Tennis 2022, tra conferme e volti nuovi un uomo solo al comando: Roger Federer

Tennis 2022, tra conferme e volti nuovi un uomo solo al comando: Roger Federer

Tennis 2022, tra conferme e volti nuovi un uomo solo al comando: Roger Federer

Nadal e Djokovic non si arrendono, arrivano i diciannovenni capitanati da Alcaraz; gli italiani si fanno valere, ma gli applausi più calorosi vanno a King Roger.

Nessuno è più grande dello sport, lo sappiamo bene, ma quest’anno a ottobre per qualche attimo ci siamo dimenticati la nota massima, o forse semplicemente abbiamo fatto finta che non fosse vera. Perché in fondo lo sport ha bisogno di storie da raccontare, storie belle, strane, divertenti, a volte drammatiche; storie di uomini e di donne, racconti che colorino le pagine bianche e che vadano oltre le statistiche e i semplici risultati. E la sua storia è di quelle irripetibili.

Il tennista che ha rubato la scena in questo 2022 ha una caratteristica singolare: non ha giocato nemmeno una partita! infatti Roger Federer, perché è dello Swiss Maestro che stiamo parlando, è sceso in campo per la sua ultima partita ufficiale durante Wimbledon del 2021, perdendo contro Hurkacz.

In realtà a ottobre ha giocato un doppio nella Laver Cup, la ricchissima esibizione che vede il campione elvetico tra gli organizzatori. Lo ha giocato in coppia con il suo amico e rivale di una intera carriera: Rafa Nadal. Per la cronaca quel doppio i due lo hanno perso. Ma il risultato era la cosa meno importante; il dopopartita commovente, il pianto di Roger, e di Rafa, il coinvolgimento totale della audience ha sancito l’eccezionalità dell’attimo tanto atteso e nello stesso tempo temuto: il ritiro ufficiale del basilese.

Per mesi ci siamo illusi che lo avremmo rivisto a Wimbledon o in un altro torneo, ma il suo fisico non era d’accordo. In tanti hanno scritto di lui dopo il suo ritiro; piuttosto che tornare sui suoi otto Wimbledon o sui venti titoli del Grande Slam ci limitiamo a parlare di due riconoscimenti meno conosciuti, ma assai significativi.

Roger durante la carriera ha tenuto un comportamento improntato ad assoluta compostezza e sportività. Se nel passato si è sentito il bisogno di istituire lo “Stefan Edberg Sportmanship Award” anche per incoraggiare una condotta in campo non sempre impeccabile di diversi giocatori, negli ultimi vent’anni lo svizzero ha, dall’alto dei successi e del crescente carisma, “imposto” il fair play; questo prima ancora che la impetuosa irruzione dei social ne consigliasse l’osservanza dei fondamenti a chi volesse curare la propria immagine. Il premio, assegnato dai tennisti stessi, è stato vinto per tredici anni consecutivi dal 2005 in poi proprio da lui.

L’asso di Basilea può infine affiancare, ai titoli Slam e ai tredici sportmanship, diciannove allori nel “Fan’s Favourite Award”, titolo assegnato dai tifosi votanti sulla piattaforma di voto sul sito dell’ATP, che fa suo ininterrottamente dal 2003, quando era solo il giovane vincitore di una edizione di Wimbledon.

Questi premi sono forse marginali ma secondo noi danno la misura del suo immenso impatto nel mondo del tennis e dello sport. Grazie di tutto, King Roger.

I Big Three sono così diventati i Big Two, e che ne è stato di loro? La stagione di Rafa Nadal si può dividere in due parti. Una prima praticamente perfetta con le vittorie a Melbourne e a Roland Garros. Queste due vittorie lo hanno ingolosito e lo spagnolo ha deciso di presentarsi anche a Wimbledon, scelta che forse oggi maledice. Infatti, si è infortunato, probabilmente spingendo oltre il limite il suo fisico. La seconda parte della stagione è stata molto meno soddisfacente: ha perso a Flushing Meadows e alle ATP Finals e a quel punto si è preso una vacanza anticipata saltando la Coppa Davis. La stagione di Novak Djokovic è stata dimezzata da alcune scelte politiche che lo hanno escluso da Melbourne e da New York, ma il serbo ha comunque centrato alcuni traguardi molto importanti tra cui Wimbledon e proprio le Finals.

