Canto di Natale: siamo un po’ tutti Ebenezer Scrooge

Canto di Natale: siamo un po’ tutti Ebenezer Scrooge

Canto di Natale: siamo un po’ tutti Ebenezer Scrooge

Nel Canto di Natale di Charles Dickens possiamo assistere all’evoluzione umana di Ebenezer Scrooge, avido banchiere che riscopre l’amore verso il prossimo, e renderci conto che non siamo poi così diversi da lui.

Chi non ha sentito parlare, almeno una volta, del Canto di Natale di Charles Dickens? Il racconto, pubblicato per la prima volta nel lontano 1843, ha preso vita in diversi adattamenti cinematografici, dalla versione del 1999 di David Hugh Jones, a quella animata di A Christmas Carol firmata Disney. E se tra i vostri lontani ricordi di bambini compaiono Paperon de Paperoni accanto al Grillo Parlante, sappiate che anche in quel caso si trattava di una trasposizione della storia di Natale più commovente che sia mai stata scritta.
Protagonista del Canto di Natale è Ebenezer Scrooge, ricco banchiere dal cuore arido. Nemmeno le feste riescono ad accendere in lui lo spirito della condivisione, bensì aumentano l’avidità e la misantropia che lo contraddistinguono. In un viaggio tra passato, futuro e presente, scopriamo perché spesso siamo più simili di quanto ci piacerebbe credere al burbero Ebenezer Scrooge.

 

Il fantasma del Natale passato

Il Canto di Natale, dal sapore profondamente gotico, viaggia attraverso l’evoluzione umana di Scrooge, e nel farlo denuncia povertà, sfruttamento e classismo. L’incidente scatenante è l’apparizione del fantasma di Jacob Marley, suo ex socio in affari. L’inquietante manifestazione è solo l’inizio di una lunga notte per il protagonista, quella di Natale, durante la quale si presentano a lui altri tre spiriti.

Il primo simboleggia i Natali passati, e mostrandogli episodi di infanzia e gioventù, lo costringe a fare i conti con le sue scelte sbagliate e una condotta di vita discutibile. E non è necessario essere pessimi esseri umani quanto Scrooge per ammettere che anche noi, spesso, abbiamo dato la precedenza ai nostri interessi, piuttosto che agli affetti più cari. Un amico mai più richiamato, un vecchio amore a cui abbiamo rinunciato. E quante volte l’egoismo ha prevalso, e gli altri ci sono sembrati un fastidio da evitare.

 

Le scelte presenti che influenzano il futuro

Il secondo fantasma nel Canto di Natale mostra a Scrooge le pessime condizioni economiche in cui versa la famiglia del suo dipendente, Cratchit. Non può permettersi le cure per Timmy, il figlio malato, e la misera paga che riceve non è d’aiuto. Il terzo spirito, invece, gli rivela tutte le conseguenze future, tra cui la morte prematura del piccolo Timmy e quella di Scrooge stesso, in totale solitudine, senza nessuno che pianga sulla sua tomba. L’uomo, una volta conosciuto il destino che lo attende, inizia a provare rimorso per tutto il male arrecato, e pone rimedio.

L’umana compassione, che non aveva mai sperimentato prima, fa breccia nel suo cuore, e i suoi gesti amorevoli danno una svolta alla vita di molti, tra cui anche Timmy. È risaputo che le scelte di oggi possano determinare il nostro domani, ma fino a che punto possiamo essere consapevoli del nostro potere?

 

Cosa ci insegna il Canto di Natale  

Soprattutto nel periodo natalizio, gli esempi di bontà e redenzione fanno un certo effetto, portandoci a credere che sia arrivato il momento giusto per cambiare. Storie come quella di Charles Dickens hanno sempre da insegnarci qualcosa, ma a differenza di Scrooge, nessun fantasma ci mostrerà le conseguenze future delle nostre cattive azioni. Sempre ammesso che per noi siano cattive. Capita di agire in buona fede, senza renderci conto degli effetti delle nostre scelte. Ma ciò che aiuta realmente il nostro protagonista, è osservare dall’esterno le vite altrui. Seppur senza l’aiuto di forze sovrannaturali, possiamo sviluppare un’empatia che ci porti a considerare maggiormente i bisogni di chi amiamo. E anche se trovare un compromesso tra i loro e i nostri non è sempre facile, è almeno importante provarci. Questo può renderci persone migliori, e non solo a Natale. Sempre ricordando (e accettando) di non essere perfetti.

