Il nome della rosa: verità capovolte e intersezioni letterarie

Il nome della rosa: verità capovolte e intersezioni letterarie

Il nome della rosa: verità capovolte e intersezioni letterarie

“Il nome della rosa” è certo tra i romanzi gialli più letti dell’ultimo ventennio del Ventesimo secolo, incalzante, avvincente, misterioso. Un capolavoro di scrittura, cultura letteraria e riflessione filosofica.

Pubblicato nel 1980, Il nome della rosa è certamente il romanzo più celebre scritto da Umberto Eco, scrittore, semiologo, traduttore e medievista italiano, intellettuale di spicco della scena letteraria italiana novecentesca. Nota è la trama dell’opera, giallo storico ambientato tra i cupi ambienti di un’abbazia benedettina sull’Appennino toscano. Il suo protagonista è il frate Guglielmo da Baskerville, che insieme all’allievo Adso da Melk, si reca presso il monastero per discutere presso un congresso di francescani in merito alle proprie posizioni pauperistiche. La vicenda si svolge nel pieno clima medievale, nel 1327, tra inquisitori, congressi papali e scontri tra le correnti interne alla Chiesa.

È durante la permanenza di Guglielmo presso l’abbazia che si verifica una serie apparentemente inspiegabile di omicidi di confratelli. Omicidi probabilmente giustificati dalle lotte di potere intestine all’abbazia, e la cui soluzione sembra risiedere in un libro nascosto tra gli anfratti della biblioteca del monastero. Ma la biblioteca è un intricato labirinto dalla forma ottagonale, la cui organizzazione planimetrica è nota solo al bibliotecario e al suo aiutante Berengario. Le indagini si interrompono all’arrivo della delegazione papale, mentre le morti si accrescono misteriosamente giorno dopo giorno.

Il misterioso libro si scopre essere un manoscritto su commedia e riso, la Poetica di Aristotele, cosparso di una velenosa sostanza che provoca la morte immediata al contatto per impedirne la lettura e la divulgazione. È il monaco Jorge a custodirlo gelosamente, il quale nella fuga da Guglielmo per precludergli l’accesso al libro, rovescia un lume provocando un incendio che divampa nella biblioteca. I due protagonisti, Guglielmo e Adso, riescono a scampare, lasciando l’abbazia presso la quale frate Guglielmo farà ritorno solo molti anni dopo.

L’opera è un romanzo storico che sfrutta l’espediente del manoscritto ritrovato. Alcuni interessanti aspetti della sua stesura sono il fatto che le descrizioni dei personaggi della vicenda siano un omaggio ad Arthur Conan Doyle e al suo celebre personaggio: Sherlock Holmes, che Guglielmo a tratti ricalca nelle vesti di un acuto investigatore. Allo stesso tempo Adso sembra ricordare Watson, desideroso di apprendere l’arguzia del maestro, ma distratto e poco perspicace.
Anche nei luoghi di ambientazione si possono cogliere alcuni rimandi. Lo scriptorium del monastero fa diretto riferimento all’abbazia di San Colombano presso Bobbio, e la biblioteca richiama a tratti quella situata nei pressi dell’abbazia di San Gallo in Svizzera, entrambi poli di rilievo nella cultura bibliotecaria e manoscritta medievale. Un aspetto curioso riguarda il misterioso manoscritto responabile di intrighi e morti: la Poetica aristotelica, infatti l’opera andò perduta secoli addietro, come poteva dunque trovarsi presso la biblioteca? La menzione ad Aristotele è voluta e si lega alla figura di Dante Alighieri e all’impianto tolemaico-aristotelico nel quale lo scrittore fiorentino articola la sua Commedia, infatti di commedia parlava proprio l’opera di Aristotele. Il poema dantesco fa da riferimento per via dei suoi quattro livelli di lettura (letterale, allegorico, morale, anagogico), livelli attraverso i quali può essere letta la stessa opera di Eco; livelli che si adattano ad ogni tipo di lettore e che rendono possibile un superficiale contatto con l’opera fino alla penetrazione nei suoi più profondi significati.

