Il piacere e la vergogna di mentire ne “La Vita Bugiarda degli Adulti” di Elena Ferrante

Il piacere e la vergogna di mentire ne “La Vita Bugiarda degli Adulti” di Elena Ferrante

Il piacere e la vergogna di mentire ne “La Vita Bugiarda degli Adulti” di Elena Ferrante

Ero ormai quasi convinto di non scrivere nulla in merito a “La vita bugiarda degli adulti” di Elena Ferrante. Ne ero ormai convinto ripetendomi: «Non posso in tutta sincerità parlar male di qualcosa di bello». Ne ero tanto convinto che finito il libro lo appoggiai nell’angolo più remoto della libreria nella speranza di dimenticarmene.

Ma questo è uno di quei libri che non si dimenticano, e non vale nemmeno la pena sforzarsi di farlo. Perché la Ferrante è maestra di narrativa e ogni pagina scorre veloce fino a quella successiva in un vortice complicato che, nel giro di poco tempo, ti porta inevitabilmente alla sua chiusura. Una chiusura, per altro, che tanto chiusura non lo è stata. All’ultima pagina ho continuato a sfogliare il libro convinto di trovarne delle altre.

Non volevo parlar male di questo romanzo ma devo ahimè farlo, perché questo è un libro pieno di menzogne, che cerca prima di tutto di ingannare il lettore. Alert spoiler, ci riesce: ma se un libro ha come obiettivo parlare del mondo bugiardo degli adulti, non si può che constatare come di fatto il libro riesca a fare il suo lavoro, e a farlo anche bene.

La storia parla di Giovanna – o Giannina – e il pretesto che sta alla base del tutto è funzionale: «Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta». Attenzione però, perché questo incipit è nientemeno che la prima bugia del romanzo. Veniamo a sapere infatti che il padre disse: «Sta facendo la faccia di Vittoria». Vittoria è la zia di Giovanna. Certo, malvoluta dalla famiglia, sorella a cui Andrea non parla da decenni, povera e rappresentante di un mondo da lasciarsi alle spalle, quello della Napoli che sopravvive tra quartieri malfamati e, forse, luoghi comuni. Vittoria è per Giovanna una figura misteriosa, una zia mai vista e associata a bruttezza e follia da quando era piccola. Nasce da qui il desiderio della ragazza di conoscerla e, pian piano, di entrare a far parte del suo mondo.

Questo libro ci schernisce mentendoci, e lo fa dandoci il punto di vista di una ragazza adolescente, che fatica a comprendere le bugie nelle quali vivono tutti gli adulti della sua vita. Questo libro mente dal momento che la protagonista comincia a rendersi conto delle bugie che la circondano e che fanno parte della vita degli adulti. Di conseguenza, inizia a mentire anche a noi lettori.

Lo fa dal primo momento all’ultimo, lo fa dalla bugia che dona vita al romanzo e continua a farlo affabulandoci mendacemente pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo. Lo fa perché è la stessa Giovanna a farlo man mano che entra nel mondo degli adulti. Lo fa perché ogni personaggio sotto sotto non ce la racconta giusta, fingendo nelle frasi e nei comportamenti; e noi lo sappiamo. Noi adulti. Ogni dannatissima volta.

Quindi di questo libro non posso che parlarne male. Anche perché, probabilmente non sono (o non mi sento) il lettore tipo di questo romanzo. È un romanzo di formazione; di crescita e supporto e racconta le emozioni proprie del diventare adulti piano piano. Di fatto un romanzo che racconta e si chiude proprio in quello che può definirsi il passaggio alla vita degli adulti.

No, questo non è un libro per me, mi ha mentito dall’inizio alla fine, e quindi de “La Vita bugiarda degli Adulti” non solo posso ma devo parlarne male. Perché…

Perché sotto sotto provo piacere a mentirvi anche io.

Anche se questo libro forse non lo lascerò nell’angolo più remoto della mia libreria, ho capito che fa parte della vita bugiarda degli adulti anche il piacere di parlarvi male di qualcosa di bello.