Anche per quanto riguarda il tennis femminile parliamo prima di tutto di un ritiro, quello di Serena Williams. La campionessa di colore entra di diritto nel gruppo ristrettissimo di campionesse che hanno segnato un’epoca non solo dal punto di vista tennistico. Serena è diventata negli anni un personaggio pubblico esattamente come a suo tempo lo è stata Martina Navratilova o prima di lei Billie Jean King: il tennis femminile, alla ricerca di nuove eroine, perde una straordinaria protagonista. Le è mancato solo il Grande Slam, toltole dalla nostra Roberta Vinci che l’ha eliminata in una storica semifinale a New York nel 2015.

Se invece parliamo di tennis giocato è stato sicuramente l’anno di Iga Swiatek: la tennista polacca ha raggiunto la prima posizione mondiale vincendo ben due prove del Grande Slam e si presenta all’inizio della stagione 2023 come la tennista da battere.

I tennisti italiani hanno avuto una stagione in altalena; forse era lecito attendersi di più dopo il 2021 e invece siamo stati testimoni di qualche stop di troppo per i nostri.

Il punto di svolta della stagione di Matteo Berrettini è stata la sua improvvisa positività al COVID-19 che lo ha costretto al ritiro a Wimbledon. Il giocatore che ha preso il suo posto nel tabellone è arrivato tranquillamente nei quarti di finale dove ha perso da Nick Kyrgios. È lecito pensare che Matteo avrebbe affrontato da favorito il quarto di finale e superandolo non avrebbe nemmeno trovato l’avversario, poiché Nadal ha rinunciato a scendere in campo. Quindi, con un pochino di fortuna probabilmente Matteo avrebbe potuto disputare la finale, esattamente come l’anno precedente.

È andata così purtroppo e il resto della sua stagione non è stato particolarmente esaltante oltre che caratterizzato da due infortuni. Il primo, una piccola operazione alla mano destra, lo ha costretto a disertare l’intera stagione sulla terra battuta; il secondo gli ha praticamente dimezzato la stagione autunnale. Matteo chiude così il 2022 retrocedendo di una decina di posizioni nella classifica.

Anche il giovane Jannik Sinner è sceso più o meno dello stesso numero di posizioni in classifica del romano. Ha giocato bene a Wimbledon dove ha perso al quinto set dal vincitore Djokovic e anche agli US open dove ha perso sempre ai quarti contro Carlos Alcaraz, che poi avrebbe vinto il torneo facendosi anche annullare un match point dallo spagnolo. Qualche rimpianto, belle imprese ma nel complesso non ci sono stati i miglioramenti nel gioco che tutti si aspettavano.

Chi registra un miglioramento nella classifica è sicuramente il ventenne Lorenzo Musetti che è saldamente il numero tre d’Italia. È cresciuto al punto da vincere il torneo di Amburgo in estate battendo in finale proprio Alcaraz. Lo spagnolo, nuovo numero uno del mondo anche per le vicissitudini dei migliori, è la vera novità della stagione appena conclusa.

Per chiudere l’Italia a novembre ha perso una sfortunata semifinale in Coppa Davis al cospetto del Canada che poi ha vinto la manifestazione e stata una grossa occasione persa Ma la squadra c’è, è solida e può riprovare già dal prossimo anno la scalata alla Coppa Davis.

Ci fermiamo qui, ma gennaio si avvicina, con gli Australian Open: da lì riprenderà il nostro racconto.

Buon tennis a tutti!

 

Danilo Gori

Ozzy Osbourne, il Principe delle Tenebre è ancora vivo. Ma lui minimizza…

Ozzy Osbourne, il Principe delle Tenebre è ancora vivo. Ma lui minimizza…

Ozzy Osbourne, il Principe delle tenebre è ancora vivo. Ma lui minimizza…

Buon settantaquattresimo al sacerdote del metal, eminenza assoluta del dark sound. Una vita spesa tra rock ‘n roll ed eccessi. Il peggiore? Un reality.

In tanti glielo chiedono: “Ozzy, sei ancora vivo?”. E lui sorride, sempre. Di recente ha enunciato i suoi mali, tra i quali il morbo di Parkinson, e le medicine che assume per non sentire i dolori vari che lo affliggono. Ma è ancora qua, affiancato dalla seconda moglie Sharon, figlia del produttore discografico dei Black Sabbath negli anni Settanta.