L’opera ripropone infatti a più riprese il complesso tema della costante e onnisciente presenza di Dio nel mondo. Concezione che porta ad una messa in dubbio dell’idea stessa di verità e le sicurezze ad essa legate. Guglielmo affronta una profonda crisi intellettuale nell’interrogarsi su quanto sia determinato e determinabile dalla ragione umana, prima tra tutte la sua, e quanto da Dio, scardinando l’idea stessa di verità. Un apparente sovvertimento d’ordine che si fa metafora degli anni immediatamente precedenti a quelli della stesura del romanzo, i moti sessantottini e la concitata situazione politica degli anni ’70, quasi a fare della riflessione teologica uno strumento di indagine delle dinamiche socio-politiche contemporanee a Eco. Di qui Il nome della rosa, nei tempi degli omicidi della “Rosa Rossa”, come quello di Moro.

In una struttura di rimessa in riesame di tutto il reale, la citazione interna al testo dal De contemptu mundi: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus assume un il valore di chiave di lettura dell’opera. Non restano che nomi, significanti che perdurano nel tempo opponendosi a una transitorietà delle cose che è connaturata nel loro stesso esistere.

Il romanzo, fatto di rimandi interni ed esterni che spaziano dalla tradizione letteraria alla società contemporanea, è un intricato labirinto dove ogni supposizione sembra inspiegabilmente fallace, tutto può capovolgersi. Tra le pagine il lettore è catturato da un giallo che non sembra avere soluzione, si perde tra i labirinti fisici dell’abbazia e psicologici dell’indagine. Fino alle ultime pagine è lasciato con il fiato sospeso, in un senso di precarietà, intento a ripercorrere le proprie supposizioni e chiedersi chi davvero sia l’assassino, qual è la verità, cos’è la verità.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

La noia: romanzo e paradigma novecentesco

La noia: romanzo e paradigma novecentesco

La noia: romanzo e paradigma novecentesco

Da Leopardi a Schopenhauer, da Svevo a Joyce, la condizione dell’uomo moderno sembra alimentarsi di un sentimento di noia che priva l’individuo di ogni slancio vitalistico, condannandolo ad un taedium vitae perenne e incomunicabile. 

La noia: una vicenda incompiuta

“Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità”. Dino, è un giovane artista appartenente alla nobiltà romana, si è da poco trasferito in via Margutta, dove ha sede il suo fatiscente studio da pittore. Eppure la novità dello studio, la vivace realtà romana e la pittura non sembrano alleviare quella “noia” di cui afferma soffrire sin dai tempi dell’adolescenza.
A breve distanza dalla notizia della morte del pittore e vicino di studio Mauro Balestrieri, si presenta alla porta di Dino Cecilia, una ragazza tanto bella quanto inafferrabile, un tempo amante e modella del vecchio pittore. Tra i due sorge presto una relazione, ma come ogni aspetto nella vita di Dino, anche la bella Cecilia, istintiva e animalesca nel suo vivere nella mera ottica di soddisfare esigenze fisiche, gli viene rapidamente a noia. Una mattina Dino decide allora di darle appuntamento per porre fine alla relazione, ma Cecilia non si presenta, l’evento, l’impossibilità di possedere la ragazza, fa da miccia ad un’inarrestabile gelosia che travolge Dino.
Sempre più tormentato per la donna, Dino decide di pedinarla, venendo a conoscenza degli incontri della giovane con un altro uomo, l’avvenente attore Luciani. Nella speranza di placare la tormentata gelosia per Cecilia, Dino stabilisce al termine di ogni appuntamento di offrire denaro alla ragazza nella speranza che questa assuma ai suoi occhi i panni di una prostituta, indesiderabile e abbandonabile. Paradossale agli occhi di Dino, turbato e afflitto dall’incontrollabile gelosia, è il fatto che tanto più la giovane Cecilia mente e lo tradisce, tanto più lui se ne innamora.
Il pittore fa un ulteriore tentativo: forse, se si fosse sposato con Cecilia, la noia del matrimonio gli avrebbe portato tedio anche verso la giovane. Ma Cecilia ha bisogno di tempo per pensarci, e questo tempo viene trascorso a Ponza insieme a Luciani, in una vacanza pagata con il denaro di Dino.
Dino, consapevole di aver perso ormai ogni dignità e ragione, tenta il suicidio schiantandosi in auto contro un platano. L’esperienza ravvicinata della morte lo porta ad una svolta: non può cambiare la propria ossessione per Cecilia ma può solo accettarla, attendendone il ritorno per poterla incontrare ancora.

