Intervista a SirBone and the Mountain Sailors: “Canto la mia musica onesta”

Intervista a SirBone and the Mountain Sailors: “Canto la mia musica onesta”

Intervista a SirBone and the Mountain Sailors: “Canto la mia musica onesta”

SirBone and the Mountain Sailors esordiscono con “Wicked Games” nell’attesa di una live session: “nient’altro che onestà dalla nostra musica”.

Con il singolo A Tangle of ThornsSirBone and the Mountain Sailors, anticipano l’uscita di Wicked Games, l’album di esordio già disponibile in formato fisico e digitale dal 1° aprile 2022.

Wicked Games non è solo un album, è il testamento in musica di una vita vissuta, il coronamento di un sogno per il frontman Stefano Raggi, che da sempre sognava di mettere in musica i brani della sua vita come un album fotografico che tramite note e arrangiamenti sfoglia in dieci ballate acustiche, malinconiche, narrative e piene di pathos le pagine della sua vita.

37 minuti di atmosfere calde, dense, dove SirBone narra di giochi audaci (What you Say), di amori impossibili (A Tangle of Thornes) , di confessioni introspettive (Confession of a Bastard) , di una dolcissima ninnananna, (Your Lullaby)

Registrato e prodotto da Fabio Ferraboschi presso i Busker Studio di Rubiera, con il supporto dell’ufficio stampa A-Z Press, Wiked games è un album delicato, da ascoltare in punta di piedi e con rispetto. Le confessioni di un autore che rivela senza filtri il suo mondo e le sue esperienze.

CHI SONO SIRBONE AND THE MOUNTAIN SAILORS:

Stefano Raggi in arte Sirbone.

Boscaiolo dilettante, falegname improvvisato, musicista inconsapevole. Questo è Stefano Raggi, un romano che scappa dalla città per ritirarsi tra i boschi dell’alto Piemonte, un novello Ulisse che lascia la sua città, i suoi affetti più cari alla ricerca non della conoscenza assoluta come il personaggio omerico ma della musica perfetta, navigando tra le acque più torbide degli imprevisti della vita e che proprio come Ulisse ha a suo supporto degli amici fidati, i suoi “Marinai di montagna” (Gianmaria Pepi (batteria e percussioni), Roberto Zisa (chitarra acustica ed elettrica), Davide Onida (basso), Andrea Ferazzi (pedal steel guitar), Diego Coletti (tromba), Luca Garino (trombone), Umberto Poli (bouzuki, ukulele, al banjo, chitarra weissenborn) e Fabio Ferraboschi) che tessono per lui la colonna sonora delle ballate, regalando atmosfere coinvolgenti che sanno colpire l’ascoltatore trascinandolo come in un vortice all’interno di queste novelle come solo la musica di qualità sa e può fare.

Abbiamo intervistato il suo Frontman:

Ciao Stefano, il nome del vostro gruppo è molto singolare, in italiano tradotto sarebbe “Sir bone e i marinai di montagna” qual è la storia dietro il vostro nome?

“In realtà non c’è nessuna storia. Quando sono venuto qui in montagna, qualcuno ha iniziato a chiamarmi “cinghiale”, il soprannome mi piaceva e mi rappresentava, tanto che ho deciso di utilizzarlo come nome per la prima band con cui suonavo: i Wild Boars. Quando ci siamo separati, non potevo usare lo stesso pseudonimo. Poi un giorno una mia amica sarda ha iniziato a chiamarmi “Sirbone” che sarebbe cinghiale in sardo. Il soprannome mi è piaciuto perché richiama la mia prima band ma allo stesso tempo ha anche una valenza inglese”.

Quando ti sei avvicinato al mondo della musica e alla professione di cantautore?

“Ho cominciato a suonare a 17 anni in band autodidatte e da lì non ho più smesso, avvicinandomi a strumenti nuovi e sempre diversi. Ho iniziato a scrivere e a cantare canzoni invece molto tardi perché non ero mai soddisfatto del risultato, anche se in questi anni ho accumulato tanti testi che raccontano esperienze della mia vita. Un giorno ho sentito la necessità di registrarli per renderli eterni nel tempo, volevo un lavoro fatto bene perché era la mia vita in musica. Così due anni fa ho chiesto a dei miei amici musicisti di aiutarmi in questo sogno: loro mi hanno detto sì, così è nato il progetto di “Sirbone and the Mountain Sailors”.

Come definiresti la tua musica e il tuo progetto artistico? Perché cantare in inglese?

“È arduo perché non c’è un genere: c’è del Country, del Blues, del Tex Mex, c’è il Funky, il Rock, c’è un po’ di tutto. Se dovessi definire la mia musica la definirei onesta, spontanea perché è la mia vita in musica nulla di più nulla di meno. La scelta dell’inglese è dovuta al fatto che ho sempre ascoltato musica straniera, sono cresciuto con i Beatles, i Bee Gees, i Rolling Stones, una passione trasmessami da mia zia a cui devo la mia passione per la musica.”

Tangle of Thorne è il vostro singolo d’esordio: di cosa parla?

“Devo premettere che, per quanto la canzone sia struggente e malinconica, la sua origine ha in sé qualcosa di divertente. Tangle of Thorne non racconta di una mia esperienza personale, ma è la storia d’amore del mio idraulico. Un giorno mentre faceva dei lavori in casa mia si è sfogato e mi ha raccontato della sua storia d’amore impossibile, delle incomprensioni e dell’impossibilità con la sua fidanzata di poter coronare il loro sogno d’amore. Il brano racconta infatti uno dei tentativi di questa donna di allontanarlo da lui confessandogli di non amarlo più, un’amara bugia che avrebbe permesso a entrambi di smettere di soffrire. La storia mi ha molto colpito e ho voluto raccontarla”.

Tangle of Thorne è il singolo che anticipa l’album “Wicked Games”: qual è il filo comune che unisce tutte le canzoni dell’album?

“L’album non ha un filo comune, non sono brani ispirati a un tema univoco, se non quello di essere esperienze personali. La scelta dei brani è andata nelle mani del mio produttore Fabio Ferraboschi che tra tutte le canzoni che ho scritto nel corso della mia vita, ha scelto le più rappresentative”.

Quali sono i vostri progetti futuri?

“Il mio progetto è quello, con la fine della pandemia, di tornare a suonare live e continuare a fare musica per tutta la vita”.

Dove è possibile ascoltare Wicked Games?

“Su tutte le piattaforme sia di ascolto che di acquisto, mentre la copia fisica è possibile ordinarla dalla pagina Facebook della band”.