Martina Marotta

"Sono Martina, classe 1996. Laureata in Lettere e diplomata in Contemporary Humanities alla Scuola Holden, scrivo articoli e poesie per IoVoceNarrante. Potrei vivere bene anche in un mondo post apocalittico, basta che mi lascino scrivere".

Milano profuma di tartufo: Rosy Parisi ci presenta la sua Boutique

Milano profuma di tartufo: Rosy Parisi ci presenta la sua Boutique

Milano profuma di tartufo: Rosy Parisi ci presenta la sua Boutique

Nell’ottobre del 2021 è nata a Milano La Boutique del Tartufo, nuova meta da scoprire per tutti gli amanti dell’oro dei boschi.

Anticamente, il tartufo era considerato dono sacro degli Dèi, misterioso alimento dalle magiche proprietà, immancabile ospite d’onore dei banchetti nobiliari di ogni epoca. Ma al giorno d’oggi è ancora così? Non c’è dubbio che il pregio e la rarità del tartufo abbiano attraversato i secoli, portando il suo valore tra i più elevati nella scala dei beni di lusso.

La cerca e la cavatura del tartufo in Italia sono tradizioni riconosciute e stimate in tutto il mondo, tanto da essere state inserite nella lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Unesco nel 2021.

Ed è proprio nello stesso anno, nel movimentato scenario di corso Buenos Aires a Milano, che nasce La Boutique del Tartufo.

 

Il tartufo anche a Milano

Ordinati scaffali, mensole colme di prodotti dai colori brillanti e un intenso, avvolgente profumo: è così che si presenta ai nostri sensi La Boutique del Tartufo. L’elegante negozio ha aperto le sue porte nell’ottobre del 2021, proponendo una ricchissima selezione di prodotti e tartufo fresco di stagione.

Un’idea vincente, che unisce il gusto raffinato di un raro prodotto della terra al fascino sfavillante di corso Buenos Aires, crocevia commerciale di fama internazionale. Ma come è nato questo progetto? Ce ne parla Rosy Parisi, volto e cuore della Boutique, che ha realizzato l’impresa di portare il tartufo a Milano insieme a Valerio Girolami e Sherif El Santawy.


Qual è stato il percorso che vi ha portati dall’idea di un negozio di prodotti al tartufo alla sua effettiva inaugurazione a Milano?

“L’idea di aprire La Boutique del Tartufo nasce al rientro da un weekend a Firenze, dove ogni 100 metri trovi un negozio che vende prodotti tipici italiani, tra cui prodotti al tartufo. Tornai a casa con due sacchetti pieni di cibo, avevo fatto la scorta. Da lì, con Valerio e Sherif (i miei soci e appassionati di tartufo e cucina come me), sono nate l’idea e la voglia di approfondire la nostra conoscenza del mondo dei tartufi, per poter portare a Milano uno dei prodotti più preziosi e ricercati della nostra nazione. Ho fatto un corso intensivo con dei professionisti del settore, abbiamo cercato i migliori produttori e fornitori d’Italia e ci siamo messi subito alla ricerca del locale perfetto nella via dello shopping più lunga d’Europa. Dopo cinque mesi abbiamo inaugurato il nostro primo negozio in Corso Buenos Aires a Milano”.

 

Che tipo di prodotti troveranno in negozio tutti coloro che ancora non conoscono La Boutique del Tartufo?

“A La Boutique del Tartufo si possono trovare svariati prodotti, per poter ricreare a casa un pranzo o una cena da ristorante gourmet. Abbiamo una vasta scelta di pasta, rigorosamente artigianale, creme e salse per soddisfare qualsiasi palato, con tante proposte vegane, condimenti di tutti i tipi, snack sfiziosi, digestivi e cioccolatini. Non manca mai il tartufo fresco di stagione, che arriva direttamente dai migliori tartufai di tutta Italia. I nostri clienti potranno trovare anche elegantissime box regalo che si possono personalizzare senza limiti”.

 

Come è cambiato il valore del tartufo in questi ultimi anni? È ancora considerato raro e prezioso tanto quanto nei secoli passati?

“Il Tartufo è raro e prezioso. Lo era, lo è e lo sarà sempre. È il diamante della cucina italiana, soprattutto se parliamo del Tuber Magnatum Pico (bianco pregiato) o del Tuber Melanosporum Vittadini (nero pregiato) che possiamo gustare in limitati periodi dell’anno”.

 

 

Il tartufo a portata di click

Per quanto la cerca e la cavatura siano una vera e propria arte, non tutti gli appassionati di tartufo ne sono affascinati. C’è chi preferisce assaporarne le note intense recandosi comodamente in negozio, oppure ordinando online.