​di Christian Abbate

Tony Blair vs. “The Crown”: qualcuno si è indispettito

Tony Blair vs. “The Crown”: qualcuno si è indispettito

Tony Blair vs. The Crown: qualcuno si è indispettito

John Major e Tony Blair –gli ex premier inglesi apparsi nelle ultime puntate della popolare serie – hanno profondamente criticato la loro rappresentazione all’interno considerando il prodotto anche “molto irrispettoso” nei confronti della regina Elisabetta

Gli ex primi ministri inglesi John Major e Tony Blair non hanno apprezzato le proprie rappresentazioni in The Crown, la popolare serie di Netflix prossima alla quinta stagione. “Questo spettacolo è pura finzione spacciata per realtà“, ha tuonato Major, che ha inoltre aggiunto quanto sia una serie irrispettosa nei confronti della regina Elisabetta scomparsa da poco.

Una parte della fiction, infatti, raffigura l’allora principe Carlo, oggi nelle vesti di sovrano, interpretato da Dominic West, che interrompe una vacanza con Diana, la principessa del Galles, “per ospitare un incontro segreto con Major a Highgrove nel 1991, durante il quale viene discussa la cacciata della regina”, scrive il Guardian. Meglio ancora, “Carlo viene raffigurato mentre cerca di reclutare Blair come suo alleato per proteggere il proprio futuro e spianare la strada a se stesso e al suo matrimonio con Camilla”, poco dopo le elezioni generali del 1997.

Sarà profondamente doloroso per una famiglia che è ancora in lutto per la stessa persona sulla cui vita è stato fondata l’intera serie“, ha subito scritto Major al Daily Telegraph,  mentre il portavoce di Tony Blair ha detto che “non dovrebbe sorprendere che si tratti di spazzatura bell’e buona“.

La finzione non dovrebbe essere contrabbandata per realtà”, ha insistito Major, in quanto molti “potrebbero essere influenzati da una sceneggiatura dannosa e fittizia”, che rivendica “di essere realistica solo perché inframmezzata da eventi storici”. “L’intrattenimento è un’industria grande e gloriosa che porta enorme piacere a molti milioni di persone. Netflix non dovrebbe sminuirlo con rappresentazioni che sono sia dannose che false” ha chiosato.

Forse anche alla luce di queste “recensioni negative”, il mese scorso Netflix ha inserito un disclaimer nella descrizione del trailer su YouTube sottolineando come la serie sia una “drammatizzazione immaginaria”, seppure “ispirata a eventi reali”.

La fiction di successo tornerà in tv il 9 novembre e conterrà due episodi che si aggiungono all’intervista bomba con Diana condotta dall’ex giornalista della Bbc Martin Bashir, secondo il Sun“, ci spiega Agi. “La prossima serie mostra anche Diana, interpretata da Elizabeth Debicki, che parla del suo matrimonio “affollato” con il futuro re, un esplicito riferimento all’attuale regina consorte“.

Inventing Anna: quando l’apparenza ing-Anna davvero

Inventing Anna: quando l’apparenza ing-Anna davvero

Inventing Anna: quando l’apparenza ing-Anna davvero

È disponibile dall’11 febbraio 2022 la nuova serie Netflix Inventing Anna, scritta da Shonda Rhimes e prodotta dalla sua Shondaland, la casa di produzione che l’anno scorso a Natale ci ha regalato Bridgerton, la cui seconda stagione è in uscita sulla stessa piattaforma il 25 marzo.

L’intera storia è completamente vera, ad eccezione di tutte le parti che sono totalmente inventate”.

Con questa frase inizia ciascuna delle 9 puntate che compongono la miniserie televisiva di genere true crime dal titolo Inventing Anna, che in una settimana ha conquistato il pubblico di spettatori della piattaforma dello streaming Netflix.
Sin da subito capiamo che la confusione tra verità e inganno è la protagonista indiscussa della storia di una giovane ereditiera tedesca, sbarcata in America, e più precisamente a New York, che in poco tempo è riuscita inspiegabilmente a truffare l’élite della Grande Mela.
Tutta la serie parte e si regge su una sola, fondamentale domanda: chi diavolo è Anna Delvey?
Ereditiera o truffatrice? Donna d’affari o criminale? E se fosse tutto questo insieme?

