Un giorno per ricordare

Un giorno per ricordare

Un giorno per ricordare

Ne “L’immagine dell’inferno”, 1946, Hannah Arendt scrive: «Non c’è storia più difficile da raccontare in tutta la storia dell’umanità». È vero, ci sono storie che per la loro enormità impoveriscono qualsiasi vocabolario tenti di descriverle.

Ricordare nel silenzio: il silenzio è l’unico sentiero che la narrazione può percorrere ed è solamente nel silenzio che si può pensare a una storia tanto enorme come l’annientamento di un popolo.

La Giornata della Memoria

A partire dal 2005 è stata istituita la giornata del 27 gennaio, ricorrenza dell’entrata da parte dell’esercito alleato nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau per commemorare le vittime dell’Olocausto. Commemorare, ma soprattutto ricordare: è questo l’obbiettivo che ha ogni anno la Giornata della Memoria. Tra il 1939 e il 1945 la Germania nazista, assecondata da molteplici complicità, ha sterminato circa sei milioni di ebrei europei nel silenzio pressoché totale del mondo. In questa pagina nera della storia se la guerra è stata il filo conduttore della “tempesta” (Shoah), la grandezza del crimine è stata la più grande alleata nella sua negazione.  Ecco allora il bisogno di non dimenticare, perché se la memoria istituzionalizzata lascia nell’ombra il problema fondamentale delle responsabilità rischia poi di diventare amnesia ritualizzata, non sulla sciagura stessa, ma su ciò che l’ha resa possibile.

Le tappe dell’esclusione

La storia del genocidio ebraico trova due capisaldi: la guerra e l’antigiudaismo. Così come le sorti di un popolo si intrecciano a quelle di due conflitti mondiali, allo stesso tempo la storia degli ebrei d’Europa è inseparabile dal percorso dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo. La prima tappa del processo di esclusione ebraica risale al XII secolo d.C. e si manifesta in una forma di antigiudaismo cristiano. Se fino al XI secolo la situazione degli ebrei nell’Europa cristiana è caratterizzata da una coesistenza ancora possibile, le prime violenze gravi esplodono con la Prima Crociata nel 1095-1096. Le prediche che la precedono catalizzano il discorso antiebraico in un giudaismo non solo come religione anacronistica e ridicola, ma si orientano verso l’accusa diabolica. L’era della tolleranza è a quel punto finita. Le accuse di profanazione dell’ostia in Germania portano ai massacri del 1298 e durante il IV Concilio Laterano si impone il segno distintivo agli ebrei, le professioni vengono progressivamente proibite e le violenze e umiliazioni portano, a partire dal XIII secolo, l’emigrazione coatta degli ebrei verso l’Europa dell’est.

L’antisemitismo laico

Il XIX secolo apre l’Europa occidentale alla modernità. L’industrializzazione e l’urbanizzazione rapida destrutturano in breve tempo le società tradizionali. È in questo contesto che in Germania e in Francia il nazionalismo cieco della fine del secolo vede nell’ebreo uno sradicato che mina la stabilità sociale. L’antisemitismo laico unisce ovunque la condanna al liberalismo, al capitalismo e al socialismo: alla fine del secolo l’impregnazione razzista è una forma della crisi europea della modernità. L’ebraismo europeo si trova allora all’interno una contraddizione fondamentale di cui non ha coscienza. L’emancipazione lo integra alla cultura nazionale, mentre la nazione che cerca la propria identità si forgia tanto meglio quanto più lo esclude. Questo antisemitismo laico, frutto delle angosce della modernità, si sovrappone al vecchio antigiudaismo cristiano e le due forme di rigetto coesistono in un Europa, luogo in cui progrediscono la secolarizzazione e le prime forme di rigetto “scientifico”. Il darwinismo razziale e l’ideologia eugenista di Galton forniscono la chiave per l’esclusione radicale dell’ebraismo, mentre il nazismo fornirà l’arsenale legislativo per la loro attuazione.