Pagina Facebook: SirBone & The Mountain Sailors (facebook.com)

Instagram: www.instagram.com/stefano_sirbone_raggi

YouTube: www.youtube.com/channel/UCBcVvydHOAu2NG3-u55DTxg

ASCOLTA ‘WICKED GAMES’ SU SPOTIFY

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Di Nicole Prudente

 

Il cinema indiano in Italia: intervista a Selvaggia Velo

Il cinema indiano in Italia: intervista a Selvaggia Velo

Il cinema indiano in Italia: intervista a Selvaggia Velo

Abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con Selvaggia Velo per parlare di festival del cinema, cinema indipendente indiano e delle donne. Fiorentina doc, dopo aver vissuto a Parigi e a Bruxelles e laureata a Bologna, fonda il River to River Florence Indian Film Festival, l’unico festival di cinema indiano presente in Italia. 

Come è nato il River to River Florence Indian Film Festival e qual è il tuo legame con l’India?

“Inizia tutto nel 1998 con una mostra di manifesti di cinema indiano dipinti a mano. Poi con Sergio Staino, direttore dell’Estate fiorentinarassegna culturale del Comune di Firenze che si svolge nei mesi estivi, .ndr – nell’anno successivo, si trovò un piccolo budget per portare a Firenze i pittori indiani di questi manifesti per farli dipingere en plein air durante gli eventi dell’estate fiorentina. In quell’occasione fu proiettato un film indiano in VHS. Nell’ottobre del 2001 poi si riuscì a organizzare il vero e proprio festival del cinema indiano, la prima edizione di River to River. Il 2001, per il cinema indiano, fu un anno importantissimo: Lagaan, infatti, vince al festival di Locarno e Monsoon Wedding di Mira Nair vince il Leone d’Oro a Venezia.

Si capisce subito l’importanza di questo festival e una serie di cose che bisognava ancora fare: avere un catalogo bilingue come testimonianza dell’avvenimento. E l’attaccamento alla tangibilità è rimasto perché anche quando siamo andati online nel 2020 c’è stato. Un’altra cosa da fare poi era invitare ospiti indiani”. 

E quanto era celebre il cinema Indiano all’epoca?

C’era poco e nulla: qualcosa era stato fatto a Locarno, una rassegna di film indiani chiamata Indian Summer. In Italia invece niente. 

Chi è stato il primo contatto con l’India e col Cinema Indiano?

“Io personalmente non ho contatti diretti con l’India, non ho parenti né ho mai avuto conoscenze. Uma da Cunha – casting director, giornalista, programmatrice di festival, fra le tante mansioni – è stata, ed è tutt’oggi, il mio punto di riferimento personale per quanto riguarda il cinema indiano. Lei viene a scoprire dell’esistenza di questo festival che stavo organizzando in Italia e mi contatta per organizzare una cena a Mumbai: in maniera molto naturale quindi inizia un rapporto basato sulla stima reciproca e sull’amore per il cinema che tutt’ora dura. 

Da lì ho iniziato, anche con molta intraprendenza, a tessere un network di buoni contatti nel mondo del cinema indiano e garantirmi quindi la conoscenza di grandi registi e attori.
Ho imparato tanto in questi anni, grazie a lei e al cinema indiano, ma anche grazie ai contatti che mi ha aiutato a creare”.

Alla fine dell’edizione del festival immagino si cominci subito a preparare quella successiva. Vista l’importanza delle relazioni interpersonali per la creazione del festival, quanto tempo passi in India a cercare contatti? 

“Conoscere così tante persone, anche grazie ai contatti presentati da Uma, siamo riusciti a proiettare film e avere grandi ospiti: il feeling tra le persone è stato fondamentale. Io di solito passo in primavera un mese in India a conoscere e interagire per preparare il festival successivo. E gli Indiani amano creare un legame speciale con le persone”. 

Come si trova una fiorentina a relazionarsi con l’India?

“In realtà tre cose fondamentali noi italiani le abbiamo in comune con loro: l’amore per il cibo, per la famiglia e quello per il cinema. La cosa che distingue gli indiani da tutto il resto del mondo è la concezione del tempo. Lo si vede anche nella lunghezza dei film, per esempio. Il “qui e ora” non è mai qui e ora, tutto è più dilatato sia nel pubblico che nel privato. Bisogna armarsi di pazienza con loro oppure organizzarsi al meglio. C’è una parola in hindi che riassume tutto perfettamente, kal, che significa “sia ieri sia domani”: la lingua su questo concetto del tempo è chiara, ed esplicita perfettamente quale sia la loro concezione del tempo. 

Mi è successo di partecipare a proiezioni cinematografiche fissate per le 19:30 e di trovarmi alle 22 ancora ad aspettare che iniziasse la proiezione. È difficile, per esempio, prendere un appuntamento con loro tra due settimane, devi fare tutto all’ultimo e mi è successo di partire con un’azienda italiana di product placement per l’India senza aver nessun appuntamento ma organizzare tutto una volta lì. Questa è una grande differenza nella visione del tempo”. 

Come mai secondo te il cinema indiano non ha attecchito in Italia come invece ha fatto in altri paesi europei (Inghilterra o Francia)?

“Perché qui il cinema indiano è percepito ancora come qualcosa di esotico e molto distante da no e dalla nostra culturai. C’è, su questo, ancora molto pregiudizio; non viene vista come una vera cinematografia. E poi c’è tutto il problema della lingua e del doppiaggio: nel resto del mondo è sdoganato il fatto di guardare i film in lingua originale coi sottotitoli, in Italia invece la lingua originale è percepita ancora come un ostacolo”. 

Le protagoniste dei film che hai selezionato si sono interfacciate con la dicotomia fra oriente e occidente: quanto è percepito e quanto è influente – se lo èil modello occidentale nel mondo indiano?

“Il loro modello di riferimento è fondamentalmente quello americano; i film che escono in India al cinema infatti sono praticamente solo americani. Loro sono però molto legati alle proprie origini: cibo, festività, ritualità familiari ecc. sono molto radicate e sentite, poi comunque si aprono anche all’occidente. Resta però il fatto che anche le persone più moderne, aperte mentalmente e culturalmente che ho conosciuto sono talmente legate alle loro tradizioni da risultare contraddittorie. La fissità di certe tradizioni indiane entra in contrasto spesso con l’apertura verso il resto del mondo, ma, secondo me, è proprio questo il bello della cultura indiana.

Per esempio, ho conosciuto una coppia fantastica, estremamente aperta e che ha girato il mondo e quando mi hanno raccontato il loro amore è frutto di un matrimonio combinato non potevo crederci. Eppure, lì, quello che da noi può sembrare fuori dal mondo, è consuetudine. 

Ma per esempio anche prima delle proiezioni dei film si fa la puja, un atto di adorazione verso una divinità che prevede un’offerta o un rito: è così in tutti gli ambiti della vita e che avvengono anche nei luoghi più contemporanei e aperti verso il mondo. 

