Un giorno per ricordare

Ne “L’immagine dell’inferno”, 1946, Hannah Arendt scrive: «Non c’è storia più difficile da raccontare in tutta la storia dell’umanità». È vero, ci sono storie che per la loro enormità impoveriscono qualsiasi vocabolario tenti di descriverle.

Ricordare nel silenzio: il silenzio è l’unico sentiero che la narrazione può percorrere ed è solamente nel silenzio che si può pensare a una storia tanto enorme come l’annientamento di un popolo.

La Giornata della Memoria

A partire dal 2005 è stata istituita la giornata del 27 gennaio, ricorrenza dell’entrata da parte dell’esercito alleato nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau per commemorare le vittime dell’Olocausto. Commemorare, ma soprattutto ricordare: è questo l’obbiettivo che ha ogni anno la Giornata della Memoria. Tra il 1939 e il 1945 la Germania nazista, assecondata da molteplici complicità, ha sterminato circa sei milioni di ebrei europei nel silenzio pressoché totale del mondo. In questa pagina nera della storia se la guerra è stata il filo conduttore della “tempesta” (Shoah), la grandezza del crimine è stata la più grande alleata nella sua negazione.  Ecco allora il bisogno di non dimenticare, perché se la memoria istituzionalizzata lascia nell’ombra il problema fondamentale delle responsabilità rischia poi di diventare amnesia ritualizzata, non sulla sciagura stessa, ma su ciò che l’ha resa possibile.

Le tappe dell’esclusione

La storia del genocidio ebraico trova due capisaldi: la guerra e l’antigiudaismo. Così come le sorti di un popolo si intrecciano a quelle di due conflitti mondiali, allo stesso tempo la storia degli ebrei d’Europa è inseparabile dal percorso dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo. La prima tappa del processo di esclusione ebraica risale al XII secolo d.C. e si manifesta in una forma di antigiudaismo cristiano. Se fino al XI secolo la situazione degli ebrei nell’Europa cristiana è caratterizzata da una coesistenza ancora possibile, le prime violenze gravi esplodono con la Prima Crociata nel 1095-1096. Le prediche che la precedono catalizzano il discorso antiebraico in un giudaismo non solo come religione anacronistica e ridicola, ma si orientano verso l’accusa diabolica. L’era della tolleranza è a quel punto finita. Le accuse di profanazione dell’ostia in Germania portano ai massacri del 1298 e durante il IV Concilio Laterano si impone il segno distintivo agli ebrei, le professioni vengono progressivamente proibite e le violenze e umiliazioni portano, a partire dal XIII secolo, l’emigrazione coatta degli ebrei verso l’Europa dell’est.

L’antisemitismo laico

Il XIX secolo apre l’Europa occidentale alla modernità. L’industrializzazione e l’urbanizzazione rapida destrutturano in breve tempo le società tradizionali. È in questo contesto che in Germania e in Francia il nazionalismo cieco della fine del secolo vede nell’ebreo uno sradicato che mina la stabilità sociale. L’antisemitismo laico unisce ovunque la condanna al liberalismo, al capitalismo e al socialismo: alla fine del secolo l’impregnazione razzista è una forma della crisi europea della modernità. L’ebraismo europeo si trova allora all’interno una contraddizione fondamentale di cui non ha coscienza. L’emancipazione lo integra alla cultura nazionale, mentre la nazione che cerca la propria identità si forgia tanto meglio quanto più lo esclude. Questo antisemitismo laico, frutto delle angosce della modernità, si sovrappone al vecchio antigiudaismo cristiano e le due forme di rigetto coesistono in un Europa, luogo in cui progrediscono la secolarizzazione e le prime forme di rigetto “scientifico”. Il darwinismo razziale e l’ideologia eugenista di Galton forniscono la chiave per l’esclusione radicale dell’ebraismo, mentre il nazismo fornirà l’arsenale legislativo per la loro attuazione.

La decisione del genocidio

Fino al mese di dicembre del 1941 l’epilogo degli ebrei d’Europa non è ancora quello che tragicamente conosciamo oggi.  Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la “questione ebraica” acquisisce un’ampiezza eccezionale. Il primo progetto germanofono della cosiddetta soluzione finale prevede l’emigrazione forzata della popolazione ebraica che si trovava nella Wehrmacht verso le aree del Governatorato Generale. Il progetto Nizko si interrompe di fatto nel marzo 1940. La Germania, dapprima con l’annessione dell’Austria, poi con l’invasione di Boemia, Moravia e Polonia nel 1939, con l’operazione Barbarossa che vede la lenta risalita delle truppe nazionalsocialiste in Unione Sovietica nel 1941, controlla di fatto i più importanti centri vitali dell’ebraismo europeo. Per il numero di ebrei ora nelle mani tedesche, la deportazione fuori dalla Germania diventa impossibile. Il secondo progetto prevede la creazione di riserve ebraiche, i cosiddetti ghetti, dove sarà la “selezione naturale” a compiere l’inevitabile. Il 31 luglio dello stesso anno viene redatto da Adolf Eichman un documento che conferma la volontà di Hitler di ottenere una soluzione totale per la questione ebraica. È a Wannsee il 20 gennaio 1942 che vengono discusse le modalità tecniche dello sterminio e dove il gas Zyklon B usato per uccidere gli ebrei diventerà il contrassegno ontologico dei crimini contro l’umanità.

Il silenzio del mondo

Il 5 dicembre 1938 il console americano a Berlino scrive all’Ambasciata statunitense: “I nazisti hanno il progetto di sterminare gli ebrei”. Nel 1942 Gerhardt Riegner invia un telegramma da Londra all’Ambasciata americana a Ginevra in cui dichiara di essere stato informato in merito alla “soluzione finale” e documenta la retata di Vel d’Hiv a Parigi. In Palestina trapelano le notizie dei massacri e 62 ebrei palestinesi testimoniano riguardo ad Auschwitz. Il mondo sa, ma decide di dare priorità alla guerra e di chiudere ancora una volta le frontiere. Il mondo sa, ma resta in silenzio. Le informazioni sono scambiate per dicerie, il crimine è troppo grande e anche quando le truppe varcano l’ingresso dei campi quel 27 gennaio del 1945, lo scarto tra la percezione del reale e la sua comprensione è troppo grande. Il pericolo che si corre oggi forse è proprio questo: lasciare che questo scarto si dilati, si amplifichi e diventi incolmabile. La Shoah è una crepa insopportabile nel cuore dell’Europa, genera colpevolezza e volontà di voltare pagina. Ma i crimini giudicati a Norimberga non chiudono un’epoca, bensì la aprono. Per la natura stessa dell’evento di cui rende conto, il suo insegnamento deve rimanere una parola aperta che scuote i discorsi convenzionali e chiama in permanenza all’insubordinazione dello spirito.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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