La decisione del genocidio

Fino al mese di dicembre del 1941 l’epilogo degli ebrei d’Europa non è ancora quello che tragicamente conosciamo oggi.  Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la “questione ebraica” acquisisce un’ampiezza eccezionale. Il primo progetto germanofono della cosiddetta soluzione finale prevede l’emigrazione forzata della popolazione ebraica che si trovava nella Wehrmacht verso le aree del Governatorato Generale. Il progetto Nizko si interrompe di fatto nel marzo 1940. La Germania, dapprima con l’annessione dell’Austria, poi con l’invasione di Boemia, Moravia e Polonia nel 1939, con l’operazione Barbarossa che vede la lenta risalita delle truppe nazionalsocialiste in Unione Sovietica nel 1941, controlla di fatto i più importanti centri vitali dell’ebraismo europeo. Per il numero di ebrei ora nelle mani tedesche, la deportazione fuori dalla Germania diventa impossibile. Il secondo progetto prevede la creazione di riserve ebraiche, i cosiddetti ghetti, dove sarà la “selezione naturale” a compiere l’inevitabile. Il 31 luglio dello stesso anno viene redatto da Adolf Eichman un documento che conferma la volontà di Hitler di ottenere una soluzione totale per la questione ebraica. È a Wannsee il 20 gennaio 1942 che vengono discusse le modalità tecniche dello sterminio e dove il gas Zyklon B usato per uccidere gli ebrei diventerà il contrassegno ontologico dei crimini contro l’umanità.

Il silenzio del mondo

Il 5 dicembre 1938 il console americano a Berlino scrive all’Ambasciata statunitense: “I nazisti hanno il progetto di sterminare gli ebrei”. Nel 1942 Gerhardt Riegner invia un telegramma da Londra all’Ambasciata americana a Ginevra in cui dichiara di essere stato informato in merito alla “soluzione finale” e documenta la retata di Vel d’Hiv a Parigi. In Palestina trapelano le notizie dei massacri e 62 ebrei palestinesi testimoniano riguardo ad Auschwitz. Il mondo sa, ma decide di dare priorità alla guerra e di chiudere ancora una volta le frontiere. Il mondo sa, ma resta in silenzio. Le informazioni sono scambiate per dicerie, il crimine è troppo grande e anche quando le truppe varcano l’ingresso dei campi quel 27 gennaio del 1945, lo scarto tra la percezione del reale e la sua comprensione è troppo grande. Il pericolo che si corre oggi forse è proprio questo: lasciare che questo scarto si dilati, si amplifichi e diventi incolmabile. La Shoah è una crepa insopportabile nel cuore dell’Europa, genera colpevolezza e volontà di voltare pagina. Ma i crimini giudicati a Norimberga non chiudono un’epoca, bensì la aprono. Per la natura stessa dell’evento di cui rende conto, il suo insegnamento deve rimanere una parola aperta che scuote i discorsi convenzionali e chiama in permanenza all’insubordinazione dello spirito.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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Aspettando Stranger Things: un tuffo negli anni ’80 tra Guerra fredda e cultura pop

Aspettando Stranger Things: un tuffo negli anni ’80 tra Guerra fredda e cultura pop

Aspettando Stranger Things: un tuffo negli anni ’80 tra Guerra fredda e cultura pop

Nell’attesa che la quarta stagione di Stranger Things sposti in avanti la lancetta della narrazione, torniamo al 1985, anno del terzo capitolo della saga, tra le ultime battute della Guerra Fredda e i primi cenni di crisi dell’America tradizionale.

 

I nemici sono ancora i mostri del “Sottosopra”?

Sebbene Stranger Things sia difficile da definire come una “serie storica” – eccetto naturalmente per le menti più fantasy – un vero appassionato non può che non aver notato come nella terza stagione della saga il contesto storico e culturale assuma una rilevanza inaspettata per la trama, specialmente per il rimando centrale alla Guerra fredda. Se dal debutto della serie TV i principali antagonisti di Stranger Things sono sempre stati i mostri che vivono nell’Upside Down e gli intralci delle agenzie governative americane, nella terza stagione sembrerebbe toccare ai russi diventare i veri nemici dei protagonisti.