Tratto da una storia “vera”

La vicenda che ruota introno ad Anna Delvey, conosciuta anche come Anna Sorokin (iniziamo con gli pseudonimi), è tratta da una storia vera, quella della “reale” Anna Delvey-Sorokin (“reale” che qui equivale a “inventata”, aiuto).
In breve, Anna si è spacciata per una ricca ereditiera tedesca per truffare molte persone dell’alta società, star e socialite, protagonisti della vita mondana di New York, ma soprattutto ricchi e straricchi. E non si è fermata qui, perché la scia di sangue (sarebbe meglio dire “di debiti”) si è estesa a numerosi hotel e diverse banche. Ma come ha potuto fare tutto questo? Come pagava i vestiti, gli eventi, i jet, le suite private, i massaggi, le vacanze, la bella vita che faceva se non aveva neanche un centesimo in tasca?
Seguendo le macerie che si è lasciata dietro si arriva dritti dritti in prigione, dove la ragazza viene sbattuta dopo l’ennesimo saldo insoluto di un albergo dove alloggiava. Anna è stata arrestata nel 2017 e poi condannata nel 2019 per 8 capi di imputazione (tra cui truffa, tentato furto e appropriazione indebita) a 12 anni di carcere. Uscita a febbraio 2021, è stata nuovamente arrestata sei settimane dopo perché il suo visto era scaduto.
La serie di Shonda Rhimes si basa sull’articolo “Come Anna (Sorokin) Delvey ha ingannato la gente di New York” scritto da Jessica Pressler del New York Magazine. La sua incredibile storia è stata già raccontata nel libro scritto dalla sua ex amica Rachel Williams, “My Friend Anna”, e verrà ancora tratta in una serie HBO che deve ancora andare in onda, in un documentario realizzato con la Bunim Murray Production a Los Angeles, in un libro della stessa Anna sul suo periodo trascorso in prigione, e in un podcast. Poi speriamo che Anna si lasci questa storia alle spalle.

La vera Anna Delvey-Sorokin a destra

Stiamo pagando una criminale mentre vediamo Inventig Anna?

Anna di certo non è una Lannister, perché la sua strada è lastricata di debiti insoluti. Durante il processo, si è stimato che la ragazza abbia rubato circa 275mila dollari.
A fronte di tutto ciò, il magazine statunitense Insider ha riferito che Netflix ha pagato a Sorokin la somma di 320mila dollari per avere i diritti della sua storia da adattare nella serie di Shonda Rhimes. Un bel gruzzolo da consegnare a una truffatrice. Per fortuna, quei soldi Anna li ha usati per iniziare a pagare i suoi debiti e i rimborsi. Si parla di 198mila dollari dovuti alle banche che il tribunale le ha imposto, 24mila dollari di multe statali, senza contare le spese legali a suo carico dopo la condanna. Speriamo che non finiscano in altri vestiti e vacanze di lusso, non sarebbe la prima volta. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, si dice, no?

 

Il giudizio sulla serie, senza spoiler

Tornando alla serie, Inventing Anna racconta una versione romanzata della vicenda. Il fatto che sia “tratta da una storia vera” non significa che sia meglio di una storia totalmente inventata. E questa in realtà lo è, perché – lo abbiamo ormai capito – in realtà Anna Delvey non esiste. O meglio, esiste ma non è quella che aveva portato tutti a credere che lei fosse. Confusi? Bene, vuol dire che siamo sulla strada giusta.