Uno squarcio sulla condizione borghese

Pubblicato nel 1960 presso Bompiani, La noia è certamente tra i romanzi più rappresentativi della poetica di Alberto Moravia, in continuità alla linea assunta già ne Gli indifferenti. A essere messo in scena è prima di tutto il problematico rapporto con la realtà della borghesia novecentesca, una borghesia in sfacelo, aggrappata a valori quali sesso e denaro.
Dino è un giovane pittore, tanto ricco quanto disincantato dal lusso. Ogni aspetto della sua esistenza gli dà noia, si aggrappa al sesso come entità su cui esercitare un possesso, ed è proprio questa concezione distorta che lo porta ad una svolta radicale nella propria vita. L’impossibilità di possedere Cecilia lo spinge a desiderare la noia, ma la noia è tanto inappagante quanto l’incapacità di lasciare davvero andare Cecilia, anzi: più cerca di liberarsene, più se ne innamora.

Filo conduttore dell’opera è quindi l’incomunicabilità, prima di tutto tra i due amanti: l’una del tutto aliena alla relazione, l’altro intenzionato a disinnamorarsi. Una storia d’amore che ruota non intorno all’affezione ma alla noia. Quello di noia è un concetto vago e indefinito, che ha bisogno di essere concretato in immagini: la tela bianca dell’artista annoiato dalla pittura, il disinteresse di una giovane a qualsiasi relazione che vada oltre una dimensione di fisicità, i vani tentativi di un uomo di porre fine ad un legame che tanto lo immerge nella vita quanto lo logora. La noia è inafferrabile, come Cecilia.

Il finale e il messaggio

Una possibile via di fuga, o forse alleviamento della propria condizione, si apre nel finale: accettare di convinvere con l’inafferrabile. L’epilogo di Moravia sembra quasi riportare alla mente quel pendolo che Schopenauer faceva oscillare tra dolore e noia, in una perenne condizione di instabilità fatta di rapidi barlumi di vitalità piena.

In questo senso Moravia descrive con abilità quel sentimento di male di vivere che domina la scena artistico-letteraria di tutto il Novecento europeo e che in un certo senso tocca ancora l’uomo contemporaneo. Andamento prosastico e apparentemente piatto delineano i contorni di una vicenda che scava nel profondo dell’animo umano per cogliere quello stato di incomunicabilità che permea l’uomo moderno circondato da una realtà piena di valori vuoti e di legami labili.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Murakami: la debolezza dell’esistere

Murakami: la debolezza dell’esistere

Murakami: la debolezza dell’esistere

Murakami Haruki, nato il 12 gennaio 1949 e fra i massimi esponenti della letteratura contemporanea giapponese, ha saputo cogliere magistralmente le inquietudini dell’individuo contemporaneo.

Murakami Haruki, cresciuto a Kobe, si laurea presso l’università Waseda di Tokyo nel 1975. A partire dal 1986 compie una serie di viaggi in Europa, fra la Grecia e l’Italia, per poi trasferirsi negli Stati Uniti, dove rimane fino al 2001.

Le esperienze vissute e le sensazioni provate da parte di un animo sensibile e tendente all’onirico risuonano con forza nei suoi romanzi e racconti, i quali riescono magistralmente a riassumere le inquietudini di una generazione di giapponesi vissuta nel benessere galoppante del Secondo dopoguerra, un periodo ancora memore della morte causata dal lancio delle due bombe su Hiroshima e Nagasaki.

Murakami, più volte in lizza per il Premio Nobel, ha saputo incarnare l’inquietudine dell’individuo contemporaneo: pur essendo tale inquietudine informe, di difficile inquadramento, un po’ come l’ingombrante chora platonica, essa aleggia sui personaggi dei romanzi, condizionandone le azioni nella costante ricerca di qualcosa che appare indefinito, labile come il ricordo, caduco come un autunno precoce. I personaggi delle opere di Murakami sono intimamente consapevoli che il mondo va come deve andare, e che difficilmente tale corso possa essere interrotto o anche solamente sviato.

In La fine del mondo e il paese delle meraviglie, edito nel 1985 e tradotto solo nel 2002 in italiano, un misterioso colonnello, abitante di una città immaginaria e metafora dell’interiorità umana, si fa portavoce dell’ineluttabilità del reale:

Se proprio vogliamo, è colpa di come è fatto il mondo. Però non lo si può cambiare. Come non si può invertire il corso di un fiume.