Sicuramente ho visto tante situazioni particolari, soprattutto per quanto riguarda le abitudini alimentari: vedere un indiano ordinare è pazzesco, perché spesso hanno il loro guru, una sorta di guida che spesso aiuta anche a decidere cosa e come mangiare”. 

E tu hai acquisito qualcosa di non tipicamente italiano ma che è prepotentemente indiano?

“Sì, l’accostamento dei colori: io quotidianamente abbino i colori come loro nei miei vestiti. E sicuramente anche l’essere paziente, il saper aspettare e il saper interpretare le loro risposte”. 

Il festival quest’anno ha ruotato intorno alla tematica dell’empowerment femminile. Le figure femminili protagoniste dei film che hai scelto vivono situazioni particolare: in The Tenant per esempio convivono nello stesso posto donne molto emancipate e donne invece molto legate e attaccate alle tradizioni indiane più puriste.

Un film come The Tenant racconta una storia assolutamente realistica: quello che viene raccontato nel film e tutto vero. Quando mi venne a trovare il mio compagno mentre vivevo con una coinquilina americana, mi ero posta lo scrupolo di non fare in modo che le persone del condominio la giudicassero. Di base tutti sono molto legati alle loro radici, ma con una costante apertura verso i valori occidentali”. 

Come ha influito la pandemia nell’organizzazione degli ultimi due festival?

“Tieni conto che il 2020 era l’anniversario del nostri vent’anni e io non volevo assolutamente rinunciare. Tutto si è quindi riversato sull’online: è stata un’esperienza davvero straniante. Tutti i collegamenti erano live e io seguivo tutto dal teatro che avevo per l’occasione arredato in stile indiano: è stato strano parlare di fronte a un cinema vuoto, ma nonostante fossimo chiusi il calore del pubblico l’abbiamo percepito. Grazie alla live chat siamo riusciti a mettere in contatto sia il pubblico italiano che gli ospiti in collegamento dall’India. È stata però, per assurdo, molto più difficile l’edizione del 2021: la doppia modalità ha complicato tutto ed è sembrato di fare due festival insieme. È stato però impagabile avere la possibilità di avere un pubblico vero”. 

E quest’anno andrai in India?

“Quest’anno ancora non lo so: ci vado per le pubbliche relazioni, ma ora è difficile, quasi possibile, forse più avanti, in primavera. E posso dirti che mi manca moltissimo”. 

Ringraziamo Selvaggia Velo per l’intervista, per averci fatto entrare nell’affascinante mondo del cinema indiano e per averci regalato, in questi tempi instabili, la sua vitale curiosità e intraprendenza. 

Giorgia Grendene

Sono Giorgia e amo le cose vecchie e polverose (come la mia laurea in lettere classiche), le storie un po’ noiose che richiedono tempo per essere raccontate e apprezzate, i personaggi semplici con storie disastrose. Mi piacciono il bianco e nero e il technicolor molto più del 4K, i libri di carta molto più degli e-book, il salato molto più del dolce, i cani molto più dei gatti.

Intervista ai Deshedus: dagli esordi al debutto a San Marino

Intervista ai Deshedus: dagli esordi al debutto a San Marino

Intervista ai Deshedus: dagli esordi al debutto a San Marino

 

Attitudine musicale, professionalità e tanto studio: sono tutti ingredienti che non mancano ai Deshedus, la band romana che ha gareggiato al Festival “Una Voce per San Marino” in corsa all’Eurovision.

 

Con la produzione di Mauro Paoluzzi e la collaborazione di Alberto Fortis e Tony Cicco, i Deshedus sono riusciti a portare la loro musica sul palco del Teatro Nuovo a Dogana dove si sono esibiti a fianco di numerosi Big della musica e dello spettacolo. Oltre ad aver dimostrato un’affascinante presenza scenica, la band romana composta da Alessio Mieli, Gabriele Foti, Federico Randolini e Stefano Tozzi, attraverso il brano «Sono un uomo» ha voluto lanciare un messaggio generazionale che invita a riflettere sulla condizione di precarietà che sempre più spesso sono i giovani a sperimentare. Andiamo a scoprire insieme la storia, la musica e le emozioni che hanno accompagnati i Deshedus nelle notti Sanmarinesi.

Partiamo dalle origini: come nascono i Deshedus e qual è il messaggio che la vostra musica si impegna a trasmettere?

“La musica è unione, sinergia e pura energia, oltre che una passione che ci portiamo tutti da quando eravamo piccoli. Riteniamo che sia uno dei modi migliori per comunicare un messaggio, sia intimo, che universale. Questo è il motivo per cui amiamo fare musica insieme. Inizialmente il progetto è partito dal frontman Alessio e successivamente ha deciso di formare una band, c’è una forza diversa e ci supportiamo tutti l’un l’altro, anche al di fuori della musica”.

Per tutte le band emergenti che sognano un’escalation come la vostra, come siete arrivati al palco più importante di San Marino?

Di certo abbiamo lavorato moltissimo e fatto altrettanti sacrifici per arrivare al punto in cui siamo. La nostra band è insieme da 3 anni e abbiamo sempre suonato in giro per l’Italia. Abbiamo partecipato anche a Sanremo Rock prima in gara e poi sempre come ospiti. Cerchiamo costantemente di portare novità, sia a livello di sound che di live. Per esempio, prima di San Marino abbiamo portato per la prima volta nel mondo a Cinecittà World un cine concerto olografico. L’obiettivo è sempre quello di unire il nostro stile anni Settanta/Ottanta, in chiave rivisitata ovviamente, applicandolo alle tecnologie più avanzate in un “back to the future”. Siamo felici che finalmente si comincino a vedere i frutti del nostro lavoro come la partecipazione a questo festival importante”.

Al Festival “Una Voce per San Marino” avete scelto di esibirvi con il brano «Sono un uomo», volete dirci qualcosa di più sulla canzone?

Sono un uomo è un urlo generazionale, della nostra precarietà e di come veniamo sfruttati senza possibilità di replica. È un annegamento nella società di cui ci sentiamo prigionieri e limitati nel pensiero. Nella situazione attuale si denunciano il potere e i venti di guerra”.

Con voi si sono esibiti e hanno partecipato alla creazione del brano due icone del panorama musicale italiano: Alberto Fortis e Tony Cicco. Com’è nata questa vincente collaborazione?

“Entrambi hanno sposato il progetto con molta passione, il messaggio è chiaro e non riguarda solo la nostra generazione, si estende più in là, è universale. Da qui l’idea insieme al nostro produttore Mauro Paoluzzi di cantare insieme «Sono un uomo». Come ha detto Alberto Fortis: «un bello scambio generazionale». A prescindere da com’è andata è stata un’esperienza bellissima, e solo aver collaborato con loro è stato incredibile. In ogni caso siamo positivi e non ci fermeremo. Vogliamo che questo messaggio arrivi”.