In virtù del “romanzato”, tratteremo Inventing Anna come ciò che è, cioè una serie con personaggi, trame e sottotrame, attori, costumi e tutto il resto.
La protagonista, Anna Delvey, è interpretata da Julia Garner, già vincitrice due Premi Emmy come miglior attrice non protagonista in una serie drammatica (Ozark), e notata dalla critica per la sua prova nel film The Assistant, per il quale ha ottenuto una nomina agli Independent Spirit Awards.
Il personaggio di Anna o si ama o si odia, ma più frequentemente suscita un misto tra i due estremi. All’inizio si è portati quasi ad ammirarla: la sua storia è avvolta nel mistero (un motivo che aumenta ancor di più l’attrattiva nei suoi confronti), emergono solo la sua acuta intelligenza, il fiuto per gli affari, il gusto per l’arte e la sua straordinaria e inspiegabile capacità di stregare tutti coloro che le stanno intorno. La sua ascesa sembra puntare molto in alto, mossa da un proposito che appare artistico e filantropico, quasi illuminato: la creazione della Fondazione Anna Delvey, un santuario super esclusivo per artisti selezionati e mecenati amanti dell’arte. Ovviamente, per realizzare questa visione le servono soldi, tanti soldi, sottoforma di donazioni o prestiti.
All’inizio quindi Anna sembra avere uno scopo, tanto grande quanto difficilmente realizzabile. Poi, man mano che procede la storia, la giovane socialite scade in quella che, brutalmente, chiameremmo “patetica scroccona”. Se ne sta lì in panciolle, ad aspettare che le venga approvato il prestito di 40 milioni che ha richiesto per la sua fondazione (a questo punto, chiara copertura per far finire i soldi direttamente nelle sue tasche). E nel mentre spende e spande soldi degli altri (ad esempio, della sua amica Rachel a Marrakkech), soldi che lei non possiede.
All’inizio della storia la troviamo già dietro le sbarre, e la sua avventura viene ricostruita tramite continui salti temporali dal presente al passato, sfruttando lo stratagemma delle interviste realizzate dall’altra protagonista della serie, la giornalista Vivian.


Il personaggio prende vita grazie all’attrice Anna Chlumsky. Vivian è una cacciatrice di storie implacabile. Incinta, tiene alla sua carriera forse più della nascitura in arrivo da lì a poche settimane. Farà di tutto per salvarla (la sua carriera, non la nascitura), dopo uno scandalo di presunto “cattivo giornalismo” che l’aveva vista coinvolta tempo prima. Per farlo si aggrappa alla storia di Anna, sicura di aver trovato qualcosa di importante e d’impatto da raccontare.
Nel corso delle puntate, Vivian ricostruisce il passato della misteriosa ereditiera-criminale incontrando e intervistando i suoi amici, le sue conoscenze, i suoi partner in affari, e creando un rapporto diretto con lei, andando a trovarla periodicamente in carcere (e comprandole riviste e mutande griffate).

“Vip è sempre meglio”

Inventing Anna ha spaccato quasi a metà la critica: alcuni apprezzano la forza e la portata sopra le righe dei personaggi, soprattutto femminili, su cui si basa la storia; altri tacciono la serie di non aver trovato un modo che funzioni davvero per far empatizzare lo spettatore con i vari personaggi, che appaiono così lontani, assurdi e sgradevoli.
Per non parlare delle accuse secondo le quali la serie dipinge Anna Delvey come una donna d’affari che ha mancato il successo, un personaggio brillante, quasi una sorta di modello da ammirare, nonostante le sue intricate truffe per ottenere milioni di dollari, le continue bugie ai suoi amici, lo sprezzo del valore della fiducia, e tutte le altre cose criminose che ha compiuto.
La recitazione di Garner e quella di Chlumsky è molto valida, l’ambientazione è quella di una New York alla Sex And The City (o forse sarebbe meglio dire, in questo caso, alla Scam And The City), anche se la trama presenta alcune debolezze in certi punti (perché nessuno conosce la ricca famiglia di Anna? Possibile che nessuno abbia pensato di googlarli? Va bene che stanno in Germania, ma non è mica Atlantide).

Il senso della vita è essere o possedere? Anna è entrambi, o meglio, vuole esserlo. Come un Mattia Pascal che vuol fuggire dalla sua vita mediocre (ops, piccolo spoiler), e si inventa un Adriano Meis che vince grandi somme al casinò di Montecarlo, frequenta belle donne e si da alla “bella vita”. Chi è arrivato in fondo al celebre romanzo di Pirandello sa come è andato a finire Pascal-Meis. Una sorte non così diversa da quella di Delvey-Sorokin, quasi vinta dal rischio di essere dimenticata da tutti, il suo più grande incubo, dietro le sbarre di una prigione. Ma Anna ha un’ultima chance per essere ciò che più brama: ricca e famosa. E Vivian (o è Shonda Rhimes?) è lì per quello.

In definitiva, forse dovremmo chiederci non “chi è Anna?”, ma “qual è la storia di Anna?”. E non “come ha fatto a rubare tutti quei soldi?”, ma “come ha fatto a non farsi beccare per così tanto tempo?”. Non vi resta che vedere la serie per scoprire le risposte.

Per altri consigli su serie tv da vedere, leggi qui.