La Boutique del Tartufo ci dà la possibilità di intraprendere anche la seconda strada: si possono acquistare i prodotti e il tartufo fresco direttamente sul sito con un semplice click. E l’esperienza con la Boutique continua anche in cucina, dove si possono seguire passo dopo passo le sfiziose ricette proposte.

L’Italia, ancora una volta, si distingue per la fama dei propri prodotti, e ora anche gli amanti del fungo ipogeo più famoso al mondo avranno una nuova meta da scoprire.

In foto: Rosy Parisi, Valerio Girolami, Sherif El Santawy 

Crediti immagini: Andrea Capellupo

Crediti immagine finale: Agostino Erba

Martina Marotta

"Sono Martina, classe 1996. Laureata in Lettere e diplomata in Contemporary Humanities alla Scuola Holden, scrivo articoli e poesie per IoVoceNarrante. Potrei vivere bene anche in un mondo post apocalittico, basta che mi lascino scrivere".

Dino Buzzati e l’inefficacia dell’attesa

Dino Buzzati e l’inefficacia dell’attesa

Dino Buzzati e l’inefficacia dell’attesa

Dino Buzzati e l’attesa viaggiano insieme nell’immensa produzione letteraria dell’autore, dove trovano spazio ambientazioni surreali e personaggi fantastici.

Oltre ad avere in comune mistero e scenari talvolta inquietanti, i romanzi e i racconti di Buzzati ci fanno respirare atmosfere pregne di attesa. Un’attesa che si declina in modi diversi di storia in storia, lasciandoci talvolta spiazzati, talvolta con l’amaro in bocca.

E così, i personaggi nati dall’ingegno buzzatiano si auto-sabotano, o subiscono la vita senza che nessuna delle loro azioni possa cambiare un destino già segnato. Attendono invano che qualcosa cambi, nella ripetizione incessante di atteggiamenti controproducenti.

Spesso solo la morte riesce a liberarli da una vita di schiavitù e inettitudine, annientando una volta per tutte l’estenuante attesa.

 

Il deserto dei Tartari 

Il malato meccanismo della Fortezza

 

Pubblicato nel 1940, Il deserto dei Tartari ci accompagna nell’ambientazione militare della Fortezza Bastiani, al limitare del deserto. Giovanni Drogo, giovane tenente che deve prestare servizio nella “solitaria bicocca”, desidera sin da subito fare ritorno a casa. La Fortezza risulta inospitale ma ipnotica nella sua fissità, spezzata solo dal cammino delle sentinelle lungo le mura. I soldati si comportano come automi, stregati dalle rigide abitudini imposte dall’alto. Vivono tutti nell’attesa dei Tartari, leggendari nemici che potrebbero presentarsi da un momento all’altro, oppure mai. All’inizio del romanzo conosciamo un Drogo disilluso, quasi incredulo per la vita condotta dai suoi compagni. Ben presto, però, si ritrova egli stesso intrappolato nel malato meccanismo, tanto che aspettare i nemici diventa l’unico motivo per cui continuare a vivere.

 

Il tempo sospeso

Dino Buzzati lascia che il suo protagonista viva trent’anni di inutile attesa. Drogo vede alcuni colleghi morire, altri congedarsi. Il tempo alla Fortezza sembra sospeso, forse nemmeno si rende conto di quanto ne è passato.
A poche pagine dalla fine del romanzo, finalmente si stagliano in lontananza le figure minacciose dei Tartari. Drogo ha una malattia al fegato che lo costringe a letto, e viene allontanato mentre i compagni rimangono per il tanto atteso scontro. Ed è proprio in questo momento che cogliamo l’inefficacia dell’attesa di Drogo. Pur avendo aspettato, non gli sono stati concessi vittoria, gloria o riscatto. Dolore e frustrazione si fanno strada nel suo cuore mentre viene portato in una locanda, distante da tutto ciò che ha desiderato per anni.

Abbiamo già accennato di come i personaggi buzzatiani, spesso, trovino liberazione solo nella morte. Ed è proprio nel letto di un’anonima stanza, mentre guarda le stelle, che Drogo si addormenta in pace. Chiude gli occhi per l’ultima volta, cullandosi nell’illusione di essere comunque morto da eroe solitario, finalmente libero da ogni attesa.

