunta proprio Fernandez, ma nel terzo l’italiana cancella il ricordo dell’occasione mancata, vince i primi quattro giochi è chiude 63. Giovedì in semifinale non ne ha più, e deve arrendersi alla diciottenne (e diciotto del ranking) Coco Gauff.

Tre settimane splendide per lei, con la vittoria a Rabat e le semifinali a Parigi: grinta, ritmo, coraggio e sorriso: un mix di questi ingredienti è riuscito a portare in alto questa tennista, che in passato ha dovuto risolvere importanti problemi personali che, tra le altre cose, ne hanno rallentato la maturazione tennistica. Da lunedì entrerà nelle prime trenta del mondo, e sarà la numero uno italiana. “Sprecare il proprio talento, ecco la cosa più brutta” diceva Ben Affleck in Will Hunting: un rimprovero che Martina non dovrà mai muoversi.

Martina Trevisan e Coco Gauff

Lunedì comincia la stagione sull’erba, con Matteo Berrettini campione uscente a Stoccarda. Wimbledon ha bannato atleti russi e bielorussi, e l’ATP ha tolto al torneo i punti classifica per i giocatori. Qualcuno si riserva di decidere se andare o boicottare il torneo che, senza punti, diventa solo una (ricchissima) esibizione. Vedremo come andrà a fine giugno, nel frattempo buon tennis a tutti!

di Danilo Gori

Modigliani: albori nella scultura

Modigliani: albori nella scultura

Modigliani: albori nella scultura

Amedeo Modigliani vive in una Parigi contraddittoria: il vorticoso intrico di viuzze cela tutti i limiti del mondo positivista.

Amedeo Modigliani dal 1906 vive in una Parigi lussureggiante e contraddittoria: il vorticoso intrico di viuzze a ridosso dei boriosi boulevards celano un mondo in cui tutti i limiti del mondo positivista, ai suoi estremi bagliori, vengono riversati nell’assenzio e nelle visiones artium. Proprio la Parigi della Belle époque, rifugio di poeti e pittori, è lo sfondo della sua vicenda esistenziale e artistica. 

Seppur risulta complicato ripercorrere la vicenda di Modigliani prescindendo dal ritratto che intende costruire una figura maledetta e tormentata, afflitta dalla tubercolosi e da tragici suicidi, la biografia del pittore e scultore livornese non differisce troppo dal destino di molti altri artisti che frequentavano la Parigi della Belle époque. 

Trasferitosi dall’Italia all’età di 22 anni, dopo aver studiato pittura e disegno prima a Firenze, poi a Venezia, il suo senso classico della forma, nutritosi dei magisteri delle auctoritas del Rinascimento italiano, non lascia spazio all’indagine del contesto sociale e urbano, escludendo qualunque tipo di denuncia sociale. Le opere di Modigliani, sia scultoree che pittoriche, invitano l’attenzione alle forme del viso, degli occhi, e ai volumi che contornano la sinuosità del corpo femminile. 

A Parigi Modigliani si era presentato, in un primo momento, più come scultore che come pittore. Presso le gallerie del Trocadero Modigliani poté ammirare e apprendere sul campo le tecniche dell’arte africana: le geometrie ripetitive, quasi ipnotiche dei manufatti e delle maschere di un continente vittima delle velleità dell’Europa imperiale affascinano il giovane artista italiano. La scultura africana, e soprattutto quella egizia, cela dietro i volumi una sacralità totemica foriera di verità sconosciute alla scultura europea a cavallo fra il XIX e il XX secolo. 

Egli iniziò a scolpire alacremente dopo che Paul Guillaume, un giovane e ambizioso mercante d’arte, si interessò al suo lavoro e lo presentò, nel 1911, a Constantin Brâncuși, scultore rumeno allievo di Rodin. Brâncuși gli insegna i rudimenti della scultura e, in aperta opposizione alla tecnica di Rodin, la quale prevede un’unione di più volumi, persegue l’obiettivo di confrontarsi direttamente alla materia, alla pietra, abbandonando la titanicità dei muscoli di Rodin. Il periodo passato presso l’atelier di Brâncuși non rappresenta una semplice parentesi artistica, ma una vera esperienza contrassegnata dallo sperimentalismo formale.