Sul palco del Teatro Nuovo a Dogana avete dimostrato una presenza scenica sorprendente che in una manciata di minuti ha travolto la platea nel vostro mondo musicale. Quali sono le emozioni che vi hanno accompagnato e che vi porterete nel cuore?

“Beh, era la prima volta in una TV, perciò, è stato molto bello, ma l’emozione più grande è stata l’applauso caloroso del pubblico sia all’inizio che alla fine. Quell’istante per noi è stata la vittoria perché siamo riusciti ad emozionare e far arrivare il messaggio. Questo è il nostro obiettivo e quindi questa è la nostra vittoria. Poi sono stati giorni molto intensi tra prove ed interviste, quindi abbiamo provato tante sensazioni diverse, è stato tutto molto bello”.

A riflettori spenti, tra tutti i concorrenti in gara, chi era lo sfidante che più temevate?

“Te lo diciamo sinceramente, non abbiamo temuto nessuno. Non è presunzione ma determinazione, crediamo in quello che suoniamo e che vogliamo dire. Per questo non ci ha spaventato nessuno”.

Cosa ne pensate della vittoria di Achille Lauro? Qualcun altro meritava la corsa all’Eurovision o siete d’accordo con il verdetto?

“Il brano vincitore di Achille Lauro è un pezzo orecchiabile per cui non ci ha stupiti la sua vittoria. Forse era il nostro diretto competitor avendo “almeno in gara” portato lo stesso nostro genere. Ma comunque siamo sportivi, accettiamo il verdetto e andiamo avanti!”

Anche se le luci che vi avrebbero portato all’Eurovision si sono spente, al Festival Sanmarinese non siete passati inosservati e vi portate a casa il meritatissimo Premio AVI – Associazione Vinile Italiana 2022. Siete soddisfatti di quest’esperienza?

“Aver ricevuto questo importante premio per «Il Brigante», nostro album di debutto come miglior vinile ai tempi del Covid-19, è stato molto soddisfacente. Non ci aspettavamo così tante recensioni positive e premiazioni anche se sicuri di aver fatto un bellissimo lavoro, reso possibile anche grazie a Mauro Paoluzzi il nostro produttore artistico e il nostro autore di fiducia Elio Aldrighetti che hanno contribuito in modo essenziale a questo progetto. Il Brigante sta entrando pian piano nei cuori delle persone, e non può che renderci orgogliosi e felici”.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

IoVoceNarrante? La mia penna.

Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

IoVoceNarrante? La mia penna.

Nel cuore di “Let Me Be”: l’intervista a Fabio Gómez

Nel cuore di “Let Me Be”: l’intervista a Fabio Gómez

Nel cuore di “Let Me Be”: l’intervista a Fabio Gómez

Con l’ultimo singolo in uscita “Let Me Be”, il cantautore italo svizzero Fabio Gómez ha dimostrato che non servono stratagemmi per ottenere ascolti.

Let Me Be non è solo lo specchio di un successo, bensì è una storia che racchiude un viaggio introspettivo che fa tappa negli amori malati, nelle consapevolezze interiori, nel bisogno di prendere delle decisioni spesso radicali, e tutto per riconcorrere una libertà per nulla scontata. Let Me Be è anche una riflessione sulla società di oggi e sulla necessità di compiere un cambiamento, non per gli altri, ma per noi stessi. Una canzone e un crocevia di storie che solo un’intervista all’autore, Fabio Gómez, poteva portare alla luce.

“Let Me Be” è il tuo nuovo singolo che in soli due mesi ha riscosso ottimi risultati con oltre 700.000 visualizzazioni su YouTube e una lunga serie di rotazioni in radio. Ti aspettavi questo successo o è stata una dolce sorpresa?

Quando si lancia un brano si ha sempre un po’ paura che non venga compreso, sono le paure dell’artista di sopravvivenza, istintive; se non ci fossero non ci sarebbe poi l’adrenalina, la sorpresa di vedere crescere ogni giorno sempre di più il numero degli ascolti. Ma aldilà dei numeri, l’obiettivo non è questo, ma è quello di arrivare alle persone reali in modo organico. In un periodo storico dominato dal fake, produrre contenuti di valore è il mio modo di distaccarmi il più possibile da questa realtà. Prima di capire quali scelte intraprendere per questo brano mi sono preso del tempo, una palestra artistica diciamo, e anche grazie alle numerose live su Facebook ho capito che per me l’interazione è la cosa fondamentale, significa saper comunicare con il proprio pubblico. Un altro fattore importante sono state sicuramente le persone che ho conosciuto nel mondo, in particolare una ragazza boliviana che tramite il padre è riuscita a inserirmi nel circuito delle piattaforme digitali del Sud America e la proiezione del videoclip mi ha sicuramente portato ad avere una visibilità più ampia.

Il brano racconta la storia di un uomo e la sua personale ricerca della libertà vissuta come una vera e propria conquista.  Da dove nasce questo forte desiderio di sentirsi liberi e cosa, invece, ti ha fatto sentire intrappolato?

Sono state tante le situazioni nella mia vita che mi hanno fatto sentire intrappolato, ma quando scrivo cerco di farlo in maniera universale senza riferimenti personali in modo tale che chiunque mi ascolti possa immedesimarsi. D’altronde chi non ha avuto una situazione di questa natura? Penso che un po’ tutti ci siamo trovati in relazioni in cui all’inizio ci sentivamo all’inizio coinvolti e nel tempo abbiamo poi capito che tutto ciò poteva lederci. Credo che ciò che conti in assoluto sia riuscire a mantenere la propria integrità in una relazione. Se una persona inizia a cambiare il tuo modo di essere, il tuo modo di comportarti e comincia a soffocarti, non è più amore, ma diventa oppressione, possessione, gelosia e comando. Penso che quando nell’amore manchi la fiducia, manchi il presupposto fondamentale per essere liberi. Libertà vuol dire che le due parti, le persone coinvolte, si sentano libere di esprimersi come meglio credono e riescano a trovare il loro spazio di libertà immensa dove poter essere completamente loro stesse. È quando ti ritrovi a camminare in una città come Parigi, o New York, dove puoi correre e passare dei momenti meravigliosi, che riesci a sentirti pienamente libero. Forse è proprio perché sono un sognatore ad occhi aperti che sono finito dall’altra parte del mondo per poter costruire una mia strada alternativa.

Nel testo emerge un altro tema importante: l’amore. “Love gave me the blues again”. Le tue parole descrivono questo sentimento con sofferenza e delusione: è questa la tua visione dell’amore?  