Nascere a Birmingham nel 1948 significa essere baciati dalla buona sorte; implica infatti affacciarsi all’adolescenza ballando al ritmo dei Beatles e dei Rolling Stones. Ozzy è I fatti uno dei nipotini dei Fab Four, un coacervo di giovani musicisti di bellissime speranze che partono dallo steso modello per allontanarsene seguendo strade diverse.

C’è la psichedelia dei Pink Floyd, il prog dei Genesis o dei Traffic; il blues rivisto dei Cream e il rock degli Who. E poi c’è chi comincia a distorcere il suono delle chitarre: Led Zeppelin, e successivamente artisti come i Judas Priest. E come i Black Sabbath di John Osbourne, detto Ozzy dai compagni di scuola, per la sua difficoltà a pronunciare il proprio cognome.

Anni difficili quelli della scuola; si scontra spesso con gli altri ragazzi; in particolare con quello di origini italiane, Anthony Iommi detto Toni, che ogni tanto lo picchia.

Incredibilmente qualche anno dopo I due si ritrovano nello stesso gruppo musicale. Il successo arriva presto, e qualcuno parla addirittura di Sab Four. Il primo disco porta il loro nome, e la hit che apre il lato A, che si chiama anch’essa come la band, è ancora oggi considerata uno dei brani più cupi di tutta la storia del metal. Variazioni di ritmo e di volume, accordi disturbanti e la voce acuta e sinistra del ragazzo di Birmingham che quando parla pronuncia con fatica le proprie generalità.

C’è di più: Ozzy, insieme con altri frontman come Rob Halford o Lemmy Kilmister dei Motorhead, fissa le componenti dell’iconografia dell’hard rocker, tra borchie e giubbotti o gilet di pelle nera.

I Sabbath scrivono testi zeppi di riferimenti alla religione e al diavolo, a droga e disagio mentale. Vengono presto etichettati come band satanica; loro respingono, ma l’entourage capisce che le chiacchiere sulla stregoneria sono funzionali alle vendite ed alla popolarità. Cavalcano quindi l’ambiguità, e in questo Ozzy è un maestro. Tutto bene quindi, ma…

Al successo degli LP successivi (soprattutto Paranoid, con pezzi memorabili come la title track, War Pigs e Iron Man) il nostro reagisce cadendo nella spirale alcool-droghe; nel giro di pochi anni viene licenziato dalla band perché non più affidabile.

È il disastro; Osbourne si dà se possibile ancora di più agli stravizi. A salvarlo giunge Sharon, la sua pazientissima e devota seconda moglie e poi anche manager: lo spinge a reagire e lo aiuta a crearsi una carriera da solista. Fonda i “Blizzard of Ozz” e negli anni ottanta ritrova la via del successo, sempre nel segno del dark sound e degli orpelli diabolici.

Durante un concerto a Des Moines nello Iowa raccoglie un pipistrello e gli stacca la testa con un morso. Presto corre sul filo la notizia della sua morte per un’infezione causata dall’animale, e per un po’ tutti ci credono (non ci sono ancora le notizie in tempo reale). Poi arriva la smentita; Ozzy è vivo, il pipistrello molto meno; era vivo quando l’ha decapitato, anzi no.

Il nostro eroe corre a vaccinarsi e gongola al pensiero del putiferio che sta per scatenarsi: per anni gli chiederanno dell’accaduto, da David Letterman ad altri.

Perché nei decennali alti e bassi, nelle sue discese e risalite, Ozzy si è sempre riproposto al pubblico senza filtri e senza farsi sconti nel raccontare debolezze e follie, come quando nel corso di una crisi di nervi quasi strangolò la consorte; o quando, racconta stavolta Iommi nella sua autobiografia, distrusse una camera d’albergo e vi smembrò il corpo di uno squalo. Forse proprio la sua trasparenza gli ha consentito di essere credibile ogni volta che è salito sul palcoscenico a recitare il suo personaggio, che non è mai uscito di moda.

Credibile anche quando prende parte anche al film “Trick or treat”, in italiano “Morte a 33 giri”, nella parte di un religioso oscurantista che vede il diavolo ovunque. E il diavolo, forse stanco di sentirsi osservato da lui, lo possiede seduta stante.