Il protagonista e voce narrante del romanzo, attratto da una ragazza che lavora nella biblioteca di questa città immaginaria e allegorica, apprende che quest’ultima, come tutti gli abitanti della città, non ha il cuore. Il cuore non è solo un organo fondamentale alle funzioni vitali di un corpo, ma “è qualcosa di più profondo, di più forte. E di più contraddittorio.”. Il cuore è il fulcro dei sentimenti, della psiche umana, dell’essenza stessa dell’individuo che non abdica alla propria naturale tendenza all’amore:

E lei dovrà imparare ogni cosa da solo. Questa è una città perfetta, mi spiego? Il che significa che ha tutto, tutto. Ma se non riuscirà ad assimilarlo in maniera adeguata, per lei sarà come non avere nulla. Il nulla perfetto. (…) Gli altri le potranno dare un certo numero di informazioni, ma quello che avrà imparato da solo se lo porterà in corpo. E la salverà. (…) interpreti il significato delle suggestioni che riceverà dalla città. Usi anche il suo cuore, finché ne ha uno.

Il cuore, sede dei sentimenti, è la cifra che rende tale un individuo: di fronte al pericolo del nulla contemporaneo (che appare, tuttavia, inevitabile), del benessere come unico senso dell’esistenza, il cuore è l’unica antitesi ponibile, pur essendo la via del cuore ostica e difficile da seguire.

Altro celebre romanzo di Murakami, Nel segno della pecora del 1982 racconta le vicende di un agente pubblicitario abbandonato dalla moglie e al quale viene affidato un compito assai bizzarro: il ritrovamento di una pecora.

Ricorrendo ad uno stile dal taglio onirico, in cui le vicende si intrecciano in un vorticoso susseguirsi che dal reale volge al surreale e viceversa, la pecora, che ha una macchia a forma di stella sulla schiena, diventa simbolo della ricerca del singolo; tale ricerca appare tuttavia nebulosa:

– Anche a me ogni tanto vien voglia di partire alla ricerca di qualcosa, – proseguì lui, – ma prima dovrei capire cos’è che vorrei trovare. Mio padre ha cercato quella pecora per tutta la vita, e ancora adesso continua a farlo. (…) Così ho finito col convincermi che la vita sia proprio questo. Una lunga ricerca.

Ecco che l’individuo, secondo Murakami, rischia di perdersi, manca una bussola che lo guidi e che indichi una direzione certa. Nella totale incertezza del reale e col rischio di un ritorno anzitempo al nulla, i tentativi di una ricerca di senso si susseguono all’insegna di una sola certezza: la debolezza umana e il poco tempo a disposizione:

– Debolezza nei confronti di cosa?

– Di tutto. È una debolezza morale, mentale…è una debolezza dell’esistenza stessa.

Risi. Mi venne spontaneo.

– Messa così, chi è che non è debole? Lo siamo tutti!

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Alice in Wonderland: tra le origini e le curiosità di un mondo fantastico

Alice in Wonderland: tra le origini e le curiosità di un mondo fantastico

Alice in Wonderland: tra le origini e le curiosità di un mondo fantastico

Pochi nomi alla sola pronuncia hanno la capacità di rievocare storie intere: Alice è sicuramente uno di questi. Non si tratta della quantità delle opere dedicate a quel nome, ma la loro grandezza.

Può darsi che le opere più grandi non nascano necessariamente con l’apprensione di esserlo e di certo, quando Lewis Carrol raccontò di una ragazzina che inseguendo un coniglio bianco si ritrovò in un sottosuolo fantastico, non avrebbe mai immaginato che la sua storia sarebbe stata tra le più tradotte al mondo e tra le più citate dopo Shakespeare. Era il 1951 quando la casa cinematografica di Walt Disney creò sulla base del suo romanzo l’omonimo film d’animazione: Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Da allora insieme all’incredibile successo della pellicola, credenze, accuse, miti e curiosità hanno avvolto il capolavoro dell’età vittoriana, alimentandone la sua iconicità. Eccone alcuni tra i più discussi…

 