Nella lingua parlata inglese ci sono dei modi di dire diversi dai nostri e alcuni di questi riescono ad assumere un particolare significato, come quello che hai riportato. Il “blues” che tradotto significa “sofferente, malinconiconasce in realtà dal libro Spiritual come primo genere di musica profana portato avanti dalla comunità afroamericana ed è un genere meraviglioso che ha influenzato tantissima della musica che conosciamo. Il blues detta la linea di basso di tantissimi brani anche pop, a partire dai Beatles ai Rolling Stones. “Love gave me blues again” in quest’accezione prende sì il significato di delusione, ma è una parola ben più complessa. La prima strofa da cui è tratta questa frase descrive lo stato d’animo iniziale, ma già al ritornello si compie uno staccato completo, una forma di scelta radicale che dobbiamo essere in grado di prendere quando oltrepassiamo la linea della sofferenza perché capiamo che stiamo vivendo una situazione che va a intaccare il nostro equilibrio spirituale. È in quel momento che dobbiamo compiere delle scelte capaci di rivoluzionare tutto, e Let Me Be è l’espressione di questa scelta.

È vero che l’amore tante volte può portare a voler scappare, ma tante altre volte è proprio nella condivisione che vi si trova un senso di libertà. Questa visione dell’amore come ‘delusione’ deriva da un’esperienza personale?

Quando arrivi ad un certo grado di consapevolezza in cui riesci a capire cosa vuoi e cosa non vuoi per te stesso, arrivi anche al momento in cui devi essere in grado di compiere questa scelta, così che ti porti poi a trovare la condizione che realmente ti possa far crescere umanamente. Si tratta di un passaggio evolutivo forzato: la vita ti porta a vivere certe esperienze, ma è solo conoscendosi che si possono prendere tali decisioni. Se invece si rimane stagnanti, non ci si può lamentare poi della propria situazione.

New York è senza alcun dubbio la città dove per eccellenza “si è liberi di essere chi si vuole”: è questo il motivo che ti ha spinto a girare tra le location newyorkesi il videoclip del singolo? O esiste un legame più profondo con questa città?

In realtà hai azzeccato parte della storia perché New York è una città che gli stessi americani considerano “uno stato a sé”. È una città molto particolare perché è proprio a New York che la gente approda nel tentativo di cercare fortuna, è una città che funge da trampolino d lancio. Anche la storia ha molto a che fare con la Grande Mela, partendo dalla cinematografia che ha investito su questa città le più grandi storie momentanee: New York è come un amore estivo, dura il tempo che trova, ma è ricco di emozioni. Potremmo definirla come una città in continua evoluzione, un punto di passaggio che le persone sfruttano per poi stabilirsi in altri punti dell’America, come la California o la Florida. New York è sicuramente la città degli affari, magica ma anche crudele e i suoi grattacieli sono lo sfondo ideale per contenere tutte le storie che si intrecciano nel videoclip, a partire dai due ballerini dell’Accademia di Ballo di New York. Prima compagni di danza, poi compagni di vita e infine lo stesso amore per il ballo che li accomunava è stato la causa della loro divisione: lei sceglie il classico, lui la danza moderna. Ed ecco di nuovo la vita che ci porta a compiere delle scelte che in amore possono non essere condivise, ma amore significa anche accettare il cambiamento dell’altro e il bisogno di intraprendere strade diverse; amore è essere felici del successo dell’altra persona, anche se sono scelte non condivise. L’altra storia nella storia è quella di due amanti: una relazione che dura da troppo tempo e nella quale la ragazza, restando in balia di due amori e rifiutandosi di prendere una decisione fa scaturire la presa di coscienza nell’amante (impersonato da me nel videoclip). Lui capisce che è meglio andare via, deve allontanarsi da quella che è diventata un’ossessione e l’abbandono della città è la sua scelta radicale.

Sometimes it’s harder to hold on than to let go. Take a chance, make a change.” Queste sono le ultime parole che compaiono nel videoclip: è questo il tuo motto? Un invito a cogliere l’attimo?

L’ultima frase riguardo la scelta significa che a un certo punto nella vita è necessario concedersi la possibilità di vedere le cose da un altro punto di vista, di intraprendere altre strade e di dare un taglio a situazioni durate troppo.  La prima frase “a volte è più difficile trattenere le cose che lasciarle andare” è un campanello d’allarme che vuole far notare come la nostra sofferenza inizia proprio quando iniziamo a trattenere le cose, dapprima i pensieri. Se non lasciamo che il flusso scorra per una questione di gravità naturale, si rischia di entrare in conflitto con noi stessi, con il nostro passato e con il nostro futuro. Il mio motto è sempre questo: quel che è stato è stato, e non tornerà mai indietro.  È inutile rimuginare troppo sulle cose, ormai sono accadute o accadranno seguendo il loro corso. Non è più la realtà che stai vivendo, devi solo conviverci. Non bisogna avere paura del futuro, né farne un pensiero fisso perché la nostra mente crea in continuazione aspettative e dinamiche irreali. Ho smesso di impiegare il mio tempo mentale a pensare come sarà: progetto sì, ma se sarà tutto diverso vivrò il corso degli eventi con la stessa serenità. Un po’ come il videoclip che ho girato a New York, avevamo un piano di riprese, ma poi è andata diversamente perché ci siamo lasciati affascinare e guidare dal momento: bisogna essere aperti alla novità tenendo i piedi per terra e valutando sul campo cosa è possibile o sconveniente, per questo mi piace pensare di essere un sognatore ad occhi aperti, costantemente creativo, ma nel concreto. Un altro tema portante nella canzone, aldilà delle scelte radicali, è proprio la Sindrome di Stendhal moderna: la pervasività della digitalizzazione ci ha condotti in una silente ipnosi inconscia che ci ha legati ipnoticamente ai media. Il quadro di Stendhal moderno è questo, le persone ormai sono impressionate solo da immagini, video e distorcono la propria attenzione dal mondo reale e Let Me Be vuole essere un campanello d’allarme.

Sei nato in Svizzera, hai studiato a Chicago e poi a Sanremo, ma nel cuore hai anche del sangue spagnolo. Ti reputi un cittadino del mondo o esiste un luogo dove più di altri ti senti a casa?

Madrid è a tutti gli effetti la mia casa. È il luogo dove abita la mia famiglia con la quale ho un rapporto meraviglioso perché con il tempo hanno saputo capire chi sono. Ne conosco ogni rincón, lì mi trasformo e vivo una libertà totale. Un altro posto in cui mi sento a casa è sicuramente la Svizzera: vi ho vissuto moltissimi anni e ho anche dei parenti a Berna. Ecco, a Berna mi succede spesso una cosa magica, perché la sento come città di nascita e di ricerca a livello emotivo. Ad ogni arrivo per me è sempre un po’ inedita, nonostante la conosca molto bene, vi sento un tepore che mi ispira a livello emotivo e creativo; invece Lugano o il Ticino sono luoghi che hanno il potere di farmi rivivere il passato. Mi ritrovo come in un crocevia: Varese e il Ticino sono stati i miei luoghi di transizione e trasformazione, dai quali mi sono sempre allontanato. Eppure, quando sono lì, mi sento sempre a casa, riaffiorano con un po’ di nostalgia, i ricordi e la mia infanzia. La fortuna di essere cresciuto in Svizzera è stata la possibilità di vivere in un contesto multiculturale nel quale i ragazzi crescono accompagnati da più culture che li proiettano verso nuovi orizzonti. Anche se eravamo giovani, a vent’anni avevamo già una mente bohémienne, cosmopolita con una percezione della diversità totale che ne fa derivare umiltà. Per fare strada bisogna aprire la mente su altri e più orizzonti.