Scontro USA-URSS: tra narrazione e storia

D’altronde, come detto, la stagione si ambienta nel 1985, ma una prima scena iniziale ci riporta al 1984. Un anno non casuale per la fantascienza, perché è quello di ambientazione del massimo capolavoro della distopia inglese, il 1984 di George Orwell. Un anno di ambientazione ottenuto invertendo le ultime due cifre dell’anno di composizione, il 1948, per narrare di una distopia futura in cui il totalitarismo comunista della Russia di Stalin aveva trionfato. La coincidenza aveva colpito molto l’immaginario, tanto da ispirare, nel 1984 reale, il celebre spot del Macintosh della Apple che riprende vistosamente il romanzo orwelliano.

Tensioni e spionaggio russo

Come del resto nel 1984 le tensioni tra USA e URSS erano tornate alte. L’anno precedente, il 1983, l’avvio del progetto dello Scudo Spaziale di Reagan (il progetto “Star Wars” che una volta completato avrebbe annullato in gran parte i nucleari sovietici) aveva prodotto una forte tensione: le olimpiadi di Los Angeles del 1984 erano state disertate in blocco da URSS e paesi satelliti (così come nel 1980 gli USA avevano disertato le Olimpiadi di Mosca). Che verso la fine degli anni ’80 l’impero sovietico fosse al preludio del collasso non era ancora chiaro e nell’America dell’85 la preoccupazione per l’infiltrazione di spie russe era ancora alta. Una paranoia non del tutto infondata, che non raggiunse comunque la psicosi dell’età maccartista, ma è presente come un sottofondo diffuso nella società e nella serie.

Anni Ottanta: le scintille di una rivoluzione

L’attenzione della serie si sposta anche su elementi di storia sociale, che – per quanto molto interessanti per certi versi – vengono forse enfatizzati in modo un po’ didascalico, complice anche il tono nettamente umoristico in molti punti. Da un lato c’è il tema della diffusione dei grandi centri commerciali, i Mall, che vampirizzano le piccole cittadine svuotandole della loro anima e riducendo sul lastrico i negozietti locali, espressione di una vecchia America di provincia che va sparendo. E questo si sposa perfettamente con il tema horror della serie, seguendo una certa estetica del “supermercato horror” stile anni ’80.

Femminismo alla Nancy “Drew”

Dall’altro lato, in modo ancor più evidente, c’è il tema del maschilismo tossico ancora nel pieno del suo potere che ricorre in tutte le sottotrame come evidente fin dalle prime puntate. La povera Nancy (soprannominata “Drew”, come una celebre ragazzina detective dei libri per ragazzi) stagista bistrattata al giornale locale; lo sceriffo sempre più goffo e prevaricatore sia nei confronti del suo interesse sentimentale, sia, nel ruolo di padre, verso Eleven e la sua sessualità emergente con tanto di colonna sonora di “Material Girldi Madonna. L’abuso in ogni dove del fumo – di sigarette e di sigari – è così un ulteriore elemento storico che viene però esasperato a volte in modo un po’ macchiettistico; se da un lato offre siparietti divertenti, lo sceriffo era forse un personaggio più interessante nelle stagioni precedenti, quando le asperità del personaggio erano meno smussate in un tono comico.

Distopia smascherata

In ogni caso appare interessante come Stranger Things provi a smarcarsi almeno in parte dall’usurato meccanismo della nostalgia restituendoci degli anni ’80 meno idilliaci e idealizzati del solito: l’ultima America tradizionale, quella dell’edonismo reaganiano, apparentemente si presenta all’apice del suo successo, ma si intravedono in modo sempre più evidente le crepe che dissolveranno quel provincialismo felice. Il Mall, grande infiltrato disgregatore, porta la crisi in famiglie oleografiche sempre più preda di fratture insanabili. Anche il “ritorno al futuro” degli anni ’50 felici dell’immaginario conservatore sono impossibili da idealizzare. Stranger Things offre così una visione non banale, un’occasione di ripensare agli anni Ottanta in modo forse un po’ meno ingenuo di quanto ci si poteva aspettare e senza il timore di nascondere le crepe di una società in continua trasformazione. Il punto è: siete pronti a tuffarvi nel 1986?