Martina Costanzo

Sono Martina Costanzo, laureata in lettere moderne all'Università degli Studi di Milano e attualmente insegnante di italiano alle scuole medie e superiori. Oltre alla lettura, la mia grande passione è il cinema. Per IoVoceNarrante scrivo le recensioni dei film e delle serie tv di successo appena usciti, e classifico i migliori prodotti da vedere. Nessuno è mai rimasto deluso da un mio consiglio, provare per credere.

Zendaya e l’anti-film di San Valentino

Zendaya e l’anti-film di San Valentino

Zendaya e l’anti-film di San Valentino

Abbiamo amato Zendaya sin dai suoi albori a Disney Channel, abbiamo imparato ad apprezzarla in “The Greatest Showman” e nei film di Spiderman con Tom Holland, l’abbiamo venerata come una dea in “Dune” ed “Euphoria”. Ma l’avete vista nel film “Malcolm & Marie”?

La pandemia può aver portato via molte cose, ma di certo non la voglia di celebrare l’amore (o il consumismo). Anche quest’anno San Valentino incombe dietro l’angolo e, volenti o nolenti, le piattaforme streaming si riempiono di film e serie tv che virano immancabilmente tutti sullo stesso tema. Amore, amore, amore: romantico, tormentato, drammatico o a lieto fine, sembra di assistere alla stessa storia che si ripete in un loop infinito. Dov’è finita l’originalità? C’è qualcuno che si salva dai soliti sciupati cliché? Può Zendaya salvare la situazione, anche questa volta?

Premesse euforiche

Il primo trailer che annunciava l’uscita del film Netflix Malcolm & Marie risale all’8 gennaio 2021. La presenza di Zendaya e quella di Sam Levinson dietro le quinte ha mandato subito in fibrillazione i fan della serie tv Euphoria: Zendaya, infatti, non solo interpreta il personaggio di Rue Bennett nella serie, ma per la sua prova ha anche vinto il premio Emmy come miglior attrice protagonista di una serie drammatica. La scrittura di Levinson ˗ odiata o amata ˗ promette grandi cose, soprattutto con l’uscita dell’attesissima seconda stagione di Euphoria. Se vi siete persi dei pezzi, trovate qui un articolo per ricapitolare la situazione.

In Malcolm & Marie, accanto a Zendaya c’è John David Washington. Chi ha visto Tenet lo ha sicuramente riconosciuto: Washington interpreta il protagonista senza nome dell’ultimo film di Christopher Nolan.

Netflix ha acquistato i diritti del film per trenta milioni di dollari (ndr. Euphoria è distribuita da HBO, in Italia da Sky Atlantic e Now Tv). Malcolm & Marie è stato uno dei pochissimi film girati nel pieno della pandemia, quando la situazione era ancora critica, rispettando comunque le misure di sicurezza anti-Covid.

Per Netflix si tratta del secondo film recente girato in bianco e nero che trova spazio nei suoi cataloghi. A inizio 2021, infatti, è uscito il film Mank, diretto da David Fincher e ispirato, men che meno, al capolavoro di tutti i tempi Quarto potere. Nel caso di Mank, la scelta bicromatica è chiaramente volta alla rievocazione della vecchia Hollywood e dello stile del film di Orson Welles. Nel caso di Malcolm & Marie, invece, che significato ha la rinuncia al multicolore? È solo un vezzo stilistico o è una scelta che nasconde altro?

 

Trama? Una partita a tennis

La trama è estremamente essenziale e di fatto non genera alcuno sviluppo concreto, se non un lungo e infuocato dialogo tra i due personaggi in scena. La coppia è appena tornata a casa dopo la première del film di cui Malcolm è il regista. L’uomo è contento e su di giri perché la proiezione è andata molto bene. Marie, sua musa e fidanzata, appare fredda e distaccata.

Il casus belli è che Malcolm, durante il suo discorso, ha dimenticato di ringraziare Marie. Nel corso della discussione lo spettatore capisce che il film (nel film) parla di una ragazza tossicodipendente di colore. Marie accusa a più riprese Malcolm di essersi ispirato a lei e alla sua vita per creare il lungometraggio di cui va tanto fiero, senza però davvero riconoscerle alcun merito, vista la sua omissione (consapevole o meno) durante il discorso di ringraziamento.