“Let me be” è stato un bel successo. Hai già in mente il prossimo singolo? 

Per farla breve: sarà una sorpresa, non voglio svelare nulla! Posso dire che sto già lavorando a un nuovo singolo la cui uscita è prevista per ottobre o novembre, dipende molto dall’andamento della pandemia che purtroppo ha determinato tante scelte costrittive per tutti gli artisti. Sicuramente ripartirà il mio tour mediatico nel Sud America, mentre a maggio uscirà la versione spagnola di Let Me Be con la stessa melodia. ma con variazioni nel canto e nell’arrangiamento.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

IoVoceNarrante? La mia penna.

Guadagnare con il sessualmente esplicito: l’intervista a chi usa OnlyFans

Guadagnare con il sessualmente esplicito: l’intervista a chi usa OnlyFans

Guadagnare con il sessualmente esplicito: l’intervista a chi usa OnlyFans

Dopo aver indagato (qui) su come funziona OnlyFans, la piattaforma famosa per l’intrattenimento per adulti, abbiamo chiesto a chi lo usa davvero cosa c’è dietro una semplice immagine, nonostante i pregiudizi e le polemiche.

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Nell’articolo vengono toccati temi espliciti come la sessualità e l’erotismo, pertanto si sconsiglia la lettura a un pubblico la cui sensibilità potrebbe esserne turbata.

Michele Bianchini e Arianna Beretta qualche mese fa hanno deciso di creare un profilo di coppia sulla piattaforma OnlyFans per condividere quella che è una passione comune: il nudo artistico ed erotico (e il messaggio che c’è dietro). Un’idea che non nasce solo dal desiderio di entrambi di ritrarsi nei loro momenti più intimi, ma che è legata anche a una questione di accettazione del proprio corpo nella collettività nonostante i canoni socialmente imposti, di libertà personale e di espressione, di diritti. Noi ci siamo incuriositi e abbiamo intervistato Michele per chiedergli come effettivamente gestiscano questa loro attività e, soprattutto, per fargli tutte quelle domande che nessuno ha il coraggio di fare a un sex worker.

Michele Bianchini

Perché avete deciso di iscrivervi proprio a Onlyfans? Che cosa vi ha spinti?
“Volevamo fare qualcosa del genere insieme e stavamo valutando più applicazioni, un’altra piattaforma che ci ispirava era MYM.fans che si tratteneva una percentuale sui pagamenti minore, però poi abbiamo scelto OnlyFans perché iscriversi con i dati bancari è più semplice e soprattutto è un social più conosciuto, la gente si fida di più e abbiamo deciso di andare sul sicuro. Inoltre, io avevo già un profilo che usavo per abbonarmi a quelli di altri ed è stato abbastanza semplice modificarlo da profilo user a creator”.

Che cosa vi ha portato a mostrare la vostra intimità di coppia? Perché avete deciso di far vedere quello che fate?
“Secondo me è qualcosa che facciamo per ragioni simili, ma anche diverse. Arianna ha sempre pubblicato nudo artistico ed erotico anche sui suoi profili social e dice sempre che, scusate il gergo, ‘metterebbe la f*** anche su Instagram’ se potesse. È proprio una questione ‘politica’, se così la possiamo definire, per rivendicare la libertà sessuale e andare contro il pudore imposto dalla società, specialmente alle donne. Non è solo questo però. A entrambi, per esempio, eccita l’idea di farci vedere, di mostrarci e infatti – piccolo spoiler – ultimamente ci stuzzica l’idea di aggiungere anche qualche live. Sarebbe bello farsi vedere, ma bisognerà valutare bene la situazione”.

Come organizzate il vostro profilo? Quante foto postate?
“Normalmente non postiamo mai meno di un contenuto al giorno, ma spesso ci capita di postarne addirittura tre, sebbene le foto non siano tutte così ‘spinte’. Le persone non si iscrivono tanto per le foto, ovviamente piacciono, ma sono i video che ci fanno ottenere più likes e guadagni. Oltre al pagamento dell’iscrizione, infatti, si possono vendere contenuti su richiesta: tramite le chat gli iscritti possono chiedere di far vedere qualcosa di particolare, poi sta al creator ovviamente decidere se accettare o meno e proporre un prezzo. A noi è capitato che un iscritto ci chiedesse di vedere del sesso orale, abbiamo fatto il video e non eravamo sicuri di quanto farlo pagare poiché era la prima volta per noi: abbiamo deciso di fare 20 euro. Una cifra che mi sembrava spropositata inizialmente, ma che invece ha convinto il nostro pubblico. Lo abbiamo venduto a cinque o sei persone e in quel momento avevamo solo venti followers, per cui il 25 per cento dei nostri iscritti lo ha comprato. Quel giorno abbiamo praticamente fatto tutti i guadagni delle iscrizioni, infatti i video su richiesta sono ciò su cui probabilmente punteremo di più. Addirittura un video l’abbiamo venduto a un cliente che non era neppure iscritto al nostro profilo, ma che ha visto la pubblicità su Twitter, una piattaforma sulla quale sono presenti meno restrizioni riguardo al cosiddetto ‘sessualmente esplicito’ rispetto, per esempio, a Instagram. Lui ha eseguito il pagamento su PayPal, ma questo procedimento non è legale nonostante possa essere conveniente per i creators, che non pagherebbero commissioni, e che, inoltre, non ci garantirebbe la tutela legale che invece ci garantisce OnlyFans”.

Dal profilo di Michele e Arianna

Quanto sono espliciti i contenuti? È proprio nudo integrale o dovete oscurare qualcosa?
“No, non ci sono limiti imposti sui contenuti. Noi però variamo, non mettiamo solo foto in cui siamo completamente nudi o mentre abbiamo rapporti, mettiamo anche foto in biancheria intima o in cui si vede un po’ di pelle e basta, non si deve mostrare per forza tutto. Anche per una questione di marketing, per invogliare il pubblico ad accedere anche al materiale più esplicito facciamo sì che nella nostra home siano presenti foto e video non esattamente uguali a quello che poi si può acquistare su richiesta. Cerchiamo di non imitare troppo quello che si trova nelle piattaforme pornografiche: soprattutto all’inizio, ma anche adesso, chi si iscrive non può aspettarsi di accedere a contenuti illimitati in tutto e per tutto sostituibili al porno classico, con iper esposizione del corpo, una certa illuminazione artificiale… C’è da dire che abbiamo aperto OnlyFans con l’intento di postare questo tipo di contenuti, è quello che la gente si aspetta ed è la cosa più sexy da fare”.