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Cibus 2022: la resilienza dell’Agroalimentare Italiano

Cibus 2022: la resilienza dell’Agroalimentare Italiano

Cibus 2022: la resilienza dell’Agroalimentare Italiano

Cibus, la grande fiera internazionale dell’agroalimentare, sarà la prima fiera del food and beverage italiano a consentire la partecipazione dei buyer extra – UE e a rappresentare il punto di ripartenza dell’intera filiera agroalimentare italiana.

Perché Cibus?

Mentre i risultati del riavvio dell’export segnano un incremento pari al periodo pre-Covid19, la guerra in Ucraina e la delicata situazione geopolitica internazionale hanno portato nuove preoccupazioni sull’evoluzione degli scenari del commercio e dell’economia. Il settore alimentare si ritrova ancora una volta ad affrontare nuove sfide come l’aumento del costo del gas e delle materie prime che stanno mettendo a dura prova il food and beverage italiano.Organizzata da Fiere di Parma e Federalimentare, la 21° edizione della Fiera dell’Agroalimentare Italiano si svolgerà a Parma dal 3 al 6 maggio 2022. Cibus 2022 assume in questa particolare situazione un ruolo delicatissimo: restituire al cibo la centralità del dibattito sociale ed economico attraverso un modello di sviluppo coerente alle istanze del consumatore, dell’ambiente e dell’aziende e pianificare approvvigionamenti e assortimenti tentando di superare le difficoltà della supply chain.

I timori di una nuova crisi

Con i dati ISTAT alla mano è inconfutabile la stabilità che lega l’export dell’agroalimentare italiano alla domanda dei mercati di tutto il mondo: dal +14,3% degli USA, al +32,7% di Cina e Corea del Sud, fino al +50,5% di esportazioni in Cile. Ma tutto questo potrebbe non bastare a fronte dei nuovi assetti economico – strategici che il prolungamento del conflitto sta ridefinendo. Se le previsioni di gennaio hanno registrato il + 2% di valore con una crescita del 6,9% del discount, già ad oggi questi numeri sono ben diversi. La produzione alimentare che l’anno scorso ha segnato un positivo del 6%, quest’anno faticherà a raggiungere l’1%. Le ragioni di quest’inversione di tendenza sono da ricercare nella combinazione di una situazione già precaria provocata dalla spinta inflazionistica dell’emergenza sanitaria alla quale si aggiungono gli effetti collaterali del conflitto: lo shock energetico, il rincaro delle materie prime e la loro difficoltà di reperimento.

Verso nuovi assetti economici

Con un’incidenza pari al 70% del mercato, il comparto dei cereali è uno dei settori maggiormente danneggiati dal conflitto. Sebbene il commercio dell’agroalimentare verso Russia e Bielorussia sia solo dell’1,4%, la maggior parte delle importazioni di materie prime fondamentali come il grano, il mais e il girasole derivano proprio dai paesi baltici. A partire da qualche settimana il trasporto dei cereali è bloccato nel Mar Nero e ad aggravare questa situazione si inserisce la chiusura di due mercati importanti per l’Europa: quelli di Serbia e Ungheria. A differenza del primo stato, la decisione dell’Ungheria si trova al centro di una forte contraddizione: lo stato di Áder è a tutti gli effetti membro dell’Unione Europea e come tale si impegna a garantire il principio del libero scambio di merci, beni e persone all’interno della Comunità. La speranza è che l’intervento tempestivo delle forze politiche possa mediare queste circostanze che potrebbero provocare un reale rischio di approvvigionamento per il nostro Paese.