La vera identità di Alice

Pubblicato per la prima volta nel 1865, pare che il romanzo sia nato “in un soleggiato pomeriggio” nel corso di una gita sul Tamigi che Lewis Carroll (pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson) trascorse con le tre giovani figlie dell’amico accademico Henry George Liddell: Alice, Edith e Lorina. Mentre il canonico Robinson Duckworth remava, la piccola Alice Liddell di appena dieci anni chiese a Carroll di raccontarle una storia. Il reverendo l’accontentò e intrattenne le sorelle con una serie di racconti strampalati e avventure vissute da una di loro, Alice. Tra i mondi creati dalla fervida immaginazione di Lewis ve ne fu uno in particolare che catturò l’ammirazione della piccola Liddell: una giovane ragazza cade nella tana di un coniglio e si ritrova in un sottosuolo fatto di paradossi, pozioni, animali vestiti da uomini, carte da gioco che camminano, duchesse impazzite, gatti parlanti, pronta a vivere un’avventura unica in un mondo sconosciuto che appartiene ai sogni e all’inconscio.  Alice Liddell gli chiese di scrivere un libro su questa storia, fino a che lui non l’accontentò. Nel novembre 1864, due anni e mezzo dopo quella richiesta di Alice, Carroll completò una versione intitolata Le avventure di Alice sottoterra e fu il regalo per Alice del Natale del 1864. Il libro ebbe anche un seguito: Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, pubblicato nel 1871 nel quale è contenuta una poesia le cui lettere iniziali compongono l’acrostico del nome completo della bambina: Alice Pleasance Liddell:

A boat beneath a sunny sky,

Lingering onward dreamily
In an evening of July–

Children three that nestle near,
Eager eye and willing ear,
Pleased a simple tale to hear–

Long has paled that sunny sky:
Echoes fade and memories die.
Autumn frosts have slain July.

Still she haunts me, phantomwise,
Alice moving under skies
Never seen by waking eyes.

Children yet, the tale to hear,
Eager eye and willing ear,
Lovingly shall nestle near.

In a Wonderland they lie,
Dreaming as the days go by,
Dreaming as the summers die:

Ever drifting down the stream–
Lingering in the golden gleam–
Life, what is it but a dream?

 Nonostante il riferimento esplicito e la dedica ad Alice Liddell, le illustrazioni della protagonista nei romanzi e nelle opere cinematografiche mostrano una figura diversa rispetto a quella della bambina. La differenza più evidente è sicuramente il colore dei capelli: la bionda chioma di Alice come la ricordiamo dai grandi schermi è ben lontana dalla mora Liddell ed è ispirata ad un’altra bambina: Mary Hilton Badcockpour.

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Le accuse di pedofilia a Lewis Carroll

La passione di Dodgson per le ragazze e le bambine, la sua collezione di foto, alcune  fotografie che lo stesso Dodgson scattò e altri elementi della sua biografia hanno da lungo tempo portato alla nascita di teorie sulla sua presunta pedofilia, sebbene pochi siano arrivati a suggerire che l’autore abbia mai oltrepassato i confini dell’amore platonico per le sue giovani amiche. In realtà le fotografie e i ritratti di bambine con il corpo scoperto non erano un’eccezione in età vittoriana, anzi, lo stesso Carroll definì la fotografia come lo strumento ideale per esprimere la sua filosofia personale di perfezione morale, estetica e fisica in antitesi alle rigide regole sul comportamento che regnavano nell’età vittoriana. Ad alimentare questo scandalo è stata la brusca interruzione dei rapporti tra l’autore e la famiglia della piccola Alice cui Carroll era molto legato. I reali motivi di questo allontanamento restano ignoti e negli anni hanno portato a diverse teorie, tra cui quella dell’accusa di pedofilia. Complici di queste supposizioni sono anche le sette pagine mancanti dai diari di Lewis che coprono il periodo compreso tra il 27 e il 29 giugno 1863 e quello tra il 24 maggio e il 6 giugno 1879, i presunti periodi in cui ci fu l’allontanamento dalla famiglia. D’altro canto, il rapporto tra Lewis Carroll e Alice da sempre incuriosisce la critica, spaccata tra chi sostiene le accuse allo scrittore e chi difende la reputazione di un uomo che non ha mai dato una interpretazione erotica dell’infanzia. La speculazione sulla natura dei suoi rapporti con i bambini è negli anni naufragata per assenza di prove e oggi Charles Dodgson è stimato come uno degli autori più fantasiosi e abili del suo tempo.