Le mura di Anagoor 

 

Una città leggendaria

 

Diverso il destino del viaggiatore di questo racconto, pubblicato per la prima volta sul Corriere della Sera nel giugno del 1954. Egli, giunto nel Tibesti, scopre l’esistenza di una città misteriosa, circondata da immense mura che si estendono per chilometri e chilometri: è Anagoor, luogo leggendario che non compare su nessuna cartina geografica. E sono centinaia le persone accampate di fronte alle mura, che attendono giorno e notte l’apertura delle porte, desiderosi di essere accolti nella città. Il protagonista si dimostra scettico di fronte alle storie della guida indigena che lo accompagna, Magalon. Quest’ultimo racconta di un viandante, ignaro delle leggende legate alla città e in cerca di un rifugio. Quella volta le porte gli erano state aperte, forse proprio perché l’uomo non era in attesa di nulla.

 

L’inutile attesa della felicità

 

Sin da subito possiamo intuire la metafora nascosta in quest’opera di Buzzati: Anagoor è la felicità che l’uomo insegue e brama, pensiero fisso che non lascia spazio a nient’altro. E il viandante ricordato da Magalon nella sua storia, nient’altro è che un essere libero da ogni aspettativa, a cui le porte erano state aperte senza che lui avesse dovuto attendere o farsi notare.

Il cinismo iniziale del protagonista potrebbe indurci a pensare che lui sia più simile al vecchio viandante che ai tanti raggruppati di fronte alle mura. Invece, con un inaspettato colpo di scena, Buzzati lascia che si accampi insieme agli altri per ben ventiquattro anni.

Inutile dire che l’attesa risulti vana, poiché nessuna porta si apre per il nostro viaggiatore. Torna a casa sconfitto, e la liberazione, questa volta, non è racchiusa nella morte, ma nella scelta volontaria di lasciare il deserto: dopo anni di passiva attesa, finalmente torna padrone della propria mente e, forse, della propria felicità.

L’uomo che volle guarire

 

La preghiera come soluzione

 

L’inefficacia dell’attesa si declina in modo ancora diverso in questo spiazzante racconto del 1952. L’uomo che volle guarire è la storia di un giovane lebbroso, Mseridon, incapace di rassegnarsi alla malattia. Arrivato da poco nel lebbrosario della città, non smette di pensare alla sua precedente vita di nobile cavaliere, alle belle donne, all’allegria cittadina e a tutte le ricchezze a cui ha dovuto rinunciare. Desideroso di poter tornare indietro, prega ogni giorno, senza mai fermarsi, arrivando esausto a fine giornata. Inaspettatamente per tutti gli abitanti del lebbrosario, Mseridon comincia a guarire grazie alla preghiera: tutti i segni lasciati sul suo corpo dalla lebbra svaniscono, fatta eccezione per una piccola crosta sul mignolo del piede. A questo punto, Mseridon arriva a pensare che il suo metodo funzioni, e che il problema sia l’intensità della sua applicazione. Riprende la preghiera per altri lunghi mesi, finché non risulta totalmente guarito. Gli vengono aperte le porte del lebbrosario perché possa tornare a casa, e il lettore si culla nella speranza che, per una volta, l’attesa sia stata ricompensata.

 

L’attesa che sconvolge la percezione

 

Buzzati ha altri piani per Mseridon: egli si affaccia per guardare il mondo che ha lasciato tempo prima, ma tutta la bellezza è come svanita. Al suo posto, palazzi fatiscenti, povertà e miseria. Giacomo, il più vecchio e saggio tra i lebbrosi, gli spiega che egli non vede più la vita con gli occhi di prima. Da gentiluomo è diventato santo, e i beni materiali che tanto lo appagavano ora non lo soddisfano più. Il ragazzo si rassegna a vivere nel lebbrosario il resto dei suoi giorni. Siamo di fronte a un nuovo tipo di attesa inefficace: il protagonista riesce a raggiungere lo scopo grazie alla propria pazienza, ma è solo in parte realizzato. Una volta guarito, la sua visione del mondo non gli consente di vivere felice nel mondo conosciuto prima della malattia. Tutte le energie impiegate risultano vane. Il risultato è controproducente, anche se Mseridon si impegna attivamente e investe tutto il proprio tempo nella preghiera.

Dino Buzzati e l'inefficacia dell'attesa

Conclusioni 

 

Tempo sprecato, esistenze vuote, percezioni sconvolte: queste le sfumature dell’inefficacia dell’attesa, che rendono molti personaggi di Buzzati inetti auto-sabotatori. Ma c’è qualcosa di più: la paura di uscire da schemi familiari, dalla zona di comfort che ci siamo scelti, in una ripetizione continua di azioni senza efficacia. Buzzati parla ai molti che, pur di non interfacciarsi con il cambiamento, preferiscono fallire.