La risposta del governo e del Ministro degli Affari Esteri

Scartata la possibilità di autosufficienza alimentare per il nostro Paese e arreso alla dipendenza dai mercati esteri, il commercio dell’agroalimentare si muove verso la ricerca di nuovi mercati e nuove alleanze internazionali. A tal proposito la risposta del governo e del Ministro degli Esteri è chiara: potenziare il sostegno alle filiere più esposte alle tensioni con la Russia, sostenere l’export italiano grazie a progetti di tutela come il “Patto per l’Export”, mentre verrà istituito un nuovo organismo all’interno della Farnesina per cogliere informazioni su nuove forme di sostegno e per capire come riprogrammare nel lungo periodo le perdite dal mercato russo-ucraino modellato su altri mercati. L’esplorazione di risposte compensative si muove di pari passo con la promozione dell’internazionalizzazione delle aziende italiane che devono fare leva sulle potenzialità del mercato agroalimentare italiano, dalle produzioni biologiche al record per la nostra varietà produttiva unica in tutto il mondo.

Una fiera per dimostrare la forza della Filiera Agroalimentare Italiana

Cibus è l’iniziativa di Parma ad Expo 2022 che ha come obiettivo la promozione a livello internazionale del cibo italiano. Le fiere, così come le campagne di food and beverage, sono gli strumenti ideali per comunicare i vantaggi competitivi dei nostri prodotti e l’appuntamento di Cibus servirà a ribadire la centralità delle nostre imprese alimentari che, pur in condizioni sfavorevoli, continuano a produrre e a cercare nuove soluzioni.

Cibus ci ricorda così il valore del food and beverage in condizioni ordinarie e, ancor di più, in condizioni extra-ordinarie ed è per queste ragioni che Cibus 2022 sarà l’edizione in cui il cibo riconquista la sua centralità insieme agli imprenditori, il nostro differenziale tipologico che riesce a dare un output coerente ai consumatori. Ad oggi Cibus può esser una spinta di coraggio che esorti le aziende a reagire con forza all’impatto del momento e che, allo stesso tempo, dimostri come l’agroalimentare può e potrà contribuire alla stabilità dei territori e all’ inclusione delle persone in un periodo storico così delicato.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

IoVoceNarrante? La mia penna.

Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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La città di Lucio Dalla: il singolo di Roberta Giallo

La città di Lucio Dalla: il singolo di Roberta Giallo

La città di Lucio Dalla: il singolo di Roberta Giallo

È proprio come un regalo di compleanno, di quelli inaspettati, che il 4 marzo arriva sulle piattaforme digitali «La città di Lucio Dalla», l’intensa dedica di Roberta Giallo al cantautore bolognese Lucio Dalla e alla sua meravigliosa città.

 

La cantautrice: Roberta Giallo

Roberta Giallo è una cantautrice, scrittrice e performer teatrale. L’esordio della sua carriera avviene sul palco del concerto di Sting in Piazza del Plebiscito a Napoli, in diretta su All Music. In quell’occasione viene notata da Mauro Malavasi che la presenta al cantautore bolognese Lucio Dalla. Insieme lavorano al disco intitolato L’oscurità di Guillaume che ottiene un grande successo di pubblico e di critica, venendo decretato migliore disco del 2017 da All Music Italia.

Nel 2021 arriva la pubblicazione con Pendragon del suo primo romanzo dal titolo Web Love Story, che ripercorre le vicende che hanno ispirato il disco L’oscurità di Guillaume. Roberta Giallo spalanca le porte anche al teatro con numerose esibizioni e spettacoli nei più importanti teatri italiani con Federico Rampini, Ernesto Assante e Gino Castaldo, Valentino Corvino, Gnu Quartet e le più importanti orchestre italiane. Nel 2018 e 2019 parte per un tour mondiale titolato “Astronave Gialla World Tour” che la vede portare in giro per il mondo le canzoni de L’oscurità di Guillaume.