Già a partire da questo periodo di apprendistato si possono notare alcuni caratteri tipici della tecnica di Modigliani, quali l’allungamento del collo e la stilizzazione delle forme, senza dimenticare un’attenzione importante ai lineamenti del viso

Nel disegno a matita blu su carta Modigliani ritrae una cariatide, una figura femminile che sostiene il frontone di un tempio greco: la stilizzazione che apporta Modigliani a questa forma classica sottende l’intento di far scaturire una bellezza immanente, forse universale, attraverso la purezza dei volumi e delle linee. Modigliani sembra concepire, da quello che possiamo dedurre dai suoi disegni preparatori, un insieme di statue e cariatidi al fine di creare un tempio immaginario della bellezza universale, il quale troverebbe le sue radici nel classicismo antico e nell’ideale italiano di “bella figura” rinascimentale. 

Dopo qualche anno di ricerca e la produzione di circa 25 sculture in pietra, Modigliani abbandona misteriosamente la scultura: forse a causa di problemi legati alla sua salute, forse semplicemente perché essa non era più all’altezza della sua ricerca immanente. La tubercolosi, che si aggrava a causa del taglio della pietra, e altre ragioni non del tutto evidenti, lo obbligano a tornare alla pittura. Tuttavia sarebbe erroneo pensare che la scultura abbia rappresentato una semplice parentesi nell’ambito dell’esperienza artistica di Modigliani.

In questo primo ritratto di Beatrice Hastings Modigliani sembra recuperare la terza dimensione della scultura. Il ritratto infatti è proiettato in avanti, il collo come se fosse lo zoccolo del ritratto. Inoltre, intorno alla testa, ci sono delle piccolo linee: la tela sembra allora un blocco di pietra sul quale l’artista segna dove tagliare con lo scalpello. Modigliani abbandona la scultura, ma la scultura stessa riaffiora in filigrana nella sua tecnica pittorica in questo periodo cerniera e di passaggio. 

Tutti gli elementi del suo vocabolario singolare si dispiegano già in questo primo ritratto in pittura: l’allungamento eccessivo del collo, la stilizzazione delle forme, asimmetria degli occhi (spesso senza pupille), naso che si ispira alla scultura primitiva, lo sfondo oscuro. 

Dal 1915 comincia il periodo maturo della produzione artistica di Modigliani, spostandosi fra Parigi e la Provenza, e rientrando talvolta in Italia, a Livorno. Le sue condizioni di salute peggiorano progressivamente, fino alla morte, sopraggiunta  il 24 gennaio 1920 a causa di una meningite tubercolare.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Il Museo dell’Orangerie: dalle Ninfee di Monet alle donne di Modigliani

Il Museo dell’Orangerie: dalle Ninfee di Monet alle donne di Modigliani

Il Museo dell’Orangerie: dalle Ninfee di Monet alle donne di Modigliani

Abbiamo presente sicuramente tutti le famose Nymphéas di Claude Monet, ma vedere queste opere dal vivo è tutta un’altra storia…

Il Museo dell’Orangerie di Parigi oltre ad ospitare queste opere memorabili, è famoso anche per la collezione Jean Walter e Paul Guillame, una raccolta di capolavori di artisti del calibro di Pablo Picasso, Amedeo Modigliani, Henri Matisse e tanti altri. Spesso questi ultimi vengono in qualche modo “eclissati” dalla bellezza dei quadri di Monet (le Ninfee rappresentano infatti la pietra miliare di questo museo), ma non hanno sicuramente niente da invidiare ai fiori acquatici, poiché le opere della collezione Walter – Guillame sono quadri dal valore inestimabile che attraggono turisti e appassionati d’arte da tutto il mondo.

Dove e quando?

Il Museo dell’Orangerie si trova nel centro di Parigi nei giardini delle Tuileries. Ciò che contraddistingue questo museo è proprio la sua ubicazione, poiché si trova in un’antica serra di aranci chiamata appunto orangerie (termine da cui prende nome il museo).  Questo museo è raggiungibile comodante tramite i mezzi (nel caso in cui vi troviate un po’ più fuori dal centro o semplicemente se siete pigri) o a piedi (se avete l’appartamento o l’hotel in zona Louvre o Place de la Concorde) ed è aperto dal mercoledì al lunedì dalle ore 9:00 alle ore 18:00.