 

Martina Marotta

"Sono Martina, classe 1996. Laureata in Lettere e diplomata in Contemporary Humanities alla Scuola Holden, scrivo articoli e poesie per IoVoceNarrante. Potrei vivere bene anche in un mondo post apocalittico, basta che mi lascino scrivere".

Edgar Allan Poe e i suoi racconti: la voce dell’assassino

Edgar Allan Poe e i suoi racconti: la voce dell’assassino

Edgar Allan Poe e i suoi racconti: la voce dell’assassino

“Quando un pazzo sembra perfettamente ragionevole è gran tempo, credetemi, di mettergli la camicia di forza.”

 

Edgar Allan Poe, maestro del mistero e capostipite del moderno romanzo poliziesco, nacque a Boston nel 1809. Una vita dedita alla scrittura, ma anche soffocata dal gioco d’azzardo e dai fumi dell’alcol. La sua esistenza sregolata lo portò alla morte a soli 40 anni, dopo aver lasciato opere di immensa ispirazione agli scrittori dopo di lui.
La produzione di Edgar Allan Poe si compone di numerose poesie, un romanzo e raccolte di racconti che oscillano tra il fantastico e il grottesco. Impossibile non ricollegare la figura di Poe ai suoi celebri racconti del terrore, che scavano nell’animo umano alla ricerca di follia e mostruosità. E proprio di questi parliamo oggi, nel 172° anniversario della sua morte.

Tre storie che ci portano faccia a faccia con l’assassino, che non si nasconde da noi, non aspetta di essere scovato, ma ci parla con voce razionale delle atrocità che ha commesso.

 

Il gatto nero

Il gatto nero_Edgar Allan Poe

Illustrazione di Giancarlo Rizzo

 

Vittima innocente

Di Edgar Allan Poe, tra tutti i racconti del terrore, spicca sicuramente Il gatto nero. Non è raro trovarlo nelle antologie scolastiche, e chi non l’ha mai letto ne ha almeno sentito parlare. Scritta nel 1843, la storia è narrata in prima persona. Un uomo che aspetta di essere giustiziato prova a mettere ordine tra gli avvenimenti che l’hanno portato a commettere atrocità imperdonabili, cercando di razionalizzarli. Racconta del suo passato, di un matrimonio appagante, della passione per gli animali condivisa con la moglie. Ne possiedono molti, ma il prediletto è Plutone, un bellissimo gatto nero. Le cose cominciano a cambiare quando il vizio dell’alcol si impossessa dell’uomo, rendendolo aggressivo e spietato. Il primo episodio grave riguarda proprio Plutone, a cui cava l’occhio con un taglierino, per poi pentirsene amaramente.

Spaventose coincidenze

Dopo poco tempo, l’odio nei confronti del gatto cresce, e in un momento di follia lo impicca al ramo di un albero. Il rimorso lo divora subito. Quella stessa notte, lui e la moglie vengono svegliati dalle fiamme, che a poco a poco distruggono interamente la loro abitazione. Solo un pezzo di muro sembra essere sfuggito all’ira del fuoco, e sopra vi è la sagoma di un gatto, il segno di una corda intorno al collo. Il protagonista cerca delle spiegazioni razionali all’accaduto, è terrorizzato, ma ben presto se ne dimentica, tornando nella sua spirale di alcol e miseria. Una sera, nota in una taverna la presenza di un grosso gatto nero, molto simile a Plutone, tranne che per una macchia bianca sul petto. Decide di portarlo a casa con sé, ma la somiglianza con il primo gatto lo disturba: esattamente come lui, anche al nuovo arrivato manca un occhio.

 

La tragedia finale

L’odio per il gatto cresce, e la macchia sul petto sembra prendere le sembianze di una forca. L’uomo è terrorizzato, e sempre più vicino alla follia.
Un giorno, scendendo le scale della cantina insieme alla moglie, l’animale lo fa inciampare. Preso dall’ira, afferra una scure per ucciderlo, ma colpisce accidentalmente la donna, che muore all’istante. Con il panico in circolo, mura il cadavere in una parete della cantina, senza lasciare alcuna traccia.
Pensa di averla scampata, risponde tranquillamente a tutte le domande della polizia durante un’ispezione, e anche il gatto che tanto lo irritava sembra essere sparito. Sicuro di sé, colpisce con un bastone i mattoni dietro cui si trova il cadavere, e un lamento straziante si leva nell’aria. Gli agenti si mettono subito al lavoro, abbattendo il muro. Accanto al corpo senza vita della donna, come un giustiziere infernale, c’è il gatto nero.