«La città di Lucio Dalla»

Bologna: città di artisti, talenti e sognatori, città dell’arte e della musica, città di Lucio Dalla e oggi anche indiscussa protagonista dell’ultimo brano di Roberta Giallo. La città di Lucio Dalla è un racconto in musica che coinvolge tutti i sensi, catapultando l’ascoltatore in un mondo fatto di immagini tangibili, di persone che si incontrano e di sogni che si realizzano.  Attraverso questo brano, la versatile cantautrice narra una storia autobiografica che inizia nella città dei portici: è qui che si incrociano sogni da realizzare, timori, incontri e soprattutto amicizia e gratitudine. Così il brano diviene, prima di ogni cosa, un’intensa dedica al capoluogo dell’Emilia – Romagna, che da sempre apre le porte ai giovani talenti. Ed è proprio in questa città che anche per Roberta avviene la magia: l’incontro con Lucio Dalla.

La dedica al maestro Lucio Dalla

Con il suo ultimo brano, La città di Lucio Dalla, la cantautrice e performer teatrale Roberta Giallo, decide di ringraziare il grande maestro della musica italiana: Lucio Dalla. Come un regalo di compleanno, il brano atterra sulle piattaforme digitali il 4 marzo a celebrare la nascita del cantautore italiano. L’incontro con Lucio Dalla è stato per Roberta l’evento teatrale della sua carriera, un pennarello indelebile che ha tracciato e delineato il suo percorso artistico. Prodotto dal polistrumentista Enrico Dolcetto, questo brano porta con sé l’eterna gratitudine, l’amore e la riconoscenza che l’artista prova nei confronti del suo cantautore per eccellenza Lucio Dalla, e per la sua meravigliosa città, ovvero Bologna.

Bologna Bologna Bologna,

La Città di Lucio Dalla,

mi sei un po’ Madre,

mi sei un po’ Figlia,

è Te che chiamo,

la mia Famiglia.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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Intervista ai Deshedus: dagli esordi al debutto a San Marino

Intervista ai Deshedus: dagli esordi al debutto a San Marino

Intervista ai Deshedus: dagli esordi al debutto a San Marino

 

Attitudine musicale, professionalità e tanto studio: sono tutti ingredienti che non mancano ai Deshedus, la band romana che ha gareggiato al Festival “Una Voce per San Marino” in corsa all’Eurovision.

 

Con la produzione di Mauro Paoluzzi e la collaborazione di Alberto Fortis e Tony Cicco, i Deshedus sono riusciti a portare la loro musica sul palco del Teatro Nuovo a Dogana dove si sono esibiti a fianco di numerosi Big della musica e dello spettacolo. Oltre ad aver dimostrato un’affascinante presenza scenica, la band romana composta da Alessio Mieli, Gabriele Foti, Federico Randolini e Stefano Tozzi, attraverso il brano «Sono un uomo» ha voluto lanciare un messaggio generazionale che invita a riflettere sulla condizione di precarietà che sempre più spesso sono i giovani a sperimentare. Andiamo a scoprire insieme la storia, la musica e le emozioni che hanno accompagnati i Deshedus nelle notti Sanmarinesi.

Partiamo dalle origini: come nascono i Deshedus e qual è il messaggio che la vostra musica si impegna a trasmettere?

“La musica è unione, sinergia e pura energia, oltre che una passione che ci portiamo tutti da quando eravamo piccoli. Riteniamo che sia uno dei modi migliori per comunicare un messaggio, sia intimo, che universale. Questo è il motivo per cui amiamo fare musica insieme. Inizialmente il progetto è partito dal frontman Alessio e successivamente ha deciso di formare una band, c’è una forza diversa e ci supportiamo tutti l’un l’altro, anche al di fuori della musica”.

Per tutte le band emergenti che sognano un’escalation come la vostra, come siete arrivati al palco più importante di San Marino?