Nella botte piccola c’è il vino buono

Pur essendo abbastanza piccolo rispetto agli altri musei di Parigi, il Museo dell’Orangerie detiene un gran numero di opere molto importanti nella storia dell’arte: tra le più famose ricordiamo appunto il ciclo Nymphéas di Claude Monet, Grande bagnante di Pablo Picasso, Femme nue dans un paysage di Pierre-Auguste Renoir e Femme au ruban de velours di Amedeo Modigliani. Per quanto riguarda il ciclo Les Nymphéas, una cosa molto interessante da sapere è il fatto che questi dipinti che occuparono la vita di Monet per quasi 30 anni furono donati dal pittore stesso alla Francia dopo l’armistizio del 1918 come simbolo di pace, e fu sempre Monet a volere che quei quadri venissero esposti proprio nelle sale dell’Orangerie dopo la sua morte. Parlando invece delle opere appartenenti alla collezione Walter – Guillame, noi spettatori dobbiamo ringraziare soprattutto Domenica Guillame, la quale dopo che il marito Paul (un ricco mercante d’arte francese) morì si risposò con l’architetto Jean Walter ed insieme a quest’ultimo arricchì e modificò la collezione del defunto marito, per poi cederla al museo.

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Cecilia Gavazzoni

Ciao, sono Cecilia e studio Lettere Moderne. Adoro scrivere e spesso fingo di essere anche esperta di moda (un’altra mia grande passione). Ah, a volte do anche consigli di Lifestyle e pareri non richiesti. Ma niente di serio, non vi preoccupate.

Il Museo d’Orsay: l’impressionismo a Parigi

Il Museo d’Orsay: l’impressionismo a Parigi

Il Museo d’Orsay: l’impressionismo a Parigi

È uno fra i più importanti musei d’Europa che però, sovrastato dal Louvre, viene spesso sottovalutato: stiamo parlando del Museo d’Orsay.

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Questo museo è molto conosciuto non solo perché ospita molti dei più famosi quadri impressionisti, ma anche perché in questo luogo di arte e cultura si trova una quantità esorbitante di opere risalenti all’arco temporale che va dal 1848 fino al 1914.

Cosa si può vedere?

All’interno del museo possiamo trovare moltissime opere di architettura, scultura e arte decorativa conservatesi in maniera eccezionale. In primo piano però vanno sicuramente le opere degli impressionisti e dei post-impressionisti, ma oltre a queste vi sono esposte anche opere di artisti del calibro di Claude Monet, Edouard Manet, Paul Gauguin, Vincent Van Gogh, Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir e tanti altri. Il museo oltre ad ospitare diverse mostre fotografiche e cinematografiche, vanta due gallerie esclusivamente dedicate a Gustave Courbet e a Henri de Toulouse-Lautrec.

Un’ex stazione ferroviaria

Una delle caratteristiche più affascinanti di questo museo è il fatto che si trovi in un’ex stazione ferroviaria creata durante l’Esposizione Universale del 1900 che fu dismessa 39 anni dopo. Durante il periodo della seconda guerra mondiale l’ex stazione fu utilizzata come zona di transito per i prigionieri dei nazisti e, solo dopo tanti tentativi di demolizione, finalmente nel 1986 divenne ciò che oggi chiamiamo Museo d’Orsay. Quando si entra in questo museo ci si sente completamente travolti e circondati dall’arte nella sua più pura espressione: sculture marmoree, dipinti ad olio, ritratti e paesaggi, immagini e figure di altri tempi mischiate al ferro e all’acciaio della modernità.

Prezzi e orari

Il biglietto per il Museo d’Orsay costa:

  • € 14 l’intero.
  • € 11 il ridotto per tutti a partire dalle ore 16:30 (tranne il giovedì).
  • € 11 il ridotto per tutti il giovedì a partire dalle ore 18.
  • € 11 il ridotto per gli accompagnatori dei minori di anni 18 residenti nell’Unione Europea (massimo due accompagnatori per minore), per i ragazzi.
  • Gratis per i minori di anni 18, per i portatori di handicap, per i ragazzi d’età compresa tra i 18 e i 25 anni cittadini o residenti da lunga data in un paese dell’Unione europea.
  • Gratis ogni prima domenica del mese.

Il museo è aperto tutti i giorni dal martedì alla domenica dalle ore 9.30 alle 18.00 salvo il giovedì in cui rimane aperto fino alle 21.45, mentre resta chiuso il lunedì, il 1° maggio e il 25 dicembre.

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di Cecilia Gavazzoni.