Il litigio prosegue anche sul terreno amoroso, con una serie di accuse incrociate che toccano ogni aspetto del loro rapporto, dal morboso al passionale. Ci sono anche momenti felici, in questa lunga notte di guerriglia, ma sono rari e assomigliano più a un continuo coito interrotto che a una vera e propria tregua.

Malcolm & Marie racconta di una colossale litigata di coppia lunga una notte. Data l’idea di fondo su cui si basa (due persone e una casa), non ci si può aspettare un film movimentato, con tanti cambi di ambientazioni e diversi personaggi in scena. Men che meno se si pensa che è stato girato durante la fase acuta della pandemia, cosa che ha richiesto un numero limitatissimo di persone sul set e una location controllata dove poter girare.

Al di là dei limiti imposti dalle norme anti-Covid, il film è un intenso – e a tratti spaventoso – giro sulle montagne russe di un rapporto già di per sé complicato. Le variazioni dal pattern odio-amore sono poche, perché di fatto tutto il film si regge su questo, quindi vi è una ripetitività intrinseca che inizia a far sentire il suo peso dalla metà in poi. Come fare le stesse montagne russe dieci volte.

Malcolm & Marie non è solo questo. Nel lungometraggio di Levinson convivono due discorsi piuttosto evidenti. Il primo riguarda il rapporto tra i due personaggi, con i loro caratteri, il loro vissuto e le loro debolezze. Il secondo, invece, riguarda la creazione cinematografica, le implicazioni politiche, la critica. Ed è qui che nasce la polemica.

Sam Levinson ovvero l’uomo delle polemiche

Levinson non ha mezze misure e, di conseguenza, o lo si ama o lo si odia. La sua scrittura può piacere oppure no, ma in questo caso ha sollevato un vero polverone di critiche.

Malcolm è indubbiamente un personaggio nevrotico, narcisista, ossessivo e vendicativo, con un gigantesco ego da artista incompreso, e pensa che la propria arte sia tra le poche a essere “Vera Arte”. In tutto ciò, arriva a prendersela con una critica cinematografica (bianca) a suo avviso poco competente, che nella recensione del film ha voluto ridurre la sua opera a un discorso politico sulla razza (quando in realtà non lo è) solo perché Malcolm è un regista nero.

In molti hanno rivisto nel discorso del personaggio una risposta del regista Sam Levinson alla recensione che Katie Walsh aveva scritto sull’ L.A. Times in merito al suo precedente film (anche in Malcolm & Marie, Malcolm se la prende con “una dell’L.A. Times”). Ad assistere al suo monologo di frustrazione contro la critica di settore c’è Marie (interpretata da Zendaya), che viene a più riprese travolta da un rabbioso mansplaning.

Non solo a molti è sembrato che Levinson si volesse celare dietro al personaggio di Malcolm per regolare i propri conti aperti, ma lo fa tirando in ballo un’altra questione scottante, quella del colore della pelle e della politicizzazione delle pellicole. In moltissimo hanno accusato Levinson di aver messo in bocca a un attore nero un discorso da regista bianco privilegiato e frustrato che se la prende con un mondo in cambiamento che non riconosce più. Il protagonista nero è stato percepito come un escamotage per validare il discorso di Levinson: il regista nero che critica la critica per non voler fare critica sociale è Levinson che scalpita per non essere vincolato dalle critiche.

Qualcuno è arrivato ad additare Levinson come il white savior della situazione, perché nel film Malcolm sostiene con forza che un regista nero può benissimo fare un film che non sia affatto politico. Il problema è, ancora una volta, che la fonte di questo pensiero è un maschio bianco figlio del privilegio, e che vada a parlare di qualcosa che in teoria non gli compete.

Per fortuna, Malcolm & Marie è un film talmente ricco che può essere letto da una molteplicità di angolazioni. Un elemento imprescindibile è il personaggio interpretato dalla splendida Zendaya, che costituisce di fatto un contrappunto a tutto ciò che Malcolm rappresenta, nel lavoro come musa e nella loro relazione come amante. Marie ribatte a ogni invettiva, proponendo una visione opposta a quella del fidanzato, in un continuo ribaltamento di punti di vista che vuole portare acqua al mulino di entrambi.