 

Il barile di Amontillado

Il barile di Amontillado_Edgar Allan Poe

Pubblicato per la prima volta nel novembre del 1846, Il barile di Amontillado di Edgar Allan Poe è tra i racconti più crudeli. Anche in questo caso incontriamo un assassino che rivela sin da subito le proprie malvagie intenzioni, ma non vi è alcun segno di pentimento. Montrésor decide di vendicarsi di Fortunato per tutte le offese ricevute negli anni. Lo porta nelle cantine del suo palazzo con l’inganno, affermando di aver ricevuto una botte di Amontillado, che Fortunato si offre di controllare per confermarne l’autenticità. Mentre i due percorrono le catacombe della famiglia Montrésor, il senso di soffocamento si fa sempre più forte. L’assassino riesce a incatenare alle pareti di una nicchia Fortunato, che ubriaco e intontito non si rende conto della sua imminente fine. E così viene murato vivo, e l’unico suono percepibile alla fine del racconto è quello dei campanelli del suo costume da giullare.

 

Il cuore rivelatore

Altro capolavoro di Poe è Il cuore rivelatore, pubblicato nel 1843. Di nuovo, la voce narrante è quella di un assassino. Egli racconta dell’omicidio commesso tentando di dimostrare al lettore la propria sanità mentale. Vive con un vecchio, di cui non sopporta l’occhio, simile a quello di un avvoltoio. Una notte lo uccide, rovesciandogli addosso il letto, e nascondendo il suo cadavere smembrato sotto le assi del pavimento. Risponde con sicurezza all’interrogatorio della polizia, finché non inizia a udire distintamente il suono di un cuore che batte sotto il pavimento. Sembra essere l’unico a sentirlo, mentre gli agenti chiacchierano tra di loro. Il panico lo attanaglia, e comincia a credere che gli agenti lo stiano prendendo in giro per smascherarlo, fingendo di non sentire il battito. Ed è proprio questo a farlo impazzire definitivamente. Cede, rivelando la posizione esatta del corpo, e dimostrando al lettore la sua evidente pazzia.

 

 

Conclusioni

Edgar Allan Poe riesce a dare una voce razionale, nei suoi racconti, a spietati assassini. Ammettono la propria colpevolezza con lucidità, tentando di spiegare le loro folli azioni passaggio dopo passaggio. A volte il rimorso si fa strada nel cuore del colpevole; in altre occasioni, invece, il senso di colpa non è nemmeno contemplato, come nel caso di Montrésor.
È interessante l’utilizzo della prima persona, che avvicina il lettore alla follia di ogni protagonista: come a voler sottolineare, in fondo, che dietro ogni persona dall’aspetto innocuo potrebbe celarsi uno spietato assassino.

 

Martina Marotta

"Sono Martina, classe 1996. Laureata in Lettere e diplomata in Contemporary Humanities alla Scuola Holden, scrivo articoli e poesie per IoVoceNarrante. Potrei vivere bene anche in un mondo post apocalittico, basta che mi lascino scrivere".

Paolo Borzacchiello e HCE: quando l’abito fa il monaco

Paolo Borzacchiello e HCE: quando l’abito fa il monaco

Paolo Borzacchiello e HCE: quando l’abito fa il monaco

Drammatico, peso, sabotare, difficile: queste sono tra le tante parole che non devi più pensare, né pronunciare. Non lo dico io, ma l’esperto di intelligenza linguistica che ha rivoluzionato il modo di concepire il linguaggio e le interazioni umane: Paolo Borzacchiello. Quindi, prenditela con lui.

Sarcasmo a parte (che tra l’altro può essere poco benefico per il cervello, ma ne parleremo), Borzacchiello ha alle spalle anni di studi sul legame che intercorre tra la nostra mente e le parole con cui descriviamo la nostra realtà.

Nella sua esclusiva scuola, l’HCE University di Pavia, Paolo e la sua squadra hanno posto come punto cardine della loro missione un concetto fondamentale: parlare di comunicazione è ormai cosa superata e limitante. Molto meglio parlare di interazione, termine ben più denso di significato.

 

 

Interazione vs comunicazione

 

Cosa significa, dunque, parlare di interazione e lasciare in soffitta concetti polverosi e obsoleti?

Quando ci riferiamo alla comunicazione, ci limitiamo a prendere in esame tre postulati:

 

verbale: le parole che pronunciamo;

paraverbale: tono, ritmo, timbro, volume della nostra voce;

non verbale: il linguaggio del corpo.

 

Il nostro cervello utilizzerà gli ingredienti che noi gli forniremo. Pertanto, possiamo scegliere se fossilizzarci sui pochi elementi che stanno alla base del comunicare, oppure prendere una strada nuova.