E soprattutto quando, sotto la guida di Sharon, è il protagonista nei primi anni del secolo del reality “The Osbournes”, gioioso e folle TV show che entra nella casa del cantante e ne segue le vicende familiari.

Sembra un assurdo che il demonio si presti a situazioni da piccolo schermo, ma è un grandissimo successo personale. La rockstar spettacolarizza anche l’intimità dei suoi cari, e nelle interviste successive non ha problemi nell’ammettere come i suoi figli adolescenti abbiano sofferto di reali problemi di dipendenza dalle droghe negli anni delle riprese televisive.

E, visto il favor di pubblico, perché non insistere? Venti anni dopo, nel settembre del 2022, la coppia annuncia l’arrivo di una nuova sit-com che celebrerà i settant’anni di Sharon, la figlia Kelly che diventa madre e, ovviamente, le gesta del capofamiglia. La promessa di divertimento, risate e lacrime è già stata lanciata, il titolo Home to roost (letteralmente “a casa per riposare”, ma anche “situazioni spiacevoli”, secondo una frase idiomatica) è tutto un programma. Televisivo.

Negli anni non si è fatto mancare nulla; ha diversificato la sua arte e, forse, agli occhi di alcuni fan della prima ora, è parso svendersi. In realtà, senza considerare che il maligno non dovrebbe avere troppi scrupoli di coerenza, l’anziano istrione non ha mai dimenticato la propria natura primigenia di Padrino del metal, che è poi un altro dei titoli che si possono utilizzare per chiamarlo in causa.

Sul palco la sua presenza carismatica attraversa i decenni per giungere ancora più potente ai nostri giorni; vedere per credere le immagini del concerto di Birmingham del 2017. I video dell’evento, chiamato “The End” proprio perché il loro ultimo gig insieme, ci mostrano un Osbourne muoversi ondeggiando in avanti e indietro, aggrappato all’asta del microfono. 

A differenza di quella di Paul Stanley, leader dei Kiss, o di Geddy Lee, bassista e cantante dei Rush, la voce di “The Ozz” è incredibilmente intatta. Parlare di un patto con Belzebù, con lui è fin troppo facile. Quale sia il filtro magico che ha inghiottito prima di salire sul palco davanti alla sua gente, la figura sinistra, segnata dal tempo eppure così vispa, il sorriso enigmatico e la risata satanica mandano ancora in visibilio i fan.

E lui, affiancato dal suo miglior nemico (o peggior amico, fate voi) Toni Iommi, torna ad officiare il rito di quella misteriosa religione che è l’heavy metal; lui che tanti anni prima ha contribuito a scriverne le tavole della legge.

Lunga vita a te, Principe delle tenebre. God bless you!

Danilo Gori

“Tutto è iniziato da”…l’incipit della mia storia d’amore con la scrittura

“Tutto è iniziato da”…l’incipit della mia storia d’amore con la scrittura

“Tutto è iniziato da”…l’incipit della mia storia d’amore con la scrittura

Dai miei primi passi nel mondo della scrittura fino all’approdo in IOVOCENARRANTE, il tutto raccontato a un gruppo di studenti e studentesse

Tutto è iniziato da una pausa.

Ero infatti in camera mia, alla scrivania e vagavo con la mente durante una pausa dallo studio.

A un tratto, scrollando la bacheca di Facebook, noto un post. Era un annuncio in cui si presentava una rivista online nata da poco: Iovocenarrante.

Si cercavano nuovi partecipanti.

Così, tra me e me, dissi: “Perché no?”.

Quindi risposi e da quel momento varcai la soglia di un meraviglioso universo di possibilità.

Diventai pertanto inviata di Iovocenarrante. Avrei approfondito la categoria del teatro, ma avendo l’opportunità di spaziare tra mille altri ambiti.

Ebbene sì, la rivista mi aveva consentito di realizzare un sogno che portavo nel cuore: scrivere.

Quindi ho assistito a conferenze, a spettacoli teatrali, ho intervistato artisti e persone estremamente arricchenti.

Tali vite si sono intrecciate alla mia, in un barlume di esistenza. Ho così dato voce al mio cuore tramite gli articoli che realizzavo.