Il personaggio di Marie possiede comunque una serie di tratti che la rendono per certi versi più vulnerabile: è più giovane, viene da un passato di tossicodipendenza, ha una serie di ferite ancora non rimarginate e sembra aggrapparsi a Malcolm come a un’ancora di salvezza dalla quale minaccia di staccarsi senza mai davvero farlo.

La tossicità è pervasiva e va a braccetto con la dipendenza. Non quella dai farmaci, che sembra ormai essere un residuo del passato, ma quella emotiva e affettiva che inquina il rapporto tra i due protagonisti. La mascolinità tossica di Malcolm e la dipendenza di Marie a tutto ciò che è tossico è un serpente che si morde la coda non diverso da quello riscontrabile in altre storie e in altri film, ma qui portato alle estreme conseguenze (come piace fare a Levinson).

Conclusioni

Al di là di tutto ciò che ogni spettatore può leggere in questo film, la regia e gli attori sono di grande qualità. La fotografia è artistica e visivamente evocativa, sfrutta angolazioni e riflessi per sottolineare la bipartizione dei due protagonisti. Perché in bianco e nero? È bello pensare che l’assenza dei colori voglia spingere lo spettatore a concentrarsi sull’essenza delle cose, sulle emozioni, e non sui mille stimoli visivi che normalmente pervadono (quasi invadono a volte) una normale pellicola.

Zendaya e Washington sono a dir poco strepitosi (lei era stata nominata ai Critics Choice Award come miglior attrice per questo film). Ciascuno di loro è riuscito in modo eccellente a dar vita ai personaggi, donando loro tutto ciò che potevano offrigli, urla, lacrime e dolore soprattutto. La potenza dei dialoghi è amplificata dalle loro interpretazioni travolgenti, tanto che in alcuni punti sembrano bucare lo schermo. Una buona fetta dell’intensità che può vantare questo film è merito loro.

La colonna sonora è curata da Labirinth come in Euphoria, anche se è di tutt’altro stampo. La cosa curiosa è che in alcuni punti sembra che le canzoni parlino per i personaggi e dicano ciò che loro non riescono a pronunciare.

Polemiche o non polemiche, Malcolm & Marie è un bel film per chi lo sa apprezzare (e per chi non si aspetta la solita commediola romantica di un’ora e mezza). Probabile che alcuni lo troveranno troppo statico, pesante, costruito, forzato e perché no pretenzioso, autoreferenziale e fine a sé stesso. Ma vale una visione, anche solo per fare l’esperienza di venire travolti da un fuoco incrociato senza pietà, in un rapporto che è un campo minato dove a ogni passo la terra può esplodere sotto i piedi. Cast e regia sono eccellenti, e la sceneggiatura non lascia indifferenti, come si è visto.

Per chiudere la questione sulle accuse, uno scenario altrettanto probabile è che Levinson abbia scritto un film come questo proprio per sollevare certe critiche che, puntualmente, sono arrivate. È indubbio che sia riuscito a costruito un corposo e cerebrale discorso non privo di fascino, nella sua complessità.

Anche se Malcolm dice che un buon film non deve avere per forza un messaggio, noi possiamo estrapolare un monito molto concreto, valido per questo San Valentino e per quelli a venire: non dare mai nessuno per scontato. O preparatevi alla notte più lunga della vostra vita, parola di Zendaya.

Martina Costanzo

Sono Martina Costanzo, laureata in lettere moderne all'Università degli Studi di Milano e attualmente insegnante di italiano alle scuole medie e superiori. Oltre alla lettura, la mia grande passione è il cinema. Per IoVoceNarrante scrivo le recensioni dei film e delle serie tv di successo appena usciti, e classifico i migliori prodotti da vedere. Nessuno è mai rimasto deluso da un mio consiglio, provare per credere.

Su “Don’t Look Up”, sulla complessità e sulla comunicazione

Su “Don’t Look Up”, sulla complessità e sulla comunicazione

Su “Don’t Look Up”, sulla complessità e sulla comunicazione

Cast di altissimo livello e satira puntuta sono gli ingredienti della produzione originale Netflix “Don’t Look Up” che ha diviso in due il pubblico. Film profetico o film trash poco importa: c’ è molta attualità e molto su cui riflettere. 