Avete tanti likes?
“Non abbiamo mai fatto più di dieci likes a foto, però molti utenti che hanno comprato il video non hanno mai messo reazioni ai nostri contenuti: come quelle persone che nei gruppi su Whatsapp leggono i messaggi, ma non rispondono, qui guardano ma non interagiscono. Ci sono persone più riservate, è comprensibile e lo accettiamo, e se rinnovano l’abbonamento dopo il primo mese significa che hanno comunque apprezzato”.

Quindi ci sono parecchie persone interessate all’argomento? Come le raggiungete?
“Arianna aveva già molti fan su Instagram, quindi quando ha condiviso lì il nostro profilo molti sono arrivati. Io invece al momento lo sto pubblicizzando su app di incontri come Tinder e Grindr (un’app di incontri per la comunità LGBTQIA+, ndr.), anche se in teoria su queste piattaforme non puoi sponsorizzare e se ne parli in chat privata puoi essere segnalato e ‘bannato’. Alcuni iscritti sono arrivati, è pieno di gente che cerca il video amatoriale, soprattutto uomini. Ci sono anche delle ragazze, ma sono davvero poche”.

Fate tutto voi o c’è qualcuno che vi filma?
“Prima ancora di iscriverci a OnlyFans abbiamo fatto uno shooting dal quale abbiamo preso alcune foto da pubblicare sul nostro profilo, ma abbiamo in previsione altri scatti con altre persone. Per il resto sì, facciamo tutto noi, ovviamente sarebbe più comodo avere qualcun altro che ci aiuta, ma al momento non lo cerchiamo. Arianna, essendo occupata in molti progetti di questo tipo, ha tanti fotografi che le girano intorno e che a volte ci chiamano: c’è tutto un mondo di fotografia erotica, ci sono gruppi Telegram di modelle e fotografi che si danno feedback. Ci hanno anche proposto di fare delle foto io, lei e un’altra sua conoscente: è un po’ strano quando c’è un’altra persona, soprattutto per me che non l’ho mai fatto, ma la mia ragazza è abbastanza abituata al contatto fisico durante gli scatti. La prima volta il set non prevedeva solo nudità, infatti non sapevo proprio cosa aspettarmi e in qualche modo nemmeno lei, non sapevamo bene cosa fare o come comportarci. Poi ci siamo messi sul letto e ci è venuto tutto naturale”.

Sono professionisti questi fotografi o è solo gente a cui piace fare le foto?
“Sono tutti progetti amatoriali, ma è gente che ha molta esperienza. Lo fanno per passione, non come lavoro, ma sono persone sempre di trentacinque o quarant’anni che hanno fatto queste cose milioni di volte”.

Dal profilo OnlyFans di Michele e Arianna

Vi pagano per fare gli shooting?
“Arianna è stata pagata più volte per questi progetti, ma quando abbiamo fatto quel servizio fotografico insieme non abbiamo chiesto nulla, era implicito che sarebbe stato un progetto in TF (collaborazione non retribuita, ndr.). Il fotografo era un suo amico, ci siamo trovati e nessuno è stato pagato: in questi casi sono le foto a costituire il compenso, di conseguenza tutti i coinvolti alla fine dell’esperienza sono autorizzati a pubblicarli sui propri canali”.

E il fotografo come si comporta mentre voi vi muovete davanti alla fotocamera?
“È stato molto professionale, di solito siano persone a cui piace assistere a questo genere di cose. Poi penso che se a un fotografo piaccia fare nudo artistico, di conseguenza gli piaccia anche fare foto di questo tipo, quindi è appagato anche da questo”.

Qual è la cosa peggiore che vi è successa?
“All’inizio di questo nostro percorso, Arianna ha scoperto che le nostre foto erano state fatte girare su un gruppo WhatsApp da parte di un suo conoscente che si era abbonato solo falso nome per commentarle in modo poco consono insieme agli amici: ovviamente stavano diffondendo illecitamente del materiale semi-privato perché OnlyFans ha il copyright”.

Come ti sei sentito quando sei venuto a sapere cos’era successo?
“Arianna ha risolto con queste persone, ma nessuno ha chiesto scusa a me e questo si collega all’aspetto peggiore di questa piattaforma. Sebbene nelle foto e nei video compariamo entrambi, entrambi mettiamo nostre foto singole e scriviamo le nostre descrizioni in prima persona, se qualcuno ci scrive in chat si rivolge direttamente a lei. È proprio vista come una cosa incentrata sulla ragazza, quando le persone pensano al porno sono convinte di guardare la ragazza che si fa sc****e e fine. È un mondo ancora abbastanza stigmatizzato, come in fondo lo è l’industria pornografica. La cosa che mi ha stupito è che non tutti quelli che si iscrivono, contrariamente all’immaginario collettivo, sono fanatici o addirittura maniaci. Sì, sono estranei che ti vedono in momenti di intimità, ma non sono certo ‘pervertiti’ o persone con intenti lesivi. Sono spesso i conoscenti invece a regalare spiacevoli sorprese, come abbiamo potuto provare sulla nostra pelle”.

Qual è la cosa più strana che vi hanno chiesto di fare?
“Non c’è niente di strano o imbarazzante, qualsiasi cosa possa sembrare fuori dai canoni secondo me è uno stigma mentale. Forse però la cosa più particolare è stato quando un nostro abbonato in chat ci ha chiesto di fargli cock rating per 5 euro. Sostanzialmente, consiste nel farti mandare una foto del pene e tu gli dici come ti sembra. Credevamo che fosse una pratica legata all’umiliazione e al sentirsi dire cose tipo ‘è corto’ o ‘è brutto’, ma in questo caso no, il tipo sembrava proprio volere una valutazione oggettiva. Ci ha colti impreparati, era totalmente inaspettato, ma nonostante questo non ci siamo fatti troppi problemi. Questa è una cosa che mi fanno notare tutti i miei amici quando parlo di OnlyFans, tutti si aspettavano qualcosa di molto più simile al porno, pensano che siamo tutti pornoattori. Invece dietro c’è molto lavoro fra riprese, far venire bene le foto o le scene, il montaggio: anche se volessimo farlo, per produrre quel genere di materiale ci vorrebbero attrezzature professionali molto costose, tempo e impegno che per poco più di cinque euro al mese non possiamo permetterci. Stiamo imparando volta per volta a fare le cose bene”.