Tuttavia, non sapevo che un’altra avventura sarebbe stata lì pronta ad attendermi.

Così, tutto è iniziato con un atto di fiducia.

Infatti, un’amica, Chiara Lavenoni, insegnante di materie umanistiche presso la Scuola Secondaria di Primo Grado Giovanni XXIII di Rudiano (Bs) avanza la proposta di un’iniziativa.

Una magnifica iniziativa!

Avrei dovuto, infatti, presentare la mia esperienza di inviata e di scrittrice di articoli per Iovocenarrante. Il mio pubblico sarebbe stato un gruppo di alunni e alunne aderenti al progetto del Giornalino scolastico, da lei stessa ideato.

Così varcai la soglia della scuola, arrivando in loco un’ora in anticipo, tanta era l’ansia mista a felicità da cui ero pervasa!

Ecco: gli alunni e le alunne, dodicenni, fanno il loro ingresso nella classe adibita. Mi osservano con i loro occhi attenti e vispi. Nelle menti si diramava la curiosità più luminosa.

Le loro espressioni sono inestimabili.

In seguito, la Professoressa Lavenoni e il Professor Sberna, docente di matematica, mi presentano con fiducia.

Un respiro. Sono pronta.

Inizio a raccontare chi sono, compiendo un viaggio indietro nel tempo.

E narro loro del colpo di fulmine tra me e la scrittura, avvenuto a casa dei miei nonni, in un giorno d’estate.

Riporto quindi alla memoria la promessa fatta a me stessa, anni prima: scrivere per il mio cuore, liberandomi dal timore del giudizio altrui.

Così la narrazione cresceva e, come un albero, piantava radici e prendeva respiro con mille rami.

E il vento che muoveva le fronde erano le domande acute e brillanti del mio giovane pubblico.

In seguito, ho mostrato il sito di Iovocenarrante, il sistema di WordPress, alcuni dei miei articoli. Il palcoscenico e il backstage.

Ebbene in quel momento mi sono resa conto di quanto il mondo della rivista mi abbia dato la possibilità di migliorare il mio stile.

Mentre la mia vita cambiava, cambiava anche la mia scrittura, legata ad essa.

Così ho compreso quanto Iovocenarrante sia un trampolino di lancio, che consente di intrecciare la propria esistenza ad altre vite meravigliose, come in quel caso.

Porterò sempre nel cuore l’immagine di quelle mani alzate, di quei germogli di futuro verso i quali nutro la più genuina fiducia e la più profonda gratitudine. Come compito, infatti, avrebbero realizzato un articolo riguardo questo incontro.

E poi…una domanda: “Prof, Maria tornerà ancora da noi?”.

E poi…Gioia pura.

Maria Baronchelli

Sono Maria Baronchelli, studio Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano. La lettura e la scrittura hanno da sempre accompagnato i miei passi. Mi nutro di regni di carta, creandone di miei con un foglio e una penna, o una tastiera. Io e i miei personaggi sognanti e sognati vi diamo il benvenuto in questo piccolo strano mondo, che speriamo possa farvi sentire a casa.

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Quarantatré anni dopo la sua uscita, “The Wall” è un concept album ancora attualissimo per l’universalità dei temi trattati sulla condizione umana, dallo straniamento all’impossibilità di comunicare.

Andare oltre il Muro leggendo i testi dell’opera rock “The Wall”, è un esercizio che ci permette di ritrovare alcuni temi che si andavano imponendo alla sensibilità della band inglese. I Pink Floyd erano all’apice del loro successo con il tour precedente legato all’album “Animals”; le cifre di vendita e le presenze ai concerti sono sbalorditive e cresce nel leader di quegli anni, il bassista e cantante Roger Waters, la vertigine e la sensazione che il megaconcerto sia un luogo dove non ci sia un vero incontro, ma una festa vuota, dove si erge un bastione invalicabile tra la band e la gente. Il doppio vinile uscito nel novembre del 1979 ha le sue radici quindi nel precedente tour mondiale dei Pink.

Straniamento, impossibilità di raggiungere i fan, alienazione mentale; quest’ultima è una impressione forte nel gruppo, che alcuni anni prima ha visto uscire dalla formazione il fondatore Syd Barrett proprio per progressivi disturbi mentali. Il muro della copertina, completamente bianco di mattoni tutti della stessa dimensione, ci ricorda le pareti immacolate e Marcello Mastroianni con la frusta in mano, regista in crisi che non sa più cosa dire e come dirlo del capolavoro felliniano “8 e ½”.