 

Le innumerevoli identità nascoste dei personaggi

Complesso, enigmatico, surreale: il romanzo di Lewis Carroll è stato uno spartiacque nella letteratura d’infanzia del secolo scorso. La creazione di un mondo dove più che mai “tutto è possibile” ha suscitato non scarse attenzioni da parte della critica e di studiosi che negli anni hanno cercato di interpretare le ragioni, le metafore e i significati di uno degli universi più fantastici di sempre. Tra gli studi sull’inconscio, il parallelismo con le droghe e le correnti irrazionaliste, alcune interpretazioni di questo grande classico si soffermano sulle identità nascoste dei personaggi e sulla possibile metafora della favola con le fasi della crescita. Alice è una bambina spensierata, ribelle e come tale, non ama seguire le regole. Rappresenta chiaramente l’infanzia. In antitesi il Bianconiglio rappresenta i genitori: sempre di fretta, perennemente in contrasto con la protagonista; è sfuggente e ansioso, ma soprattutto è carico di stress. In questo quadro la Regina di Cuori non può che essere la personificazione della rabbia. Anche lei, come il Bianconiglio, rappresenta il mondo degli adulti. Allo stesso tempo la sua famosa esclamazione “Tagliatele la testa!” è un’accusa ai politici di quel tempo che spesso prendevano decisioni troppo drastiche e senza senso. Il Brucaliffo è chiaramente il simbolo di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Non a caso, infatti, dopo aver parlato con Alice, si trasforma in una farfalla. È un personaggio inizialmente molto scostante con la protagonista, ma allo stesso tempo non si esime dall’esprimere perle di saggezza. Infine abbiamo lo Stregatto: astuto, disinteressato e super partes. Che sia la personificazione dell’autore? O forse, più semplicemente, siamo tutti matti.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

IoVoceNarrante? La mia penna.

Un vento leggero: il femminismo di Isabel Allende

Un vento leggero: il femminismo di Isabel Allende

Un vento leggero: il femminismo di Isabel Allende

Isabel Allende è senza alcun dubbio una delle scrittrici più amate al mondo. Cilena, naturalizzata statunitense, l’autrice latino-americana ha saputo trasformare le sue parole in un’arma contro una società che non sta al passo con i tempi.

Femminista sin dalla nascita, l’Allende racconta la sua storia e così quella di tante, troppe donne che leggendola si uniscono alla sua voce: è il suo ultimo romanzo “Donne dell’anima mia”.

Gli inizi

Nata a Lima in Perù il 2 agosto 1942, Isabel Allende comincia già da bambina a immaginare i luoghi e i personaggi che poi diventeranno i protagonisti dei suoi romanzi. La madre, Francisca Llona Barros, divorzia dal padre, Tomás Allende, quando la scrittrice ha solo tre anni e Isabel non conoscerà mai suo padre. Sola, con tre figli e senza alcuna esperienza lavorativa, la madre si trasferisce a Santiago del Cile insieme ai fratelli grazie all’aiuto del cugino del padre, il futuro presidente del Cile: Salvador Allende. Vengono ospitati a casa del nonno e il ricordo di questi luoghi sarà poi evocato nel primo romanzo della scrittrice, La casa degli spiriti, nato da una lunga lettera che Isabel scrisse proprio al nonno. Bambina inquieta e già cittadina del mondo, si trasferisce in Bolivia, successivamente in Europa e poi in Libano sempre a causa del lavoro diplomatico del marito della madre. Nel 1959 torna in Cile e tre anni dopo sposa Michael Frias con cui avrà due figli, Paula e Nicolàs. La sua intelligenza, acutezza e forza emergono sin da giovane nel suo lavoro di giornalista che la farà emergere ben presto come una figura coraggiosa e rivoluzionaria. Dopo il colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973, si trasferisce nel 1975 a Caracas, per poi andare a vivere definitivamente negli Stati Uniti dove conosce il suo secondo marito William Gordon.