Di certo abbiamo lavorato moltissimo e fatto altrettanti sacrifici per arrivare al punto in cui siamo. La nostra band è insieme da 3 anni e abbiamo sempre suonato in giro per l’Italia. Abbiamo partecipato anche a Sanremo Rock prima in gara e poi sempre come ospiti. Cerchiamo costantemente di portare novità, sia a livello di sound che di live. Per esempio, prima di San Marino abbiamo portato per la prima volta nel mondo a Cinecittà World un cine concerto olografico. L’obiettivo è sempre quello di unire il nostro stile anni Settanta/Ottanta, in chiave rivisitata ovviamente, applicandolo alle tecnologie più avanzate in un “back to the future”. Siamo felici che finalmente si comincino a vedere i frutti del nostro lavoro come la partecipazione a questo festival importante”.

Al Festival “Una Voce per San Marino” avete scelto di esibirvi con il brano «Sono un uomo», volete dirci qualcosa di più sulla canzone?

Sono un uomo è un urlo generazionale, della nostra precarietà e di come veniamo sfruttati senza possibilità di replica. È un annegamento nella società di cui ci sentiamo prigionieri e limitati nel pensiero. Nella situazione attuale si denunciano il potere e i venti di guerra”.

Con voi si sono esibiti e hanno partecipato alla creazione del brano due icone del panorama musicale italiano: Alberto Fortis e Tony Cicco. Com’è nata questa vincente collaborazione?

“Entrambi hanno sposato il progetto con molta passione, il messaggio è chiaro e non riguarda solo la nostra generazione, si estende più in là, è universale. Da qui l’idea insieme al nostro produttore Mauro Paoluzzi di cantare insieme «Sono un uomo». Come ha detto Alberto Fortis: «un bello scambio generazionale». A prescindere da com’è andata è stata un’esperienza bellissima, e solo aver collaborato con loro è stato incredibile. In ogni caso siamo positivi e non ci fermeremo. Vogliamo che questo messaggio arrivi”.

Sul palco del Teatro Nuovo a Dogana avete dimostrato una presenza scenica sorprendente che in una manciata di minuti ha travolto la platea nel vostro mondo musicale. Quali sono le emozioni che vi hanno accompagnato e che vi porterete nel cuore?

“Beh, era la prima volta in una TV, perciò, è stato molto bello, ma l’emozione più grande è stata l’applauso caloroso del pubblico sia all’inizio che alla fine. Quell’istante per noi è stata la vittoria perché siamo riusciti ad emozionare e far arrivare il messaggio. Questo è il nostro obiettivo e quindi questa è la nostra vittoria. Poi sono stati giorni molto intensi tra prove ed interviste, quindi abbiamo provato tante sensazioni diverse, è stato tutto molto bello”.

A riflettori spenti, tra tutti i concorrenti in gara, chi era lo sfidante che più temevate?

“Te lo diciamo sinceramente, non abbiamo temuto nessuno. Non è presunzione ma determinazione, crediamo in quello che suoniamo e che vogliamo dire. Per questo non ci ha spaventato nessuno”.

Cosa ne pensate della vittoria di Achille Lauro? Qualcun altro meritava la corsa all’Eurovision o siete d’accordo con il verdetto?

“Il brano vincitore di Achille Lauro è un pezzo orecchiabile per cui non ci ha stupiti la sua vittoria. Forse era il nostro diretto competitor avendo “almeno in gara” portato lo stesso nostro genere. Ma comunque siamo sportivi, accettiamo il verdetto e andiamo avanti!”

Anche se le luci che vi avrebbero portato all’Eurovision si sono spente, al Festival Sanmarinese non siete passati inosservati e vi portate a casa il meritatissimo Premio AVI – Associazione Vinile Italiana 2022. Siete soddisfatti di quest’esperienza?

“Aver ricevuto questo importante premio per «Il Brigante», nostro album di debutto come miglior vinile ai tempi del Covid-19, è stato molto soddisfacente. Non ci aspettavamo così tante recensioni positive e premiazioni anche se sicuri di aver fatto un bellissimo lavoro, reso possibile anche grazie a Mauro Paoluzzi il nostro produttore artistico e il nostro autore di fiducia Elio Aldrighetti che hanno contribuito in modo essenziale a questo progetto. Il Brigante sta entrando pian piano nei cuori delle persone, e non può che renderci orgogliosi e felici”.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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