C’è qualcosa che, se ve lo chiedessero, non fareste?
“Per quanto mi riguarda no, ma Arianna non vuole pubblicare contenuti non di qualità. Vuole sempre essere sicura di pubblicare la foto o il video perfetti, quindi credo che l’unica cosa che non farebbe sia proprio condividere qualcosa che non è venuto bene, o per lo meno come lo aveva immaginato lei. Avevamo fatto un video che non era venuto benissimo, avevamo pensato magari di venderlo lo stesso a un prezzo inferiore e poi invece abbiamo deciso di eliminarlo. Non pubblicheremmo mai contenuti non di qualità, non ci piace l’idea che qualcuno possa condividere qualcosa che ci riguarda in prima persona e di cui nessuno dei due è soddisfatto e secondo me sta proprio qui la consapevolezza di quello che stiamo facendo. Siamo fieri del nostro lavoro, non abbiamo limiti. Troviamo entrambi intrigante il fatto di poter realizzare le fantasie degli altri, ma anche il fatto che ci dicano cosa dobbiamo fare. A me spinge molto questa cosa del farlo per altri, mi eccita molto: le persone mi pagano per essere eccitate ma mi eccito anche io, così ci guadagno il doppio”.

Feedback delle persone? Cosa vi scrivono in chat?
“C’è un ragazzo in particolare che ci scrive sempre ed è estremamente gentile, anche troppo, dice di apprezzare il nostro romanticismo e che guarderebbe solo i nostri contenuti, dice cose molto carine. Quasi tutti parlano inglese, non so bene da dove arrivino, credo che si iscrivano soprattutto tramite Twitter perché Arianna lì ha un po’ di followers. Un altro tizio ci ha scritto che ci guarda spesso con la sua ragazza perché a entrambi piace il nostro rapporto, mi ha fatto un po’ strano che fossero una coppia ma sono apprezzamenti che fanno piacere. Forse il fatto che abbiamo un profilo di coppia spinge di più rispetto alla singola persona perché c’è interazione fra i soggetti, ma se tutto questo funziona è solo grazie ad Arianna: lei avrà l’80 per cento dei fans, molti probabilmente si iscrivono perché c’è lei ‘più me’ e la presenza maschile le dà semplicemente più valore, anche perché è lei che faceva queste cose già prima, è più abituata”.

Un feedback vostro, invece? C’è qualcosa che migliorereste nell’applicazione?
“È una cosa che riempie l’ego, la gente mi paga per vedermi fare qualcosa che amo fare. Sarebbe bello però migliorare l’interazione con gli user. La gente che non mette likes, ma guarda e basta effetto ‘gruppo-Whatsapp’, senza avere un minimo feedback, non ci aiuta a capire se quello che viene pubblicato può essere apprezzato o meno. Un’altra cosa che un po’ ci rende perplessi è l’anonimato degli iscritti: ci allarma un po’ vedere nomi non riconoscibili o irrealistici perché il primo pensiero è ‘chissà chi c’è dietro’. Capisco l’anonimato, capisco che tu non voglia far sapere agli altri cosa guardi, però dall’altra parte dello schermo ci sono persone vere, in carne e ossa, e personalmente puntiamo a un tipo di approccio più personale e vicino con i fans”.

Questa “attività” ha cambiato in qualche modo il vostro rapporto? Come?
“Sicuramente lo ha cambiato in meglio perché è una passione comune, è una delle cose che facciamo insieme e che piace a entrambi. Ci sono coppie a cui piace fare passeggiate o guardare Netflix, a noi piace farci le foto. Sono sempre stato appassionato di fotografia e grazie a questo profilo adesso sto migliorando con la post-produzione, lo stesso vale per Arianna: ci piace fare insieme tutto il processo. Penso faccia bene a una coppia trovare dei passatempi comuni, poi il fatto che a tutti e due piaccia così tanto il sesso aiuta”.

Dal profilo OnlyFans di Michele e Arianna

Nel concreto, quanto avete guadagnato?
“Abbiamo iniziato quasi due mesi fa, per cui non possiamo fare statistiche o dire se convenga o meno cercare di ‘fare i soldi’ su OnlyFans, ma per ora è stata un’esperienza più che remunerativa. Il primo mese abbiamo fatto circa trecento euro fra iscrizioni e il video che abbiamo venduto, per non essere un lavoro ‘da cui pretendiamo il guadagno di uno stipendio è più che buono. Continuano ad arrivare iscrizioni, pensavo si sarebbero fermate e che nessuno prendesse in considerazione i nostri post su Twitter, invece arrivano eccome. Facciamo anche promozioni, sconti di un euro sugli abbonamenti o sui rinnovi e simili e la gente continua a iscriversi. Siamo prossimi ai cinquanta iscritti: un bel traguardo per chi come noi inizia dal nulla, quasi due classi di scuola! Non pensavo ci fosse così tanta gente interessata, né tantomeno tanta gente disposta a pagare per avere qualcosa che fa piacere. Dovremmo sentirci più liberi di fare queste cose, in fondo è come andare al sexy shop: sembra sempre così imbarazzante, eppure fare qualcosa per il proprio piacere dovrebbe essere vista come una cosa normale. Facciamo tutti sesso”.

Come reagiscono le persone quando scoprono quello che fate su OnlyFans?
“I miei genitori non l’hanno presa bene, ma li capisco, appartengono a un’altra generazione. Gli amici invece sono incuriositi: un mio amico scherzando mi chiama sempre ‘il pornoattore’, da un lato non crede che io lo faccia davvero e che davvero ci guadagni dei soldi, ma dall’altra un po’ mi invidia. Molti vogliono iscriversi per supportarci, per mettere likes e aggiungere qualche iscritto al nostro canale, qualcuno addirittura dopo essersi abbonato ci fa i complimenti. Nessuno si scandalizza, ultimamente OnlyFans è diventata molto di moda ed è entrata nella normalità, quindi non stupisce più così tanto. C’è però qualcuno che ancora è abbastanza chiuso sull’argomento, che magari esprime le sue titubanze perché questa cosa potrebbe avere delle conseguenze e dei rischi e in effetti lo abbiamo provato in prima persona, è un hobby che ha più lati negativi di altri. Alcuni si domandano come facciamo a non essere gelosi l’uno dell’altra, in fondo la gente guarda i nostri contenuti e si eccita guardando me o lei ed effettivamente questa cosa potrebbe fare emergere delle insicurezze, ma a entrambi piace l’idea che più persone siano attratte dall’altro senza mettere in dubbio il nostro rapporto. Sapere che c’è chi desidera la mia ragazza mi eccita e me la fa sembrare più attraente”.

Guadagnare facendo ciò che si ama (ma che non si può dire) e accettare che la sessualità faccia parte della nostra vita. Siamo pronti o continueremo a scandalizzarci?

a cura di Gaia Rossetti

Qui il link al profilo OnlyFans di Michele e Arianna.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.