Collezionista di ricordi

Negli anni trascorsi in America comincia la fase più prolifica della scrittrice. È il periodo in cui si delinea il suo stile caratteristico, che unisce un linguaggio giornalistico e il realismo magico, la metafora e la brutalità, la responsabilità politica e storica, il romanticismo e la magia, il tutto condito da un’acuta lucidità e da un senso dell’umorismo dolce e indulgente. Le sue opere sono state classificate nel movimento letterario conosciuto come Posboom: sono o sembrano autobiografiche, ma lei preferisce definirle “memorias”, ovvero “collezioni di ricordi più vicine alla finzione che alla realtà”. Isabel Allende non ha dimostrato di essere soltanto una scrittrice, ma una forza della natura e con il suo talento ha costruito un meraviglioso mondo immaginario dove tutto è possibile oltre le lingue, le religioni, i confini geografici e culturali.

Donne dell’anima mia

“Mujeres del alma mía” edito da Feltrinelli con il titolo Donne dell’anima mia è l’ultimo libro terminato dall’autrice nel marzo del 2020.Un originale diario della ribellione all’autorità maschile, ma anche un manifesto per frammenti e memorie, a partire dalla condizione della madre Panchita (così chiamata affettuosamente) abbandonata dal marito in Perù insieme ai suoi tre figli.

Risultato immagine per isabel allende e  panchita

Con il suo Donne dell’anima mia l’Allende cerca di dare il suo contributo alla lotta contro la violenza sulle donne, frutto di quella cultura del patriarcato di cui lei stessa è stata testimone. Con un discorso informale, come lei stessa lo definisce, ci racconta la storia di sua madre e ci parla del femminismo sviluppatosi in lei già nella primissima infanzia. “Non esagero quando dico che sono femminista dai tempi dell’asilo”. Isabel Allende nel suo romanzo afferma di non aver bisogno di inventare le protagoniste dei suoi libri, donne forti, decise: ne è sempre stata circondata. Sono donne sfuggite alla morte, alcune hanno subito traumi indelebili, altre hanno perso tutto e nonostante questo ce la fanno. Sono donne che si rifiutano di essere trattate come vittime, hanno dignità e coraggio, si rialzano, vanno avanti e lo fanno senza perdere la capacità di vivere con amore, compassione, gioia.

Il patriarcato è di pietra, il femminismo è fluido

A soffrire di più di quella condizione era l’Allende bambina, come se avesse capito già tutto di quella cultura del dominio dell’uomo sulla donna, che porta ancora il Cile ad essere uno dei paesi al mondo con la più alta incidenza di violenza sulle donne. Un paese in cui solo di recente grazie a Michelle Bachelet, la prima presidente donna, è stato garantito l’accesso facile e gratuito agli anticoncezionali, sono state promulgate leggi di protezione a favore delle donne e sono state costruite strutture di accoglienza. Nonostante l’informazione, l’educazione e le nuove regole però, la Bachelet non è riuscita a far passare al Congresso la legge per depenalizzare l’aborto. Se c’è forse un limite alla visione della Allende è proprio quello di guardare al fenomeno e di strutturare il femminismo partendo proprio dalla visione del suo paese d’origine e di quella del Sudamerica e dei paesi sottosviluppati. Di contro è anche la sua forza, perché proprio per la stessa ragione il femminismo della scrittrice non ha nulla di banale o di trascurabile e poco ha a che vedere con il lessico e il linguaggio:

«Le parole sono importanti come macigni quando sono dispregiative nell’educazione alla parità non quando usiamo architetto al posto di architetta, o avvocato invece che avvocata. Le parole sono importanti nel concetto di educazione alla discriminazione che nulla a che vedere con le quisquilie su cui mettono l’accento quelle che si definiscono femministe nel nostro mondo».

Isabel Allende

 

Un vento leggero

Donne dell’anima mia è un urlo, l’ennesimo, per fermare la violenza, lo sfruttamento, gli abusi: è la voce di una donna che arrivata alla soglia dei suoi ottant’anni non smette di credere nell’uguaglianza, nella libertà, nelle pari opportunità, che non sceglie la strada facile e non accetta compromessi. Isabel Allende non ha mai smesso di credere nella vita nonostante le sofferenze, a partire dalla morte della figlia Paula, deceduta giovanissima. È dal dolore per la perdita di Paula che nasce nel 1996 la Fondazione Isabel Allende, una missione che, come un vento leggero, investe nel potere dell’universo femminile per garantire l’indipendenza economica e la libertà dalla violenza.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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