Don’t Look Up racconta di un astronomo (un Leonardo DiCaprio in forma smagliante) e della sua dottoranda (Jennifer Lawrence) che scoprono una cometa che nel giro di 6 mesi impatterà con la terra. Il suo diametro sarà la causa certa dell’estinzione umana: la cosa più logica è quella di avvisare il presidente degli Stati Uniti (Maryl Streep) per dare la notizia al mondo. Ma le cose non vanno come i due scienziati si aspettano…

Se voleste guardarlo solo per la trama, fermatevi: la storia è molto banale, a tratti prevedibile, per niente emozionante e nemmeno sconvolgentemente divertente. Eppure questo film merita di essere visto e, addirittura potremmo arrivare a dire che non poteva arrivare in un momento migliore. 

Tralasciando le riserve e l’amaro in bocca che la pellicola ha lasciato a tanti spettatori – cfr. Ariana Grande che intima al pubblico “get your head out of your ass”, le scene post-credit evitabili, o la simulata risposta dei social all’evento catastrofico che vedeva coinvolti praticamente solo utenti americani a rimarcare ancora una volta la tendenza tipicamente americana all’autoreferenzialitàDon’t Look Up ha stimolato inevitabili riflessioni e sulla complessità della comunicazione e sulla comunicazione della complessità. 

Il cardine attorno cui ruota tutto il discorso è una catastrofe imminente, prevedibile e, con le dovute accortezze, arginabile. Bisogna, in sostanza, decidere, operare delle scelte atte a risolvere o meno la situazione: ma in un contesto così veloce entrano in gioco diverse questioni, economiche, politiche, ecc. che finiscono per offuscare il vero obiettivo finale e cioè uscire dalla situazione di crisi. 

Tutto si polarizza e si estremizza in maniera iperbolica e, alla fine, nessuno davvero dice la verità. Dire che c’è il 99,7% di possibilità che la cometa impatti è diverso dal dire che c’è un 100% di possibilità: difatti si tratta a tutti gli effetti di una menzogna – minuscola e a fin di bene, ma pur sempre una menzogna. Dire che la possibilità che la cometa impatti è 0%, è anche questa una non verità, ma ben diversa dall’altra. Eppure, quando arrivano al pubblico, entrambe sono menzogne e sono sullo stesso piano e suscitano il medesimo sdegno, rabbia e paura. Le possibilità di scelta quindi si presentano come tante sfumature di colore, ma nel momento in cui vengono comunicate al mondo improvvisamente hanno un solo colore. 

Se una questione è complessa e seria, andrà comunicata al pubblico con lo stesso zelo e serietà con cui la si è scoperta e analizzata. Chiedere all’astronomo di intervenire in uno show per bambini per arrivare al pubblico o ingaggiare una pop-star di fama internazionale per focalizzare l’attenzione sull’argomento, è esattamente come cantare una canzoncina pro-vax sulle note di Jingle Bells: l’argomento viene sminuito, chi comunica si ridicolizza e chi ascolta si sente preso in giro. 

Se si pretende che il pubblico agisca con serietà, si preoccupi attivamente della situazione in cui è immerso – che sia una catastrofe climatica o epidemiologica poco importa – e agisca nella maniera più alacre possibile, il primo passo lo deve fare chi comunica. Del resto “people who claim to be serious should be serious” diceva Ben Goldacre. 

Prendiamo quindi la pellicola come un invito a non fidarci di tutto quello che ci viene detto e, ancora meno, delle modalità con cui ci viene detto. La complessità, per chi comunica e per chi riceve l’informazione, non deve essere percepita come un ostacolo che va aggirato, o peggio, evitato nel modo più furbo, remunerativo e celere possibile; piuttosto dovrebbe essere un modo per co-costruire e creare fiducia da entrambe le parti – anche a costo di rimetterci tempo ed energie

Giorgia Grendene

Sono Giorgia e amo le cose vecchie e polverose (come la mia laurea in lettere classiche), le storie un po’ noiose che richiedono tempo per essere raccontate e apprezzate, i personaggi semplici con storie disastrose. Mi piacciono il bianco e nero e il technicolor molto più del 4K, i libri di carta molto più degli e-book, il salato molto più del dolce, i cani molto più dei gatti.