Imparando a riconoscere tutte le variabili che possono influenzarci, arricchiremo la nostra vita e le nostre interazioni con noi stessi e con gli altri. Ma è necessario conoscerle bene per volgerle a proprio vantaggio, ed è proprio qui che operano Borzacchiello e la squadra HCE: negli ultimi trent’anni hanno condotto ricerche ed esperimenti, abbracciando le più svariate discipline, fino a codificare tutte le variabili esistenti e a raggrupparle in 5 diverse intelligenze.

 

Le 5 intelligenze HCE

 

Ogni volta che interagiamo con noi stessi e con gli altri, dunque, siamo influenzati da infiniti fattori: non solo le parole che usiamo, ma anche il materiale dei mobili intorno a noi, gli abiti che indossiamo, ciò che mangiamo, gli odori, i gesti, il colore delle pareti. Eravate a conoscenza del fatto che il nostro cuore batte più velocemente alla vista del colore rosso? Adesso sì, quindi sapete cosa indossare al prossimo appuntamento.

 

Paolo Borzacchiello ci presenta le 5 intelligenze e le variabili in esse contenute nel libro HCE – La scienza delle interazioni umane, scritto in collaborazione con Luca Mazzilli.

C’è un trucchetto per aiutarci a ricordarle: basta memorizzare l’acronimo SCALE (Strategic, Conduct, Ambient, Linguistic, Emotional).

 

 

  1. Intelligenza strategica

Riguarda tutti gli obiettivi che ci prefissiamo e le strategie mentali scelte per raggiungerli. Ci insegna come ragionare per trovare i migliori piani di azione, come quando ci imbattiamo nell’ostilità di una persona con cui ci stiamo relazionando. Facciamo un esempio: immaginiamo di dover convincere un cliente ad acquistare il nostro prodotto. Un modo efficace è quello di presentare all’interessato altre tre valide alternative, elencandogli i nostri competitor. Così dimostreremo di non aver bisogno di vendere a tutti i costi ciò che offriamo. Un punto a nostro favore, che risulteremo sicuri di noi e del nostro prodotto.

 

  1. Intelligenza comportamentale 

Si occupa di tutto ciò che ha a che fare con espressioni, gesti e posture. Il modo in cui ci muoviamo parla di noi. Se siamo dei leader e abbiamo bisogno di acquisire credibilità, meglio evitare di grattarci il viso o le braccia mentre interagiamo con il nostro pubblico, perché rischieremmo di trasmettere insicurezza. Prediligere una postura ferma e non oscillare lateralmente sono altri punti da tenere in considerazione, insieme a respirare con il diaframma, affinché la nostra voce risulti più nitida.

 

  1. Intelligenza ambientale 

L’abito fa il monaco. Ci hanno sempre detto il contrario, ma Borzacchiello ha chiarito più volte questo punto. È la teoria dell’enclothed cognition: tutto ciò che indossiamo genera in noi sensazioni specifiche, così come con quelli che interagiscono con noi. Vestire abiti che ci facciano sentire bene con noi stessi ci aiuta a ottenere risultati migliori. L’intelligenza ambientale si occupa proprio di questo: scegliere con cura colori, materiali e vestiti per raggiungere i nostri obiettivi.

Lo sai che per generare empatia nel tuo interlocutore, ti basterà offrirgli una bevanda calda? Questo grazie alla variabile della temperatura, che può tornarti molto utile se ti occupi di vendite.

 

  1. Intelligenza linguistica 

Le parole che usiamo sono importanti, perché generano un cocktail ormonale capace di ribaltare completamente i nostri risultati. Facciamo subito un esempio. Prendiamo in esame la parola difficile. È un termine negativo che può far bloccare il nostro sistema parasimpatico, il quale monitora le azioni inconsce dell’organismo. Difficile comunica al cervello che ci saranno degli impedimenti lungo il cammino, sforzi da compiere. Prenderemo pessime decisioni perché abbiamo in corpo pessime sostanze, come il cortisolo, ormone dello stress.

Ma se la sostituiamo con la parola sfidante, i giochi cambiano. Il cervello tradurrà la situazione come una sfida da vincere, e l’organismo comincerà a produrre dopamina per prepararsi alla gara, rendendoci energici e grintosi.

 

  1. Intelligenza emotiva

Quest’ultima intelligenza ci aiuta a gestire il nostro stato d’animo.

Cambiare il nostro umore o quello degli altri in base agli ormoni che produciamo, è possibile. Avete mai notato la postura di una persona triste? Presumibilmente avrà il capo chino, le spalle basse, le labbra lievemente piegate all’ingiù. Se quella stessa persona cominciasse ad alzare la testa, a sorridere volontariamente e a respirare meglio, produrrebbe ormoni come ossitocina e serotonina, capaci di migliorare il suo umore e di aiutarla a prendere decisioni più lucide.