Nel primo vinile dominano la paura e le domande. Certo la paura della guerra, che priva il piccolo Roger del padre, caduto nella Battaglia di Anzio del 1944, e che si palesa con il rumore degli aeroplani nella prima traccia “In the flesh?”. Ma anche quella di vivere.

Da qui in avanti si impone la figura della madre, che instilla nel figlio le proprie fobie: in “The thin ice” lo mette in guardia dal rischio di camminare sul “ghiaccio sottile della vita moderna”. Ricorrono le parole fear (paura, appunto), reproach (rimprovero) dei milioni di occhi rigati di lacrime (tear-stained), ossia il ricatto dei cari in pena per il piccolo. Quando il ghiaccio si rompe il bambino cade nell’abisso ed esce di testa (out of his mind). La scena si completa con l’immagine del figlio spaesato che si aggrappa al ghiaccio frantumato.

Nella canzone “Mother” ritorna il terrore della guerra, del non essere accettato, dell’essere bullizzato come accadeva a scuola; la paura di soffrire per amore. Tutto viene espresso con domande che Waters pone alla madre: “mamma, pensi che sganceranno la bomba? Che la mia canzone piacerà? Che io mi potrò fidare del governo? Mamma, mi spezzerà il cuore?

Ai suoi dubbi risponde il chitarrista David Gilmour, che, come controcanto, utilizza le parole nightmare (incubo) e di nuovo fear, e per contrasto afferma che la madre lo terrà cozy and warm (coccolato al caldo), che gli sceglierà le fidanzate, ma che lo terrà sempre d’occhio.

Nella tripla “Another brick in the wall” parte prima e seconda e “The happiest days of our lives” Waters ricorda i professori che evidenziavano le debolezze (weakness) dei bambini, e immagina gli stessi a casa frustrati e succubi di mogli psicopatiche, di nuovo parlando di disagio mentale, come visto in precedenza. Il coro degli alunni che chiedono urlando “non abbiamo bisogno di questa educazione, professori, lasciate i ragazzi da soli” è uno dei pezzi più famosi dell’opera e della musica moderna in generale; quasi un sogno, il desiderio del giovane Roger.

La riflessione sulla guerra ritorna in “Goodbye blue sky”, ed è la fine dell’innocenza. Ritornano gli uomini spaventati (frightened), che scappano. Ritornano le domande: “perché scappiamo se ci avevano promesso un mondo nuovo sotto un cielo blu chiaro?”.

Pink (questo il nome del protagonista, alter ego di Waters) è ormai adulto ed è diventato una rockstar, ma il suo processo di alienazione prosegue; sta costruendosi il muro che lo separa da tutto. Affronta una crisi (One of my turns) e domanda alla donna che è con lui se vuole dormire, fare l’amore o imparare a volare (la vuole uccidere?) o se vuole vederlo volare. “The Wall” è ormai costruito.

Nel secondo vinile il protagonista prende la scena, e i testi si soffermano maggiormente sulle sue azioni; la madre, l’assenza del padre, il maestro e la moglie lo hanno aiutato a porre mattoni su mattoni.

Ora assistiamo alla sua ricerca di qualcuno oltre la parete. In “Hey you” domanda aiuto e chiede se qualcuno lo sente. Come sempre nel tentativo di risalire ci sono momenti in cui tutto sembra vano, e una voce dice: “il muro è troppo alto, e i vermi gli stanno mangiando nel cervello”, con un nuovo riferimento all’aspetto psichico. Nel finale appare però anche uno sguardo al futuro: “hey tu, non dirmi che non c’è speranza; uniti resistiamo, divisi cadiamo”.

Pink si rende conto che a casa non c’è nessuno, che è da solo; nella famosissima “Confortably numb” (Piacevolmente intontito) vince le paure che ne derivano con delle pillole, e in una traccia precedente c’è un riferimento alle siringhe. Anche il ricordo del passato e del padre sembra scomparire.

In “The show must go on” Pink continua a riflettere, prega i genitori di riportarlo a casa, e si chiede: “è troppo tardi?”. È forse possibile invertire la strada intrapresa?