 

 

La parola magica 

 

Tra le intelligenze appena analizzate, una in particolare è il cuore pulsante delle ricerche di Paolo Borzacchiello: quella linguistica. Le parole possono fare magie, modificare la realtà che abbiamo intorno e permetterci di raggiungere obiettivi impensabili. E Paolo ce lo dimostra nella sua trilogia, Il signore delle Menti.

Il primo volume, La parola magica, pubblicato da Mondadori nel 2018, è l’inizio di una missione: quella di Leonard Want, grande esperto di interazioni umane e intelligenza linguistica (vi ricorda qualcuno?), ingaggiato da Dio in persona per una consulenza molto singolare.

Il libro non è un semplice romanzo, ma si presenta con peculiarità osservabili nell’alternanza di tre diversi stili. Oltre allo stampatello tradizionale, possiamo notare il corsivo, che l’autore utilizza quando Leonard spiega le sue tecniche di intelligenza linguistica, e il grassetto, riservato ai comandi inconsci racchiusi nel volume. In questo modo, mentre ci godiamo la storia, possiamo imparare qualcosa di utile per migliorare le nostre interazioni ed essere influenzati positivamente senza nemmeno rendercene conto.

Ogni personaggio è accuratamente studiato per rappresentare una parte diversa della nostra mente, tra cui i tre cervelli, suddivisione che si deve allo scienziato Donald MacLean.

Vediamo quali sono i personaggi principali nati dalla penna di Borzacchiello.

 

I personaggi della Parola Magica

 

-Evelyn, bellissima e spietata, è l’incarnazione del cervello rettile, quella parte della nostra mente legata agli istinti, che si mette subito in allarme, fiuta il pericolo ed è molto diffidente. È programmato per proteggerci e farci sopravvivere, è la parte di noi che coglie ogni parola in modo letterale. Ironia e sarcasmo non vengono colti, quindi, stiamo attenti la prossima volta che diciamo di “star morendo dal ridere”;

 

-Lucifer, linguaggio ipnotico e seducente, rappresenta il cervello limbico. È la parte più egoista e appassionata di noi, che brama, empatizza, si commuove. Può essere stregato grazie a particolari strategie linguistiche, che lo emozionano e gli fanno rilasciare un’incredibile quantità di ossitocina, ormone che rafforza il senso di fiducia;

 

-Leonard Want rappresenta la neocorteccia, nostra componente logica e razionale. È spesso vittima di bias cognitivi, ovvero errori del cervello, scorciatoie che prendiamo per velocizzare i nostri ragionamenti, ma che possono trarci in inganno. Un esempio è quello del bias di conferma, che ci fa notare solo le informazioni che confermano una nostra precedente tesi, escludendo tutte quelle contrarie: così penseremo sempre di aver avuto ragione sin dall’inizio, anche quando non è così.

Possiamo dire che la neocorteccia giustifica le decisioni prese da cervello rettile e limbico, anche inventando mille scuse pur di farci sentire meglio;

 

-Lisa, un’anziana signora che afferma di essere Dio, profuma di vaniglia, ha un pessimo gusto nel vestire ed è una fumatrice incallita. Lei rappresenta la ghiandola pineale. Essa prende decisioni secondo la nostra volontà, e saranno buone decisioni solo se i tre cervelli sono allineati e in pace tra loro. Per questo, prima che Lisa possa scegliere cosa fare, ha bisogno di consultarsi con Leonard, affiancato da Evelyn e Lucifer. Niente spoiler sulla decisione finale di Dio!

 

 

Conclusioni 

 

Se entriamo nell’ottica di interagire con noi stessi e il mondo esterno, possiamo cominciare a notare molti più dettagli a cui prima non prestavamo attenzione. Conoscere il funzionamento del nostro cervello ci permette di scegliere le parole migliori per nutrirlo, senza cadere nelle trappole mentali che rallenterebbero la nostra crescita personale. E il bello della conoscenza è che non si ferma mai: dobbiamo tenerci in costante aggiornamento, perché ogni giorno vecchie teorie vengono smentite, e nuove tesi vedono la luce.

Martina Marotta

"Sono Martina, classe 1996. Laureata in Lettere e diplomata in Contemporary Humanities alla Scuola Holden, scrivo articoli e poesie per IoVoceNarrante. Potrei vivere bene anche in un mondo post apocalittico, basta che mi lascino scrivere".