Forse lo sarà, ma il protagonista dovrà passare attraverso un incubo in cui il suo altro è un dittatore che cerca i diversi, neri, ebrei o omosessuali. Allora aspetta che il delirio passi, per prendersi una pausa (“Stop”) e di nuovo chiedersi: “è sempre stata colpa mia?”.

La redenzione passa attraverso il processo (The trial). Riappaiono quindi il maestro e la madre, i rimproveri e le offerte di rifugio sicuro nella casa di quando era bambino.

Il giudice lo dichiara quindi colpevole di aver fatto soffrire tante persone, e lo condanna a tornare in mezzo ai suoi pari. Pink deve riprendere a mostrare le sue paure più profonde. Il muro va abbattuto! La sua salvezza passa proprio attraverso le angosce di esporsi.

Le parole dell’ultima traccia, “Outside the wall”, ossia “Fuori dal muro” sono forse una riflessione generale sui rapporti umani: le persone buone, che ci vogliono bene, ci sostengono e ci fanno stare in piedi. Alcuni cadono, dopotutto non è facile resistere quando si sbatte contro il muro di un idiota matto.

I rapporti umani si interrompono contro le pareti che, a turno, ognuno di noi alza e abbassa, senza soluzione di continuità.

 

Danilo Gori

Matrix International: la collezione Experience

Matrix International: la collezione Experience

Matrix International: la collezione Experience

OForme geometriche, precisione e tanta maestria sono solo alcuni degli aggettivi che descrivono la collezione di Danilo Fedeli: Experience.

Al Salone del Mobile.Milano 2022 Matrix International presentava la collezione Experience disegnata da Danilo Fedeli che ora si completa con il tavolo LINE-UP e i tavolini LINE, rappresentazione della sintesi formale raggiunta attraverso l’innovazione tecnologica. Matrix International lanciava a giugno la collezione Experience, firmata da Danilo Fedeli, frutto di una ricerca non solo di stile ma di soluzioni nel rispetto dell’ambiente.  Una ricca serie che si articola in divani componibili, poltrona, madia e sedie; arredi coordinabili nati da un percorso progettuale radicale di analisi dell’idea del bello contemporanea con l’obiettivo di evolverla verso le reali esigenze della nostra quotidianità.

Valori come la durabilità implicita nella qualità più elevata determinano a monte di rivedere il ciclo produttivo e a valle una vita virtuosa del prodotto che possa essere disassemblato e riciclato. Experience si sviluppa intorno a un’idea centrale: l’uso dell’estruso di alluminio da cui prendono forma i supporti dei vari arredi che quindi risultano parlare un unico linguaggio. La forma rigorosa, geometrica dell’elemento portante diventa il tratto riconoscibile della collezione Experience.

Tavolo LINE-UP, design by Danilo Fedeli

 

Proprio come avviene per il tavolo LINE-UP e i tavolini LINE che ora entrano nelle nostre case: una serie di tavoli e tavolini fissi caratterizzati dalla forma rettangolare e dalle importanti proporzioni che ne definiscono un aspetto rigoroso e scultoreo. La struttura portante realizzata in acciaio è frutto della tecnologia impiegata che diventa anche protagonista estetica di LINE-UP. Le quattro gambe collegate a portale si innestano sullo spessore del piano con un preciso taglio a 45 gradi. Il piano realizzato in materiale tecnico stratificato con doppia lamina di alluminio garantisce elevate prestazioni fino a dimensioni di cm 300. Elevate caratteristiche di resistenza al graffio e di resistenza alle alte temperature rendono LINE-UP in grado di interpretare un ruolo da protagonista sia negli spazi domestici che quelli di lavoro. Il piano lavorato ed accoppiato a bisello rimane in aggetto rispetto alla struttura portante, conferendo così un aspetto aereo al progetto.

I piani sono disponibili in diverse finiture ed in diverse colorazioni per soddisfare il maggior numero di esigenze. Alla collezione si aggiunge la gamma dei tavolini LINE che riproporzionati nelle dimensioni ne condividono estetica, materiali e finiture. La sensibilità progettuale del designer ha conquistato ed orientato la produzione di Matrix International, generando una collezione tecnicamente evoluta e con un’identità tale da poter dialogare col mondo.

Per altri articoli simili, clicca qui.